Verso la fine della nostra chiacchierata faccio a Paola Cortellesi LA domanda: “Ci sarà un’opera seconda, sì?”. «Mo’ valla a fa’ un’opera seconda», ride lei. «Come dice Forrest Gump dopo che ha corso per tutta l’America: “Sarei un po’ stanchina”, perché ci abbiamo lavorato due anni a questo film. Sicuramente sarà bello fare un’altra cosa, però non credo si senta il bisogno di me come realizzatore. Se succederà è perché avrò voglia di raccontare un’altra storia». Però la voce di Paola Cortellesi in questo momento sta facendo la differenza: «Speriamo. Stanno accadendo cose molto belle intorno a questo film, mi fa piacere che si colgano gli aspetti che mi interessavano di più».
Già, perché C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi, è un film-manifesto. E lo è a più livelli. È un film-manifesto contro la violenza sulle donne, un film-manifesto sui diritti delle donne, è un film per le ragazze, ma anche per i ragazzi, di domani. Quando le dico che da mamma di una bimba che ha appena 17 mesi echeggia potentissimo, risponde: «Credo che risuoni immediatamente alle madri qualunque sia l’età dei loro figli. Anzi, che tu ne abbia una piccolissima mi fa pensare, perché poi invece mi arrivano queste stesse considerazioni da mamme che hanno ragazze di 17 anni. Contano molto le domande che ti poni per la crescita dei figli, femmine ma pure maschi».
E non a caso il film è dedicato “a Lauretta”, figlia della Cortellesi (e di Riccardo Milani) che ha anche un primo piano nel lungometraggio: «Lei è arrivata sul set totalmente inconsapevole, e in un certo senso anch’io. C’erano due bambine in una scena che si vedevano appena, e quindi le ho chiesto di venire quel giorno così, per gusto mio. Ed era anche un po’ contrariata per il fatto di dover perdere un giorno di scuola. Mi ha chiesto: “E come glielo diciamo?”. “Vabbè, scrivo alla preside, le spiego la situazione, solo per un giorno, non fai mai assenze… insomma, stai tranquilla”. Alla fine è venuta tutta contenta, farà 10 anni a gennaio e non è particolarmente affascinata da quello che facciamo nel nostro lavoro, è la sua vita, è normale. Un po’ poco poeticamente, non gliene frega granché», ride Paola.
Che però a Lauretta e non solo ha lasciato un gran bel messaggio per il futuro: «Be’, è la mia musa, è lei che mi ha ispirato tutto. Il finale del film è nato leggendo un libro per bambini sui diritti delle donne nella storia, lei naturalmente era incredula, mi chiedeva: “Ma veramente?”. Ho pensato che le ragazze del futuro, che per questioni anagrafiche non hanno memoria di quel passato, debbano sapere. Comunque alla fine Lauretta è venuta sul set e si è divertita, Quello sguardo in primo piano è avvenuto per caso. L’ha fatto e io: “Ok, facciamone una larga e una stretta. Me lo rifai Laure’, che era tanto bello?”». Insomma, Paola Cortellesi subito in piena modalità regista. Ride. «C’è stato uno sguardo d’amore perché era molto seria nell’assolvere al suo compito, mi ha lanciato un sorriso e ho pensato che un sorriso in quel momento a Delia, la mia protagonista, avrebbe fatto piacere, soprattutto da parte di una ragazzina che non c’entra niente col suo mondo».
Un film-manifesto, dicevamo, anche di Paola Cortellesi come artista, è la sua essenza: Valerio Mastandrea, che in C’è ancora domani interpreta il marito violento di Delia, ha detto del film: “Paola ha fatto l’opera prima più difficile e coraggiosa di tutti noi, che arriverà alle persone con una forza che solo lei mette in quello che fa”. «Che bello… vabbè, c’è da dire che siamo un po’ famiglia con Valerio, è tutto filtrato da un’amicizia profonda». Immagino, però è anche un’analisi molto lucida: «Non so se è stato un film coraggioso, so che è stato spericolato, però non ho visto il pericolo, non mi sono posta molte domande, ho fatto quello che volevo fare. E l’ho fatto anche con un’opera prima che arriva alla soglia dei cinquant’anni, ho tante ore di volo in questo mestiere, sicuramente ci ho messo una consapevolezza che non avrei avuto a trent’anni. Ma era anche l’unico modo di realizzare questo film».
Ci sono dentro i ricordi delle nonne: «Non è autobiografico, ma ho usato i racconti della mia infanzia, quello che accadeva nei cortili, con ’ste grida che arrivavano… E non c’erano solo i pettegolezzi, c’era anche solidarietà, perché era anche storia comune. La condivisione nel film sta nella comare acida, la straordinaria Silvia Salvatori, che fa un piccolo gesto nei confronti della figlia di Delia, Marcella (Romana Maggiora Vergano, nda), che esce di casa, dove si sta per consumare l’ennesimo atto di violenza, e la invita a sedersi vicina e lei. Quel dettaglio dipinge quelle donne là, che potevano essere terribili, spietate, però era la condizione di tutte. E quando c’era da essere solidali lo erano, senza tanti filtri».
Ed è proprio questa ispirazione che guida anche il look del film, il bianco e nero, gli omaggi ad Anna Magnani, al neorealismo rosa: «Tu non te lo puoi ricordare, ma esisteva il LunedìFilm, che si apriva con una canzone di Lucio Dalla (nel film di Paola c’è La sera dei miracoli, nda), e ad agosto passavano i vecchi film, magari riproponevano Risate di gioia, I soliti ignoti o Abbasso la miseria! alle tre del pomeriggio, io li vedevo con papà che era molto appassionato. E poi c’era il film importante del lunedì, che magari era una nuova visione, anche che se non so quanto potesse essere nuova, perché allora il cinema durava tantissimo: c’era il cinema d’essai, c’era la terza visione…», spiega Cortellesi. «Quindi io sicuramente avrò avuto negli occhi quel cinema là, che raccontava l’epoca della mia nonna e della mia bisnonna. Me lo sono immaginata così. Questo per dire che non è ’sta grande scelta stilistica», ride, «è stata una cosa più istintiva».
E lo stesso vale per i toni che mescolano dramma e commedia, shock e sorriso: «Non vedo mai un registro solo, non ci credo, trovo complete tutte le opere che affrontano più registri, poi io so fare quello. Mi è capitato anche di interpretare personaggi soltanto drammatici, però la verità, la vita vera sta in tutte e due, nella coesistenza». È quel naturale istinto alla leggerezza (che non è superficialità, sorriderebbe lei) di Paola. «È un bel veicolo, ti trasporta ovunque, vai leggero da una parte all’altra e riesci a immedesimarti. Altrimenti cala un muro, ti senti distante dalla storia».
In questo senso Mastandrea aveva il personaggio in cui era più difficile trovare questo equilibrio: «Doveva essere spaventoso, ma doveva essere anche un coglione, questo non so se si può scrivere». Su Rolling si può tutto. «Ecco, sì: doveva essere un idiota», dice Cortellesi. «Lo abbiamo strutturato in sceneggiatura con Furio Andreotti e Giulia Calenda, ci abbiamo pensato molto, abbiamo calibrato ogni piccolo dettaglio. E insieme a Valerio abbiamo fatto le finiture al millimetro di questo personaggio. Nelle tre settimane di prove abbiamo deciso tutto, minuto per minuto, compresi i suggerimenti del cast che sono andati a copione. Una volta sul set la sceneggiatura era quella, perché poi dovevo occuparmi di talmente tante cose che non potevo pensare nemmeno alla mia di recitazione, doveva essere già stabilito tutto. E devo dire che ha funzionato».
E poi c’è Emanuela Fanelli, nei panni della migliore amica della protagonista, quella che le dice “devi mollare questo stronzo” e con la quale ritrova un po’ di leggerezza, appunto. «Con lei ci capiamo al volo, Emanuela non somiglia a nessun altro, ha un umorismo tutto suo che è di un’originalità spiazzante, è capace di molti colori e di molti registri. Gli attori che amo sono quelli che hanno questi doppi registri nell’interpretazione. Penso che sia veramente una perla rarissima. E lo stesso modo di lavorare c’è anche in Giorgio Colangeli (nei panni del terribile suocero, nda), che dice delle cose terribili e poi riesce a farti sorride con quelle sue teorie strampalate sull’accoppiamento tra cugini».
Come cambia l’opinione sugli attori quando si passa dietro la macchina da presa? «Non ho guardato sempre gli altri attori con questo occhio, o forse in qualche modo l’ho fatto in tutti questi anni di lavoro: ho sempre collaborato con gli altri guardando alla loro capacità di intonarsi, di intenderci, questo valeva anche per me, naturalmente. Faccio l’esempio di una persona che non c’entra con questo film, ma che è un grande attore: Antonio Albanese, con il quale ho lavorato tantissimo. Io con Antonio ho un’immediata capacità di intonarmi ed è qualcosa che non puoi misurare con il talento, perché ce ne sono di grandi talenti. Lo misuri invece con l’ascolto dell’altro. È proprio un’armonia».
Una riflessione che ovviamente ha parecchio a che fare con la scelta del cast: «Non mi va di dire che ho scelto questi attori, perché mi pone su un piano che non è il mio: io li ringrazio di aver accettato di fare questo film. E parlo di alcuni dei nostri interpreti più noti, che tutti vorrebbero: Emanuela, Vinicio (Marchioni, nei panni dell’amore di gioventù della protagonista, nda), Valerio, Giorgio. Non è stata una scelta, è stato il meglio che io ho pensato per questo film. E questo gruppo di migliori ha detto “sì”. Hanno tutti questa capacità straordinaria, e lo intendo letteralmente: “fuori dall’ordinario”. C’è la bravura, la capacità di interpretare bene. Poi c’è questa capacità di poter svolazzare da un registro all’altro con un’agilità impressionante».
Il primo ciak solitamente è un momento spaventoso per i registi “debuttanti”: «Sono stata fortunata perché è stato con Paola Tiziana Cruciani, altra attrice pazzesca, nella scena della merceria. E devo dire che mi ha molto tranquillizzato. E poi abbiamo fatto tanto lavoro insieme, ci siamo riuniti con tutti i reparti tecnici, che non sempre sono chiamati a leggere il copione o a partecipare della storia. Qui invece abbiamo fatto tutti insieme il tifo per il nostro lavoro, che non era il mio, era proprio nostro, di tutti quanti. Era uno squadrone che si muoveva, non era il mio primo ciak, è stato il nostro. L’ho diviso con tutti e questo mi ha molto alleggerito».
Ad aggiungere al messaggio di C’è ancora domani quella contemporaneità che ti arriva come un pugno ci sono una serie di brani: «Mi hanno guidato le canzoni, io sono – e forse si è capito – una nerd fissata con tutti i generi musicali. Ascolto tutto, dai Jon Spencer Blues Explosion ai primi Outkast». In particolare, ci sono un paio di sequenze indimenticabili: «Stavo ascoltando Nessuno interpretato da Musica Nuda di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti. Di solito conosciamo quel pezzo nella versione gioiosa di Mina, che promette amore per l’eternità. Nella performance di Petra Magoni c’erano invece delle note così dolenti e questa eternità, più che una promessa d’amore, era una condanna». La violenza domestica allora diventa una coreografia: «Eravamo in scrittura e mi ha ispirato questa routine, perché era una sorta di rituale che si consumava. Poi mi sono fatta aiutare da due grandi professionisti: una coreografa, Roberta Mastromichele, e uno stunt coordinator, Paolo Antonini. È stato bellissimo lavorare insieme a come tradurre questa cosa forse un po’ folle, che poi folle non è perché quando lo vedi secondo me è molto naturale».
Al centro di un’altra scena c’è invece A bocca chiusa di Daniele Silvestri: «Ho ascoltato il brano la prima volta guardando Sanremo nel 2013 e ho pensato che fosse un capolavoro. E tra l’altro stavo allattando mia figlia che era appena nata, vedi che poi tutto torna… Non ho pensato a questo quando ho pensato alla canzone, non voglio fare la romanticona, però poi, quando Daniele ha visto il film nei giorni scorsi, ho ripensato a quel momento», sorride Paola. «Il pezzo riunisce in sé un’idea di collettività, di sentirsi parte di una comunità. E anche lì mi ha guidato la canzone, sono i pensieri di Delia sul finale: si sente parte di un tutto, non è più sola, ha ricevuto il permesso di contare e lo ha ricevuto da qualcuno che conta più dei suoi torturatori casalinghi».
Ora Paola è partita per un lungo tour in tutta Italia, «isole comprese», sottolinea, perché è chiaro quanto tenga a questo film: «Spero che lo vedano in tanti, quando fai qualcosa è bello ricevere il plauso della critica, però la sala emozionata vince sempre su ogni cosa. Che non risulti offensivo nei confronti di nessuno, apprezzo tutto. Ma è proprio la sala che dà un senso a quello che facciamo».
Ci lasciamo con una battuta: e se Silvana, la mitica finta inviata della Vita in diretta, intervistasse Paola Cortellesi regista, cosa direbbe? «“Li mortacci tua Paole’, mi hai fatto piagne!”, direbbe la pòra Silvana, “Che mi è venuto un magone, ma aiutami a dire un magone, che la metà basta”».