‘Unwanted’: loro, e noi
Una nave, due mondi, una serie per raccontarli. Ci hanno provato in tanti ad adattare ‘Bilal’, il reportage di Fabrizio Gatti sul suo viaggio “dalla parte dei migranti”. Ci è riuscita Sky, che ha schierato in prima linea Stefano Bises, specialista in adattamenti di grandi libri-inchiesta (leggi: ‘Gomorra’ e ‘ZeroZeroZero’). Il risultato è un affresco realistico e impressionante che ci costringe a ribaltare il punto di vista, perché «oltre la fredda dimensione statistica esistono moltitudini di persone»
Foto: Gabriele Micalizzi
Nel 2003 Fabrizio Gatti decide di distaccarsi dalla rilassatezza e dai ritmi pacati che informano la redazione milanese del Corriere della Sera per mettere le scarpe scomode, sporcarsi le mani e intraprendere un lungo viaggio sulle rotte della cosiddetta “immigrazione irregolare”: un pellegrinaggio che, nell’arco di quattro anni, lo avrebbe portato ad addentrarsi in solitaria per il Senegal, il Mali, il Sahara, il Niger con il deserto del Ténéré e la Libia.
Se state pensando che si tratti di un disegno un po’ folle e masochista, be’, sappiate che non finisce qui: per complicare ulteriormente le cose e affrontare la spedizione con la giusta dose di realismo, Gatti sceglie di rinunciare a ogni comodità connessa alla condizione di vantaggio di chi ha avuto la buona ventura di nascere in quella porzione di mondo che, di solito, definiamo acriticamente come “giusta”. Tradotto: abbandona orologio, portafoglio, telefonino e passaporto nella cassaforte della redazione, si cala nei panni di un migrante irregolare e assume in toto la prospettiva psichica, economica e interiore di chi sceglie di lasciare tutto indietro e partire, senza sapere a cosa andrà incontro. È consapevole che fare proprio questo punto di vista è la conditio sine qua non fondamentale da soddisfare per distaccarsi dalla fredda dimensione statistico-numerica con cui, di solito, viene narrato il fenomeno migratorio: il suo obiettivo non è quello di combinare dati e grafici per generare compassione o facile indignazione, ma raccontare delle storie.
La nuova identità che Gatti sceglie di vestire per incamminarsi in questo tragitto è quella di Bilal Ibrahim el Habib, un rifugiato iracheno che tenta di fuggire dalla guerra in Kurdistan. «Ho scelto il nome “Bilal” per una ragione poco poetica e molto pragmatica: era il più semplice da ricordare», spiega. All’inizio, adattarsi al nuovo ruolo non fu semplice: «La mia faccia da milanese rischiava di tradirmi e per abituarmi al nuovo nome ci ho messo un po’ di tempo, ma alla fine mi è andata bene», ricorda. «L’obiettivo del viaggio di Bilal era quello di restituire un nome, un cognome, un’età, un’ambizione personale e una ragione della partenza a persone che, ai tempi, tendevamo a spersonalizzare etichettandole in modo impreciso e scellerato come “clandestine” o “irregolari” e che, ancora oggi, finiscono per diventare loro malgrado protagoniste in negativo del dibattito pubblico. Quello che ho scoperto è che non esiste la “migrazione”, ma esistono moltitudini di persone».
Con pochi soldi in tasca, un borsone di vestiti leggeri e la colla sulle dita per nascondere le proprie impronte e non essere identificato, Gatti è salito sui camion che attraversano il deserto del Sahara e portano migliaia di migranti sulle coste del Nordafrica. Ha incontrato terroristi di Al-Qaida e scafisti senza scrupoli, si è infiltrato tra i trafficanti, ha lavorato come autista di un boss, è stato recuperato in mare e infine è sbarcato a Lampedusa, isola simbolo di speranza e rinascita, dove arriva e se ne va ogni anno l’equivalente in abitanti di una città grande come Messina.
I prodotti finali di questa specie di Odissea del Terzo Millennio furono dei pregiati reportage pubblicati per il Corriere della Sera e L’Espresso, che nel giro di qualche anno vennero ricondotti a sistema da un editore illuminato che ebbe l’intuizione di farne un bestseller internazionale: Bilal – Viaggiare, lavorare, morire da clandestini, pubblicato originariamente nel 2007 e ristampato in un’edizione aggiornata dai tipi de La Nave di Teseo. Un caposaldo della narrativa d’inchiesta nostrana premiato in tutta Europa, vincitore tra gli altri del premio letterario internazionale Tiziano Terzani 2008, dello Human Rights Award 2014 e del premio Ryszard Kapuścinski 2021.
In Bilal tutto è tremendamente reale: le tappe, le macchine che si rompono lungo strade deserte, le notti di febbre, i piazzali degli autogare, i centri di detenzione, le barche che affondano, le torture, le violenze sessuali, lo sfruttamento nei campi. Potremmo considerare Bilal come un reportage nel senso più profondo di indagine dell’umano come confine: di scelta, di coraggio, di rischio, di paura.
Trasportare nello spazio della finzione televisiva un’opera complessa, stratificata e polifonica come Bilal era un’impresa difficile. Ci hanno provato in tanti, e alla fine ci è riuscita Sky Italia con Unwanted – Ostaggi del mare, la serie prodotta da Sky Studios, Pantaleon Films e Indiana Production in arrivo il prossimo 3 novembre su Sky e in streaming su NOW, diretta dal regista tedesco Oliver Hirschbiegel (La caduta) e interpretata tra gli altri da Marco Bocci e Jessica Schwarz. «La serie nasce dall’incontro di Bilal con la sensibilità di quattro persone speciali: i produttori Nils Hartmann e Sascha Rosemann, il regista Oliver Hirschbiegel e lo sceneggiatore Stefano Bises. Vedere trasformate in immagini in movimento le parole del mio libro è stata un’emozione indescrivibile, ma anche l’inizio di una nuova tappa di questo lungo viaggio», spiega Gatti.
Il motivo ispiratore della serie è l’output di un’ingegnosa intuizione di Stefano Bises, sceneggiatore di lungo corso e autore di altre opere tratte da inchieste giornalistiche di culto, come Gomorra – La serie e ZeroZeroZero. In soldoni: quando si tratta di trasmutare un lavoro di cronaca in un’opera di finzione, mantenendo l’ambizione di parlare al presente, solitamente ci si rivolge a lui.
In particolare, Bises ha scelto di lasciarsi ispirare liberamente dalla prosa di Gatti per concentrare il patrimonio di significati umani, civili e sociali dell’inchiesta in uno spazio circoscritto: le scene iniziali di Unwanted ci accompagnano nel microcosmo della Orizzonte, una nave da crociera piena di turisti occidentali che si trova nella situazione di dovere trarre in salvo un gruppo di migranti africani in seguito al naufragio della loro imbarcazione di fortuna. La situazione precipiterà quando un gruppo di naufraghi scoprirà che la crociera muove verso la Libia, il Paese da cui sono partiti, e per la disperazione deciderà di prendere in ostaggio i passeggeri della Orizzonte.
Quello messo in scena da Unwanted è un incontro tra due prospettive agli antipodi che, in un certo senso, ha l’ambizione di chiudere il cerchio aperto da Bilal anni fa: «Ho letto il libro e me ne sono innamorato, ma allo stesso tempo l’ho trattato con la dovuta serietà», spiega Bises. «Ho capito sin dal primo momento che, per realizzare una serie a partire da una materia così sedimentata e difficile, bisognava trovare un espediente narrativo efficace. All’inizio pensavo che portare a termine questo compito fosse impossibile: persino io, che mi considero una persona sensibile al tema, non riuscivo a individuare un motivo che potesse indurmi a piazzarmi davanti al televisore per osservare questo tipo di calvario: perché avrei dovuto farlo?». «Dopo un po’ di tempo dalla lettura, mi sono accorto che gli spaccati umani narrati in Bilal continuavano a ossessionarmi», prosegue Bises. «Avvertivo la responsabilità di adempiere a una specie di dovere civile di racconto, che poi è lo stesso sentimento che ha animato il viaggio intrapreso da Fabrizio».
Dopo settimane di ricerche estenuanti, l’illuminazione è arrivata in maniera un po’ accidentale: «Per caso, cercando notizie, mi è capitato di leggere un trafiletto sulle statistiche di chi assiste i migranti in mare e ho notato che, subito dopo i soggetti a cui siamo più tradizionalmente abituati, come le organizzazioni non governative, le imbarcazioni mercantili e la Guardia Costiera, c’era una piccolissima percentuale di salvataggi che veniva attribuita alle navi da crociera, che solitamente concepiamo come spazi turistici e ricreativi, piuttosto che come avamposti umanitari». Nel suo reportage, Gatti ha scelto volutamente di escludere l’ottica occidentale dalla narrazione. Bises ha provato a introdurla in una maniera che risultasse il meno forzata possibile: «Ho pensato che ambientare la storia sulla nave potesse assolvere al compito di includere la nostra visione all’interno del racconto: i passeggeri siamo noi, posti di fronte a un fenomeno che, per vari motivi, conosciamo pochissimo». Del resto, ricorda Bises, la letteratura ci ha abituati ad addentrarci in navi da crociera che finiscono per diventare una sorta di riproposizione in piccolo del nostro mondo. In particolare, cita Una cosa divertente che non farò mai più, capolavoro di comicità e virtuosismo stilistico con cui i lettori italiani hanno conosciuto il genio letterario di un giovanissimo David Foster Wallace: «Ci ha insegnato che un ambiente ristretto come quello di una nave può diventare l’escamotage perfetto per raccontare un’infinita serie di varietà umane».
A fare da trait d’union tra il mondo “di sopra” (quello dei passeggeri e del personale della Orizzonte) e quello “di sotto” (quello dei migranti che attraversano il Mediterraneo in cerca di un futuro migliore) è lo sguardo relativista del capitano Arrigo Benedetti, interpretato da Marco Bocci: «Credo che questo sia il ruolo più complicato che abbia mai interpretato», racconta. «Benedetti è un personaggio che ricerca un equilibrio tra un senso di responsabilità che va al di là delle leggi e quella cultura militaresca, improntata all’ordine e alla disciplina, che ha introiettato nel corso degli anni: rendere questo contrasto in maniera credibile è stata una sfida difficilissima, ma molto stimolante. Spero di essere riuscito nell’impresa».
Di sicuro, chi non è rimasto indifferente all’interpretazione di Bocci è proprio Gatti: «Marco ha saputo riassumere al meglio il “noi” che c’è dentro Bilal. Mi identifico tantissimo nel personaggio di Arrigo Benedetti, in particolare per via di una frase straordinaria che abbiamo sentito nei trailer: il capitano sostiene a più riprese di non voler fare il proprio dovere, ma più semplicemente la cosa giusta. Non posso che immedesimarmi alla perfezione in questo principio: anche io, quando ho dichiarato delle false identità alle autorità per avere accesso ai luoghi nascosti di questo grande processo umano che chiamiamo “migrazione”, sono venuto meno al mio dovere di giornalista. Ho mentito, ho subìto processi e per fortuna sono stato assolto. Ma ho sempre avuto la profonda convinzione di fare la cosa giusta».
Lavorare alla realizzazione di Unwanted ha rappresentato un’occasione di crescita umana e professionale anche per un regista di lunga esperienza come Oliver Hirschbiegel: «Le storie raccontate dalle persone soccorse dall’equipaggio di Benedetti fanno emergere tanti non detti della questione migratoria: ad esempio, mettono in chiaro che i migranti che fuggono dall’Africa per raggiungere l’Europa non lo fanno con lo stesso spirito con cui gli italiani emigravano in Germania negli anni Cinquanta. I loro non sono disagi “da primo mondo”, l’obiettivo che perseguono non è semplicemente ottenere un miglioramento delle proprie condizioni di vita: tentano di rispondere a un impulso primordiale di sopravvivenza. La dico in inglese: “It’s a life or death question”».
Unwanted segue di pochi mesi l’uscita di due film (Io capitano di Matteo Garrone e Comandante di Edoardo De Angelis) che, in modi diversi, riecheggiano le tematiche affrontate da Gatti in Bilal e che pongono l’identico problema di rappresentazione. Misurarsi con una realtà così tanto analizzata, discussa e morbosamente esposta all’occhio dell’opinione pubblica è un’operazione scivolosa. Si corre il rischio di rimanere un passo indietro rispetto all’immaginario corrente, oppure di scavalcarlo con il pericolo di risultare distaccati dalla realtà. Per questi motivi, a storie come quella narrata da Unwanted bisogna volere bene a prescindere: realizzare un prodotto del genere equivale a compiere una scelta di campo che ribalta il nostro angolo di osservazione abituale. Come ricorda Bises, «alla fine il compito delle storie è quello di fare incontrare dei personaggi: l’interazione tra persone diverse permette di lasciare da parte la fredda dimensione statistica. Sollecita la nostra sensibilità in maniera diversa, ci spinge a concentrarci sul lato umano della questione e a bypassare i filtri dell’informazione e della propaganda politica».