Liza Drake è una madre single, una stripper part-time e un’imbrogliona a tempo pieno. È costretta a fare quel mestiere, bloccata com’è nella Florida del 2011 in attesa di capire cosa ne sarà di lei e di sua figlia Phoebe. Per fortuna ha una grinta, una determinazione e il grande potere di persuadere gli altri, che le viene in soccorso quando deve, per dire, trattare con il preside a proposito della punizione inflitta a Phoebe per aver quasi mandato in fiamme la scuola – lui vorrebbe sospendere la ragazzina per tre giorni, Liza riesce a negoziare su un solo giorno di sospensione e una nota.
Quel dono la aiuta anche quando si ritrova a parlare con uno dei clienti del bar in cui si esibisce. Si chiama Pete Brenner. Liza capisce subito che è il rappresentante di una casa farmaceutica. Lui, ubriaco, le offre un lavoro. È una startup di bassa lega che vende un antidolorifico di nome Lonafin che fa l’effetto doppio del fentanyl ma non è ancora penetrato a fondo nel mercato. Un lavoro che è un vicolo cieco, a tutti gli effetti: quella società potrebbe non avere nemmeno un’altra settimana di vita.
Ma visto che è disperata, Liza si presenta in ufficio: vuole quel posto. No: ha bisogno di quel posto. E visto che è interpretata da Emily Blunt, tra le cui specialità c’è l’essere “una mamma orsa premurosa”, “una donna action che può fare tutto” e “una persona dalla grande rettitudine morale”, sai che non impiegherà molto per convincere Pete a darle quell’impiego. Una posizione da rappresentante che deve far prescrivere ai medici il loro farmaco miracoloso utilizzando ogni mezzo necessario non sembra una gran fatica. Fortunatamente per lei e Pete, all’orizzonte c’è quella crisi degli oppioidi che renderà il loro antidolorifico ancor più desiderabile – e renderà loro due estremamente ricchi.
Blunt non è l’unica ragione per cui vale la pena vedere Pain Hustlers – Il business del dolore (disponibile su Netflix), un dramma di denuncia mascherato da satira sociale. Ma è il motivo principale per sedersi di fronte a questa storia sulla dipendenza dell’America verso le droghe e il successo, non necessariamente in quest’ordine. Nulla contro Chris Evans, che interpreta il complice di Liza nella vendita di questo oppioide alle masse con quella supponenza che sta diventando il segno distintivo delle sue performance post-Marvel (vedi: Cena con delitto – Knives Out e The Gray Man). Né contro Catherine O’Hara, Andy García, Brian d’Arcy James e Chloe Coleman, tutti perfetti nei panni rispettivamente della madre di Liza, l’ambiguo fondatore della società, un medico privo di qualsiasi etica e la figlia di Liza. O contro David Yates, il regista meglio conosciuto per aver diretto metà della saga di Harry Potter e peggio conosciuto per i vari prequel targati Animali fantastici che l’hanno seguita.
È che, nell’adattare liberamente l’articolo di Ethan Hughes del New York Times Magazine sul boom del narco-capitalismo, il regista e lo sceneggiatore Wells Tower hanno creato una protagonista femminile particolarmente riuscita, tanto da diventare il nostro Virgilio nello Stato del Sole, colei che ci fa addentrare in questo inferno letteralmente tossico. Blunt, che figura anche tra i produttori del film, dà il meglio nel dare corpo alla parabola di questa donna che, da pivellina di quel mondo, si ritrova presto ad esserne la maestra. È facile applaudire gli attori che ti permettono quasi di sentire i pensieri dei loro personaggi: ma Blunt ha un talento unico nel comunicare le emozioni calibrandole costantemente, anche solo attraverso uno sguardo mantenuto un po’ più a lungo o alla pronuncia di una frase un po’ più frettolosa (tutto questo con un precisissimo accento degli Stati Uniti del Sud).
Questo suo dono viene dimostrato ancora meglio in Pain Hustlers, non solo perché si fonda sulla performance di una donna che passa continuamente dall’essere insicura all’essere pericolosa; e aiuta il film a distinguersi fra le migliaia di parabole di ascesa-e-caduta che si sforzano di non rendere glamour e al tempo stesso però neanche di demonizzare le cattive azioni dietro vite che restano tutto sommato ordinarie. A differenza di serie come Painkiller (sempre su Netflix), che cercano di drammatizzare un tema del tutto simile partendo dal reale, Pain Hustlers non ha la vocazione del grande affresco che mira a rappresentare tutte le voci coinvolte nella vicenda.
Se mai, ha una struttura in stile Quei bravi ragazzi, nel condurci attraverso tutte queste attività illegali – truffe, tangenti ai medici, pubblicità ingannevole, eccetera – finché le manette non iniziano a scattare. Ci sono, ovviamente, tantissime tappe lungo questo cammino: dal classico montaggio “sesso e baccanali” a “Blunt beve shots mentre una sirena nuota nella sua piscina e noi sentiamo Turn Down for What suonare in sottofondo”.
C’è anche il risveglio della sua coscienza, quando la crisi degli oppioidi comincia a diventare una metastasi dell’intera nazione a un livello che moltiplica gli effetti che sta provocando il Lonafin nella sola Florida. Le motivazioni di Liza erano sempre state pure, per così dire: la ragazzina doveva fare un’operazione in ospedale, per fare un solo esempio. Ma il copione tende a farci stare sempre dalla sua parte un po’ troppo forzatamente (vedi anche il classico “discorso strappalacrime da tribunale”). Per fortuna Blunt evita ciò a cui il film forse di suo avrebbe mirato, e cioè un finale in cui la protagonista si trasforma in Santa Liza.
Pain Hustlers non vuole farci una lezione su come l’avidità delle aziende farmaceutiche ha avuto come risultato un altissimo numero di morti, anche se lo mette in luce appena può: “Non siamo la Purdue!” (la società produttrice dell’OxyContin raccontata nelle serie Dopesick e Painkiller e nel documentario Tutta la bellezza e il dolore, ndt), dice Pete: ma nella sua voce si avverte un briciolo di invidia. Vuole solo raccontarci la storia di due lavoratori come tanti che si mettono a vendere medicine in nome di quel mito chiamato Sogno Americano e che, dopo aver generato caos e dolore, aprono improvvisamente gli occhi su ciò che hanno fatto.