Partiamo dal misunderstanding di Renato Carosone, cantautore del secondo dopoguerra italiano tra i più noti insieme a Domenico Modugno che, intriso di quella sapienza a volte imprecisa nei dettagli, ma accurata nelle atmosfere, nel 1955 cantava: E’ giunta la Pechino int’ ‘a ‘nu vaso ‘na cosa misteriosa. / Nun c’è bisogno cchiù di medicine, / l’ha detto un mandarino che / l’ha purtata ccà! / ‘Stu fungo cresce, cresce, /dinto ‘o vaso e chianu, chianu fa… ‘nu figlio ‘o mese!’.
La canzonetta di Carosone ricostruisce un immaginario che tra gli anni ’50 e ’60 doveva essere presente intorno a questa bevanda frizzante e analcolica, un po’ esotica. Allerta spoiler, però: il kombucha non è che è “fatto con i funghi”, ma è un tè zuccherato e fermentato che si genera grazie alla coltura di batteri e lieviti, perciò si potrebbe dire che è “fatto anche dai funghi”. Nota ai più avvezzi con l’acronimo divertente di SCOBY (Symbiotic colony of bacteria and yeast). Se vi state domandando “ma quindi la Kombucha si può preparare a casa?” e anche, “OK batteri e lieviti, ma io uno SCOBY dove lo trovo?” rispondiamo subito: le domande hanno entrambe risposta affermativa.
Per capire come iniziare a produrre la kombucha a casa esistono libri come L’arte della fermentazione di Sandor Ellix Katz o The Big Book of Kombucha di Hannah Crum e Alex LaGory, entrambe letture perfette per iniziare a produrre kombucha da zero. In alternativa, se siete tipi che hanno bisogno di essere guidati – come chi scrive – per imparare potete andare sul sicuro con la scuola Cultura Viva Kombucha di Collazzone (PG), nata dagli sforzi appassionati di Laurence e Stefano nel contesto di un’azienda agricola dove tutto, dall’olio al Kombucha, viene realizzato in modo biologico, circolare ed ecosostenibile. In ogni caso vi basti sapere che gli ingredienti necessari per produrre il kombucha sono: acqua, tè, zucchero, starter e il già citato SCOBY o madre del tè kombucha.
Oggi questa bevanda è tornata di gran moda, ma in tempi non sospetti, in quegli stessi anni ’50 in cui Carosone intonava “stu fungo cinese!”, il kombucha si produceva già nel Sud Italia. A raccontarcelo è Stefano Zamboni, Fondatore ed Head Brewer di Legend Kombucha (Antico Tonico Orientale, a rimarcare le origini esotiche e misteriose), che delle narrazioni e leggende su questa bevanda ne ha fatto un brand. «La Kombucha si è diffusa negli anni e nella storia perché era un prodotto buono, che la gente beveva e che portava con sé quando viaggiava». È facile, in proposito, se si cercano testimonianze in rete – e sul sito di Legend Kombucha, sic! – trovare per esempio un bel paginone illustrato del Corriere della Domenica, supplemento del Corriere della Sera, datato 1954, in cui l’immagine di un medico di medicina tradizionale cinese tiene sorridente tra le mani un’ampolla di dimensioni considerevoli con dentro lo SCOBY a galleggiare. La didascalia dell’illustrazione torna a sottolineare la diffusione della bevanda e riporta “Si va diffondendo anche in Italia la moda di una nuova cura che si crede buona per tutti i mali. Essa consiste in un infuso di tè nero in cui si è tenuto immerso per almeno ventiquattr’ore un vegetale appartenente alla famiglia dei funghi”.
I flussi della produzione casalinga di Kombucha però non si limitano agli anni ’50 o ’60. Sempre Zamboni racconta l’aneddoto personale di quando, a tavola con la zia, appena aperta Legend Kombucha si è sentito rispondere con piglio “ah produci kombucha?! Puff, io la facevo già negli anni ’70!”.
E con un salto arriviamo a oggi, ma solo dopo che la tendenza alla produzione di kombucha ci torna indietro da Australia e California (San Francisco) e dopo aver attraversato, negli anni ’90, una fase anche molto delicata in cui viene usata per curare – con dubbi effetti anche allora – malattie come l’AIDS. Da qui lo slancio alla ripresa della produzione attuale, che si foraggia dal trend delle birre artigianali e risente positivamente dell’aumento dei movimenti legati al vivere sano, sostenibile ed etico. Oggi il mercato della Kombucha, di cui il solo Nord America prende il 38% mondiale, cresce velocemente, e si stima che arriverà a valere 13,41 miliardi di dollari entro il 2029.
Ma torniamo alla storia, perché la kombucha nasce, con tutte le sue leggende, nell’antico Oriente. Si narra che fu preparata per la prima volta addirittura nel 220 a.C., in Cina, durante la dinastia Quin, e che si sia via via spostata viaggiando prima per tutto l’Oriente, poi arrivando in Russia e Germania nel primo dopoguerra. Furono infatti soldati profughi russi e tedeschi a diffondere la kombucha in tutta Europa. Ma i misteri e le narrazioni attorno a questa bevanda continuano. Il nome, per esempio, deriverebbe dal cognome del medico coreano Kombu, arrivato in Giappone per curare i problemi intestinali dell’imperatore In-giyo. Da qui, vista l’efficacia del rimedio naturale, sarebbe derivato il “tè del Dott. Kombu”, Kombu-cha. Una tesi non priva di fascino, avvalorata dal fatto che in Germania, dove la bevanda veniva comprata in farmacia, nel primo dopoguerra si era soliti chiamarla Fungojapon o anche Fungus Japonicus, allontanandola e slegandola dalla sua origine cinese. Oggi questo spostamento di coordinate geografiche viene confermato come un dato di fatto anche dall’Istituto Superiore di Medicina Tradizionale Cinese Villa Giada a Roma, che dichiara «È possibile che si possano trovare tracce di bevande fermentate a base di tè e zucchero nelle fonti antiche, ma la tradizione non si è perpetuata fino a oggi, come invece è accaduto per le diverse specialità di tè e per la immensa varietà erboristica della medicina tradizionale cinese».
Oggi, dopo quegli anni ’50 di Carosone e i ’70 della zia di Zamboni, il consumo di kombucha sta prendendo nuovo vigore in Italia, e questo avviene per il lavoro di tanti giovani che si sono appassionati agli infiniti aspetti positivi di questa bevanda. Che esiste da duemila anni, fa bene perché ricca di probiotici e polifenoli, e affascina con le sue curiosità e le sue storie.
Ce lo racconta Mattia Baggiani, Fondatore e CEO di una delle aziende di Kombucha nostrane più in voga, Mia Kombucha: «Mia nasce da un viaggio, quando decido di lasciare tutto per andare in Australia. Doveva essere un soggiorno breve, ma da un anno alla fine sono diventati sei, nei quali mi sono calato completamente nella vita di Sidney, dove si consuma molto kombucha. Tornato a Varese – continua – decido con quattro amici di aprire Mia, e dopo qualche mese abbiamo fatto partire un crowdfunding. Oggi Mia è diventata di 70 persone, è mia ma è anche tua».
Baggiani ci conferma, con dati di Mia, quanto il successo della kombucha sia in ascesa, apprezzata da un pubblico generalmente attento alla propria salute, con uno stile di vita healthy e naturale. «Noi siamo partiti il primo anno da 300/400 litri, il secondo siamo arrivati a 2000 al mese, e quest’anno siamo sui 4000/5000 litri al mese». Al di là degli aspetti benefici dimostrati scientificamente, sono altre le altre caratteristiche che riportano la kombucha sulla cresta dell’onda. Sempre Baggiani per esempio sposta l’attenzione sulle fermentazioni. «Oltre all’aumento del consumo di cibi naturali, la kombucha penso risenta positivamente anche dell’attenzione che c’è oggi intorno ai cibi e alle bevande fermentate come il kimchi, il tempeh, il kefir, che appunto sono ricchi di probiotici».
Su quest’onda che va ingrossando hanno deciso di surfare anche i tre kombuchari romani della start-up Laverve. Dopo esperienze decennali nel mondo della birra artigianale hanno iniziato a produrre kombucha. «Visto il background che ci accomuna», racconta Mattia Iacazio di Laverve, «possiamo dire che quello che ci ha da sempre appassionato è il mondo delle bevande fermentate a tutto tondo, che però, nel caso della koumbucha, strizzano l’occhio alle healthy drinks. Noi per esempio la produciamo sia in versione analcolica, come tutti, ma anche alcolica. E le cose stanno andando bene, in appena tre mesi di attività siamo arrivati a produrre 14 lotti da 500 litri». La partenza di Laverve è quindi esemplare. «Distribuiamo dove si vende birra, a enoteche e panifici. Da Pizzarium di Gabriele Bonci per esempio si può trovare la nostra kombucha. È una pizzeria al taglio, si, ma con una clientela internazionale che già conosce questa bevanda e l’apprezza».
Ma ora andiamo all’estero, nella fattoria norvegese di Skjølberg Søndre a Trondheim, un luogo iconico del territorio che con la sua produzione rifornisce stellati come Credo (1 stella Michelin) e, ai tempi, anche il Fäviken di Magnus Nilsson. Qui si realizza la Kombucha come alternativa analcolica per chi si ferma a mangiare nell’home restaurant di Elin Östlund e Carl Erik Östlund Skjølberg. Östlund dice «ho provato diverse piante ed erbe diverse per fare la kombucha, ma anche frutta come uva spina, frutti di bosco come fragole e ribes nero, poi citronella, zenzero, fiore di sambuco, olmaria e ananas. Usiamo la kombucha solo come alternativa analcolica per i clienti della nostra fattoria-ristorante. Io la adoro perché è frizzante e ha quel sapore di fermentato. È facile da preparare e fa anche bene».
Elin e Carl sono bravissimi a sfruttare quello che gli offrono i boschi della Norvegia. Possiamo però adagiare un insolito ma verissimo “flora che hai kombucha che inventi”, per cui anche noi abbiamo chi fa kombucha con ricette il più possibile a Km0 come Stefano e Laurence di Cultura Viva specializzati nel fare kombucha con un blend di tè nero, tè verde e foglie di ulivo del loro oliveto. Le aromatizzazioni vengono tutte dalle erbe e dai frutti del loro terreno. «La nostra miscela per la kombucha è originale e locale, usiamo le foglie degli ulivi già nella preparazione di base. Ma anche le aromatizzazioni sono locali, prendiamo la menta, la melissa, la lavanda, la fragola, il basilico del nostro giardino», racconta Laurence. «Stiamo sperimentando anche una nuova kombucha, con lo Yaupon, una bacca originaria del Nord America utilizzata come medicinale dai nativi e che sta tornando in uso».
A questo punto, uno slogan ce l’abbiamo: in a world full of soda, be a kombucha.