«L’amore per il rock’n’roll e per la musica». Mike Dirnt risponde così quando gli chiediamo cosa tiene ancora insieme i Green Day dopo 35 anni di carriera. E dopo di lui arrivano veloci anche gli altri due compagni di band. «Magari ci telefoniamo per dirci solo “vi va di fare un giro?”», racconta Billie Joe: «E ci capita anche di andare alle prove e non suonare, ma stare lì a cazzeggiare tra di noi. La nostra è prima di tutto una normale amicizia: a volte litighiamo, ma sistemiamo tutto in fretta perché se c’è un problema, c’è anche una soluzione». E chiude Tré Cool con la sua voce da cartone animato: «Siamo una famiglia».
Seduti in una sala dell’hotel milanese Principe di Savoia, incontriamo i Green Day per la conferenza stampa di presentazione del nuovo album Saviors, atteso per il 19 gennaio 2024, e fare due chiacchiere sul concerto per pochi intimi in programma la sera stessa ai Magazzini Generali, delizioso antipasto di quella che sarà la data italiana del Saviors Tour, il 16 giugno per gli I-Days all’Ippodromo La Maura di Milano con i Nothing But Thieves.
E certo che vedere il tuo gruppo preferito in un club da 1000 persone, goderteli in carne e ossa sul palco e sentire la loro musica nuda e cruda, è tutt’altra cosa rispetto ai monitor dell’arena rock. Non siamo ai livelli di intimità e delirio dell’ormai leggendario concerto a sorpresa all’Ohibò nella primavera del 2012 – quando Billie, Mike e Tré salirono sul palco dopo i loro amici Prima Donna – ma la prossimità fisica artista-pubblico e relativo trasporto emotivo – tra lancio di magliette Milan-Inter e pari e patta con una maglietta della Nazionale indossata da zio Billie – rendono davvero memorabile la serata ai Magazzini, partita con la scarica punk-rock di American Idiot e chiusa con l’acustica e raccolta Good Riddance (Time of Your Life).
Il bello di questi show dell’Hella Tiny Tour – prima data al Bataclan di Parigi e show a Londra dopo la tappa milanese nel giro di una settimana – è proprio la scaletta ad alto tasso di variabilità: Billie, Mike e Tré scelgono all’ultimo minuto cosa suonare e il resto della band – i due chitarristi Jason White e Kevin Preston e il tastierista Jason Freese – segue agile e scattante.
Per esempio, ai Magazzini, sparano 2000 Light Years Away e almeno tre pezzi che non erano tra quelli scritti nero su bianco sul foglio condiviso con la stampa: Chump, che è una canzone di Dookie, e Homecoming e Whatsername da American Idiot, per la gioia di tutti i fan hardcore presenti sotto palco. Ovviamente non mancano i nuovi brani di Saviors: The American Dream Is Killing Me e Look Ma, No Brains! – singoli che il pubblico sbraita già a memoria – e l’ancora inedita 1981, tutto all’insegna di un impeccabile punk-rock.
E ora uniamo i puntini perché nel 2024 i Green Day celebreranno 30 anni di Dookie e 20 anni di American Idiot, ossia i loro due album di maggior successo, pubblicando un nuovo disco registrato con lo stesso produttore, Rob Cavallo. Saviors, che abbiamo ascoltato due volte prima della conferenza stampa, è davvero il perfetto punto di incontro tra le loro due ere geologiche, quella dell’exploit planetario del revival punk e quella della rivoluzionaria incoronazione negli stadi.
«Quando abbiamo finito di registrare Saviors», spiega in conferenza stampa il batterista Tré Cool, «ci siamo resi conto di avere una tigre in gabbia sotto il culo, non aspetta altro che essere liberata». Sembra di stare allo zoo, dalla tigre al Cavallo, Rob. «Billie aveva chiamato Rob, ma solo per salutarlo», ricorda il bassista Mike Dirnt, «e lui gli ha risposto: “Siete pronti a riscrivere la storia del rock’n’roll?” Ma veramente avevo chiamato solo per dirti ciao…».
Nessuno può sapere se le 15 canzoni di Saviors bisseranno davvero il successo stratosferico degli altri due dischi prodotti da Rob Cavallo, ma vi assicuriamo che i pezzi ci sono e i suoni pure. Strange Days Are Here to Stay ricorda parecchio – nel tiro e non solo – Basket Case; Goodnight Adeline fonde When I Come Around e le successive power ballad armstrongiane; Coma City ha una coda fantastica, memorabile, fermandosi a un passo dall’opera rock; la melanconica Suzie Chapstick potrebbe essere una canzone delle Muffs; Bobby Sox ha delle vibes emo anni 2000 (ricordiamo che Cavallo ha prodotto sia l’omonimo delle Muffs che The Black Parade dei My Chemical Romance) e Saviors, sì, la canteremo tutti insieme allo stadio.
I testi non sono esplicitamente politici, ma certo non spiccano per ottimismo. Alla domanda su chi potrebbero essere i salvatori del titolo dell’album, Tré Cool risponde: «Forse una collezione di dischi».
Cosa hanno ascoltato, dunque, durante le registrazioni di Saviors? «Siccome abbiamo lavorato tanto in Inghilterra», spiega Bille Joe, «abbiamo sentito tanta musica inglese: gruppi della British Invasion degli anni ’60, Brit pop e nuove band di quelle parti come Bad Nerves e Speedways, che fanno un ottimo power pop».
E poi, naturalmente, cita i grandi classici quando parla dell’importanza della forma album anche in un momento in cui prevalgono i singoli al limite dell’usa e getta: «Anche se mi piace pubblicare singole canzoni o brevi EP, è bello avere una serie di pezzi che funzionano nel totale, in ordine uno dopo l’altro: pensate per esempio a Revolver dei Beatles, London Calling dei Clash o… Dookie!».
Vale allora la pena approfittare della presenza dei Green Day e del doppio anniversario per capire cosa si aspettavano nel 2004, se a dieci anni da Dookie e un saliscendi commerciale-emotivo si sarebbero mai immaginati di diventare ancora più famosi con American Idiot, finendo per diventare un’istituzione classic rock anche grazie al produttore Rob Cavallo. È Mike Dirnt a risponderci e lo fa utilizzando una metafora sportiva, tirando in ballo il baseball: «Abbiamo provato a fare un fuoricampo, ce l’abbiamo messa tutta, ma eravamo pronti anche a subire uno strike-out. Però ci speravamo, sì».
E ora eccoli qui, a ridere e scherzare 20 anni dopo American Idiot, 30 anni dopo Dookie, quasi 40 anni dopo i concerti sgangherati al 924 Gilman Street. Quando gli viene chiesto se Saviors potrebbe essere considerato il terzo elemento della trilogia iniziata con gli album più “politici” American Idiot e 21st Century Breakdown sono titubanti e si ritrovano d’accordo così, praticamente all’unisono: «La trilogia siamo noi».