L’uomo che vediamo è un professionista consumato. Nel mondo esterno potrebbe essere chiunque: un altro tizio dall’aspetto ridicolo di età compresa tra i 32 e i 48 anni, uno qualsiasi in fila dietro di voi al negozio di computer o di fronte a voi da McDonald’s. Ma seduto qui, in un ufficio WeWork ancora in fase di ristrutturazione, c’è questo esile e flessuoso predatore nel suo habitat naturale, ed è estremamente paziente. È appollaiato qui da giorni, fissando fuori dalla finestra un appartamento di lusso a Parigi. Osserva. In attesa. Trascorre le ore senza fare nulla. È una parte fondamentale del lavoro. “Se non riesci a sopportare la noia”, dice la sua voce fuori campo, “questo lavoro non fa per te”.
Se suggerite a David Fincher – cineasta di fama mondiale, noto perfezionista e gentiluomo che apprezza sinceramente una buona battuta – che la frase pronunciata dal protagonista del suo nuovo film The Killer, in concorso a Venezia 80 e su Netflix dal 10 novembre, è anche un avvertimento al pubblico, lui scoppia in una risata. Per poi dilungarsi in spiegazioni dettagliate sul perché il suo eroe senza nome (o meglio, il suo “eroe”: «In questo caso ci vogliono le virgolette»), interpretato da Michael Fassbender, non è solo un sicario ma anche un narratore molto, molto inaffidabile. E accennare, quindi, al fatto che il copione, scritto dallo sceneggiatore di Se7en Andrew Kevin Walker, prende in prestito l’idea dei lunghi monologhi interiori al posto dell’azione non-stop direttamente dal materiale di partenza. E, infine, ammettere che sapevano entrambi che un film che «inizia con 25 minuti di qualcuno che dorme su un muro di cartongesso in un ufficio vuoto, riflettendo sul significato di tutto ciò» potrebbe potenzialmente indurre gli spettatori a chiedersi in cosa si siano imbattuti. Ma Fincher non pensa che, in quel caso, vi sbagliate.
«Non l’abbiamo mai detto, ma sì», dice, al telefono dal suo ufficio di Tribeca. «Si potrebbe dire che all’inizio è lì per un motivo. Partiamo dal presupposto che la maggior parte delle persone ha familiarità con storie come questa: quando qualcosa dovrebbe accadere in modo veloce e improvviso, e quando invece qualcosa deve essere lento e straziante. È per questo che siamo in grado di giocare con le aspettative e con la tensione. Il nostro atteggiamento è stato: possiamo dipingere tra le righe. Ma cerchiamo di usare i colori terziari».
The Killer mostra tanto l’arte di nascondersi in piena vista quanto quella di smontare o distruggere le cose. Adattamento della prima di molte graphic novel francesi scritte da Alexis Nolent (pseudonimo: Matz) e dall’artista Luc Jacamon, il film, grazie all’aggiunta di Fincher a questo sottogenere sui sicari solitari, si diletta a rendere il suo killer protagonista il più generico possibile. L’uniforme di questo assassino meticoloso e metodico è stata pensata per renderlo tanto senza volto quanto senza nome: un mix di pantaloni kaki, camicie e cappellini da pescatore gli permette di mimetizzarsi facilmente tra la folla (il protagonista ci informa che questo look è stato ispirato dai turisti tedeschi, ma anche in questo caso stiamo parlando di un narratore inaffidabile, quindi chi può dirlo?). Non importa che la persona che indossa questo outfit da marine in pensione sia una delle ultime star di Hollywood. Qui, è un uomo totalmente invisibile. Il che è un bel vantaggio: gli consente di fuggire in modo rapido e “pulito” dopo aver premuto il grilletto e aver portato a termine con successo il suo compito, proprio come ha fatto un milione di volte in passato. Finché, naturalmente, qualcosa non va inaspettatamente storto.
Fincher si è imbattuto in questi fumetti per la prima volta nel 2007, quando un amico gli ha passato una raccolta tradotta in inglese delle storie di Nolent e Jacamon. La Paramount e la Plan B, la casa di produzione di Brad Pitt, ne hanno acquisito i diritti, con l’intenzione che Fincher ne dirigesse un adattamento; un articolo di Variety riportava che lo sceneggiatore Alessandro Camon (Oltre le regole – The Messenger) stava scrivendo la sceneggiatura “su un assassino professionista improvvisamente tormentato dalla sua coscienza e da un poliziotto che gli sta alle calcagna”. Fincher ha dichiarato che una prima stesura era stata completata, ma che, essendo lui impegnato a terminare e promuovere Il curioso caso di Benjamin Button, non era riuscito a leggerla subito. «Ero preoccupato, poi i diritti sono scaduti e sono tornati all’autore», racconta il regista. «A quel punto, il progetto si è arenato».
Poi, nel 2015, Nolent ha contattato Fincher per chiedergli se fosse ancora interessato a trasformare quella che era ormai una serie di graphic novel in un film. «Gli ho detto: “Guarda, sono sempre interessato”», ricorda. «Ma se riesco a coinvolgere Andy Walker, allora sono ancora più interessato». Ricorda di aver parlato con Walker del libro all’incirca nel periodo in cui la Plan B è stata coinvolta, condividendo diverse idee su come avrebbe potuto raccontare la storia attraverso una struttura in cinque atti. Lo sceneggiatore aveva lavorato, non accreditato, a diversi film di Fincher dopo Se7en, e i due avevano collaborato a diversi progetti che non avevano mai superato la fase di pre-produzione, come il remake dell’horror anni ’70 Il misterioso caso Peter Proud. Ora che The Killer era tornato a far parlare di sé, però, sentiva che il suo amico di vecchia data avrebbe capito come tradurre quel mix di thriller e filosofia. Prima, però, chiese a Nolent di provare a scrivere una sua bozza.
«Gli ho chiesto di fare una prova, in parte perché volevo capire cosa volesse fare con le graphic novel», racconta Fincher. «Gli ho dato l’idea di farlo con una struttura in cinque atti, con diverse sezioni da 20 minuti, e questa è stata la sceneggiatura che abbiamo finito per portare a Netflix nel 2019 o giù di lì. Poi ho portato la sceneggiatura ad Andy, che ha detto: “Non voglio leggerlo.Voglio tornare ai fumetti originali”. All’inizio non voleva accettare il lavoro. Ha detto: “Vediamo se riesco a trovare un modo per entrare dentro questa storia”. E poi è sparito…».
«Onestamente, non sapevo come avrei potuto tradurre la voce del protagonista dalla pagina allo schermo», ci ha detto Walker. «Non volevo che fosse così detestabile da farvi passare la voglia dopo 10 secondi. Avevo conservato gli appunti di quella conversazione originale che avevamo avuto una decina di anni prima, e ricordo che Dave mi aveva detto: “Se è moralmente riprovevole, non può parlare come se fosse moralmente superiore”. Così ho ripreso in mano i fumetti, ho letto Lo straniero di Camus, ho consultato alcune ricerche su Nietzsche che avevo fatto ai tempi di Fight Club».
«E poi», aggiunge, «stavo cercando di collocare l’assassino in quella stanza dove aspetta che il suo bersaglio arrivi dall’altra parte della strada. Dave aveva accennato al fatto che l’uomo ha un mantra, una cosa che dice per calmarsi. La voce interiore che sentiamo non è una prescrizione su come gli altri dovrebbero vivere, ma su come lui dà un senso alla propria vita. Ho iniziato a scrivere: “Attieniti al tuo piano. Anticipa, non improvvisare. Combatti solo la battaglia per cui sei pagato. Non fidarti di nessuno”. E quando ti rendi conto che questo è ciò che dice a sé stesso anche quando inizia a crollare, e le sue azioni contraddicono ciò che dice a sé stesso… ecco, in quel momento mi sono sentito abbastanza sicuro da tornare da Dave e iniziare a lavorare davvero a questo progetto».
Fincher e Walker hanno iniziato quelli che il primo definisce «circa quattro mesi di pranzi, in cui Andy tirava fuori i suoi quaderni» – un riferimento ai diari dei serial killer di Se7en – e hanno cominciato a suddividere ciascuno dei cinque atti che Fincher aveva in mente. Ognuno di essi sarebbe stato contraddistinto da un luogo diverso (Parigi, Repubblica Dominicana, New Orleans, eccetera), e ognuno avrebbe avuto un titolo (Il nascondiglio, Il bruto, eccetera). Dopo il primo atto, in cui una missione andata male porta a un contraccolpo che a sua volta spinge il sicario a cercare vendetta contro i suoi committenti, Fincher ha immaginato quella che colloquialmente definisce «una serie di scene alla Bernie Bernbaum», riferendosi al personaggio di John Turturro in Crocevia della morte dei fratelli Coen. Walker ha pensato a una serie di nomi che citavano tutti i personaggi delle vecchie sitcom (Archibald Bunker, Felix Unger, Sam Malone). Dopo un lungo tira e molla, avevano finalmente una sceneggiatura solida su cui lavorare. Avevano solo bisogno di un assassino.
«Inizialmente, già nel 2008, avevo pensato a Brad [Pitt]», racconta Fincher, «ma la sua risposta era stata: “Eh, un po’ troppo nichilista per me”. Ok, allora chi? Avevamo bisogno di qualcuno che accettasse quell’aspetto del personaggio. Poi, una decina d’anni dopo, quando io e Andy ci siamo messi a parlare del casting, ho pensato a Michael Fassbender». L’attore candidato all’Oscar per 12 anni schiavo e Steve Jobs era impegnato a crescere la sua famiglia e a dedicarsi a una carriera parallela nelle corse automobilistiche – ha partecipato alla 24 ore di Le Mans – ma Fincher gli ha inviato la sceneggiatura con un biglietto che diceva: “Mi piacerebbe che tu la leggessi. Non so come sia la tua vita adesso, so che stai facendo fare automobilistiche…”. «Poche ore dopo», svela Fincher oggi, «mi ha richiamato e mi ha detto che ci stava».
Secondo Fassbender, che ha parlato con i giornalisti sul set prima dello sciopero della SAG-AFTRA, tra una gara e l’altra aveva guardato molti vecchi film e si era imbattuto in Frank Costello faccia d’angelo (titolo italiano di Le samouraï, ndt), thriller del 1967 di Jean-Pierre Melville in cui Alain Delon interpretava un assassino dalla bocca stretta con un approccio molto zen al suo lavoro. “Mi piacerebbe fare qualcosa di simile”, avrebbe detto al suo agente, e pare che la sceneggiatura di Fincher sia arrivata pochi giorni dopo. «Mi ha raccontato questa storia mentre mescolava Martini alla festa di fine riprese a Parigi», racconta Fincher. «Quando abbiamo scattato la foto che avremmo usato per la locandina con lui che indossa il cappello da pescatore, gli ho detto: ‘Toccati la tesa. Questo è il nostro ritratto alla Frank Costello”».
E quando è arrivato il momento di girare, nota Fincher, l’esperienza di Fassbender al volante è stata utile. «Gli piacciono le sfide fisiche e, grazie alle corse, ha un’incredibile precisione. Così arrivavamo sul set la mattina e preparavamo la scena: prendere lo zaino, portarlo alla finestra, abbassarlo, indossare i guanti di gomma, raggiungere il limite dell’inquadratura e prendere un cannocchiale. Tenete presente che avremmo girato gli interni su un set a New Orleans, ma tutte le inquadrature in soggettiva sarebbero state girate a Parigi, quindi io gli riferivo quello che avrebbe visto in quel momento: “Ecco il portiere, e poi il tizio che esce dalla caffetteria… ora guarda in alto verso l’appartamento…”».
«Poi ha fatto tutto quello che doveva fare in quella scena», dice, «e allora siamo passati a: “Ok, hai attraversato la stanza e hai fatto tutto quello che dovevi fare in un minuto e 29 secondi. Possiamo ridurlo a un minuto?”. E lui rispondeva: “Non c’è modo che io possa fisicamente attraversare la stanza così velocemente, David… ma fammi provare per un minuto e 10 secondi”». Fincher ride. «C’è questa persona che è un po’ un enigma, non ha dialoghi o quasi e non ci si può fidare della voce fuori campo, quindi l’azione è davvero il personaggio. Insomma, è praticamente un film muto. E lui è stato in grado di dare al pubblico tutto ciò che doveva sapere semplicemente facendo esattamente ciò che faceva in modo efficiente, preciso e senza pronunciare una sola parola».
C’era però un altro strumento che Fincher aveva a portata di mano per dare un punto di vista alla mente di questo ex professionista diventato uno psicopatico in via di disintegrazione: i suoi gusti musicali. Si è già parlato molto del modo in cui The Killer fa un uso sapiente del catalogo degli Smiths, con l’assassino di Fassbender che usa sempre come colonna sonora delle sue missioni i brani della band di Manchester per eccellenza degli anni ’80. È una delle poche cose che Fincher ammette di avere in comune con il suo personaggio. «Tutto è iniziato con l’uso di How Soon Is Now?», racconta il regista. «È stato il punto di partenza, perché amo quella canzone e la trovo molto… rilassante, il che è forse una cosa strana. L’idea di un sicario che mette su una canzone per calmarsi prima di un colpo, e si tratta di quella canzone… ecco, era una cosa che mi divertiva e che mi sembrava stranamente giusta. Abbiamo tagliato la sequenza dell’assassinio con quel brano in sottofondo, e l’abbiamo invece usato per le riprese in soggettiva, per poi sfumarlo quando si tornava da lui, in modo da poter sentire la sua voce fuori campo. Dopo aver proceduto così con quella canzone, è diventata una regola: “Ok, le riprese in soggettiva le ‘sentiamo’ come le sente lui”».
«Poi avevamo tutta un’altra selezione di canzoni che avremmo usato: Siouxsie and the Banshees, Joy Division, Erasure…», continua Fincher. «Mi piaceva l’idea di un sicario con un cappellino da pescatore che va a uccidere qualcuno e pensa: “Ho la playlist perfetta per questo lavoro!”. A un certo punto, però, ho iniziato a pensare: “Sta cominciando a sembrare un critico musicale nel suo tempo libero?”. Perciò abbiamo provato una versione con in sottofondo solo Mozart, una con Dusty Springfield, una con canzoni di Tony Bennett, e non ha funzionato. Così, mentre cercavamo di ottenere i diritti dei diversi brani o altre canzoni venivano scartate, continuavamo a usare This Charming Man. Alla fine, Trent [Reznor] ha ceduto e ha detto: “Perché ci stiamo girando intorno? Morrissey è la voce del monologo interiore di questo tizio. A caval donato non si guarda in bocca!”. E allora abbiamo semplicemente usato tutte le loro canzoni che potevamo permetterci».
Si tratta di uno dei pochi tocchi d’autore in quello che per il resto è un ritorno alla gloriosa era della narrativa pulp. Nonostante una star di prima grandezza, una colonna sonora di prima qualità e un cast di supporto di prim’ordine (in particolare Tilda Swinton, che fa di più nella sua breve apparizione finale di tanti colleghi che hanno a disposizione molto più tempo sullo schermo), The Killer è in realtà solo la versione contemporanea di un film di serie B d’epoca. Se lo si fa notare a Fincher e a Walker, entrambi concordano sul fatto che è esattamente quello che volevano ottenere. Il regista ricorda di essere andato da Netflix prima di iniziare la produzione e di aver detto loro: “Lo farò in modo molto semplice. Questo è un film di Don Siegel. È un film di Michael Winner, cazzo. È Chi ucciderà Charley Varrick?, Carter, Professione: assassino“. Anche la rapida sequenza dei titoli di testa che apre il film è stata pensata per evocare i procedural di un tempo. «Lo stile può essere descritto come: una produzione Quinn-Martin», dice Fincher, scoppiando in una risata. «È uno stile alla Mannix».
Sebbene sia possibile cogliere un significato più profondo nello sguardo del film sulle nuove tecnologie e sul modo in cui hanno favorito quella cultura dell’isolamento e dell’anonimato che permette all’assassino di esercitare il suo lavoro senza interazioni, o nell’uso di un ufficio WeWork (che cos’è un assassino, se non il mestiere definitivo della gig economy?), Fincher vi dirà senza mezzi termini che non sta cercando di fare grandi dichiarazioni: The Killer è uno dei suoi tanti esercizi di stile, più vicino a Panic Room o The Game che, ad esempio, a The Social Network. E sa che quando usa storie come questa per mettere in mostra le sue doti di regista e il suo talento nel manipolare il sistema nervoso del pubblico al posto di obiettivi più “alti”, alcuni penseranno che sta cedendo al manierismo.
«Mi rendo conto che ci sono delle aspettative, sì», dice Fincher, che sembra più divertito che irritato. «Sapevo che la gente l’avrebbe giudicato rispetto ai lavori passati. È naturale. È buffo che siamo finiti a presentare The Killer a Venezia, perché l’ultima volta che siamo stati qui con Fight Club siamo stati cacciati dalla città come fascisti. Il film non è piaciuto a nessuno. Intere file se ne andavano, trovando uscite d’emergenza di cui non conoscevamo l’esistenza! E ora, più di vent’anni dopo, abbiamo portato qui questo film e in molti si sono chiesti: “Perché non hai fatto un film come quelli più complessi che hai girato prima?”. E io rispondo: tutto quello che posso fare è andare avanti. Questo è solo materiale per la mia futura versione di Stardust Memories».
«Ma il punto è questo», dice. «La domanda che ci siamo posti è stata: “Si può fare un giro con un sociopatico pressoché privo di emozioni, rendere l’esperienza intensamente soggettiva, ma dare comunque a qualcuno qualcosa che sia avvincente da guardare, piuttosto che respingerlo?”. E penso che sia una sintesi efficace di ciò che stavamo cercando di fare. Ho fatto tanti film con grandi colpi di scena, e forse la gente si aspettava questo anche da The Killer. Io e Andy non volevamo creare un labirinto intricato. Volevamo solo tirare una freccia: qualcosa che vola dritto in una direzione e colpisce un bersaglio».
«Non sto cercando di dire che bisogna abbassare l’asticella», aggiunge Fincher prima di concludere. «Qualcuno potrebbe dire che sto puntando in basso, ma io vi dico che è davvero difficile. Non è così facile come a volte sembra».