È un lunedì d’ottobre di pioggia fina, il cielo sulla piccola Asti ha un colore grigio chiaro e immobile. Il centro, con i suoi negozi di fiori e i suoi bar che si chiamano con un nome proprio da leggere sull’insegna di un vecchio neon, sembra avvolto da un cellophane un po’ impolverato, come quello che imballa di solito il mobilio nelle case dei nonni disabitate da qualche tempo. Sto andando nello studio dell’Avvocato Conte, come recita la scritta incisa su una targa in marmo fuori dai suoi locali antichi, una volta abitati e vissuti non solo da Paolo Conte, ma pure da suo padre, avvocato Conte prima di lui. Ho sognato questo incontro per molti anni, l’ultima volta nel sonno di un paio di notti fa, quando, proiettandomi in questa giornata, trovavo un Paolo Conte così gentile, vivace e generoso da pietrificarmi, rendendomi incapace di prendere parola.
Sono qui per parlare con lui di un progetto a più teste che lo riguarda. Si intitola Paolo Conte. Il maestro è nell’anima e origina dalla sua esibizione al Teatro alla Scala dello scorso 19 febbraio, la prima di un autore e musicista pop dopo quasi 250 anni di classica e di lirica. Grazie all’idea di Caterina Caselli e alla produzione di Sugar Play, quella serata è diventata un documentario (che dopo l’anteprima del prossimo 27 novembre al Torino Film Festival sarà nelle sale dal 4 al 6 dicembre distribuito da Medusa), un disco live che uscirà per Sugar in formati esclusivamente fisici il 24 novembre e un podcast nato dalla nuova sinergia tra Sugar Play e Chora Media che vedrà la luce, con la prima puntata, nella stessa giornata e sarà l’unica esperienza in formato digitale dell’intero progetto che utilizzerà le canzoni originali di Paolo Conte.
Da autrice e narratrice di questo podcast ho trascorso l’autunno a intervistare qua e là diverse voci a proposito del più antico e futuribile tra i nostri cantautori: ho chiacchierato con Caterina Caselli, con Francesco De Gregori, con Dente, con Mahmood, con Francesco Bianconi, con Colapesce e Dimartino, con Lucio Corsi e con la linguista Beatrice Cristalli. Oggi, però, sono qui per parlare esclusivamente con lui, il protagonista di questa grande storia.
Separati esclusivamente da un grande tavolo in legno, in una stanza dove i faldoni degli atti giudiziari sembrano essere stati col tempo del tutto sostituiti dagli atti artistici, circondati da premi e statuette, da poster di tournée mondiali e annunci di dischi in uscita, bevendo un timido tè con un cioccolatino del Piemonte, Paolo Conte e io parliamo di lui ma, attraverso la sua storia, afferriamo la mia e quella di molte persone che popolano i suoi concerti, che dalle piccole sale da jazz della provincia italiana degli anni ’50 sono diventate quelle sedute all’Olympia di Parigi e poi alla Scala di Milano.
Conte è un uomo elegantissimo e verace insieme, appare immediatamente nobile e popolare come la sua musica, è uno studioso dello sguardo e mentre ti osserva sembra tagliare l’aria di netto come fosse un quadro di Lucio Fontana. Ha gli occhi dolci della vita lunga e piena, l’intelligenza degli elettricisti, degli avvocati e dei bambini negli occhi che sembrano farsi, mentre gli parlo, sempre più vicini.
Lei ha suonato ovunque, in moltissimi teatri del mondo: alla Scala, prima di uscire sul palco, ha avuto un po’ di paura?
No, sia io sia i miei musicisti però sentivamo che non eravamo realmente a casa nostra, che eravamo un po’ ospitati. Però siamo stati in forma, abbiamo suonato bene, tutto ha funzionato direi bene. Poi c’è stata qualche piccola critica verso di me lì in quella cornice, critica che è oltretutto venuta da un personaggio che io tutte le sere ascolto su Classica HD, Piero Maranghi, che mi è molto simpatico, mi diverte, fa delle belle trasmissioni. E niente, gli avrei voluto rispondere.
Lo faccia adesso.
Avrei detto: guardi Maranghi, se io avessi dovuto avere una, anche una sola piccolissima vanità di essere un primo profanatore della Scala, in realtà non l’avrei avuta a essere il primo della storia ma, semmai, l’ultimo, capito? Capisci a me (ride).
Ma se non ha avuto paura alla Scala, quando ne ha avuta?
Ma a dirla tutta, alla fine un po’ ogni volta. Perché è naturale che ti venga un po’ di fifa, non sai mai cosa trovi lì fuori, esci dal buio, incontri la luce che ti arriva negli occhi e poi davanti a te c’è ancora il buio. Il pubblico non lo vedi e hai pochi frammenti di tempo per poter fare amicizia con queste persone venute ad ascoltarti e a guardarti. Però mi sembra sia sempre andata bene, mi ha sempre accolto con grande amicizia e affetto questo mio pubblico, e io lo devo ringraziare.
Com’è cambiata, nell’arco del tempo, questa gente nel buio dei suoi concerti?
Prima ancora del naturale passaggio dal pubblico giovane al pubblico maturo, diciamo così, c’è stato il passaggio dal pubblico maschile al pubblico femminile. E quindi tutto è diventato più allegro. Tutto più danzante, più simpatico, perché il pubblico maschile che io avevo agli inizi era proprio un pubblico di sfigatissimi, di ragazzi che vedevano in me quello che difendeva tutti quei loro problemi così esistenziali. Le donne hanno reso tutto più bello. E intanto, tra maschi e femmine, il pubblico è aumentato.
E poi c’è stato il grande successo all’estero.
E lì magari hanno gusti diversi, ma la tipologia del pubblico mio all’estero, in Olanda, in America, in Francia, in Germania, è la stessa, identico tipo di pubblico rispetto a quello italiano, devo dire. Poi non so, in Francia per esempio hanno qualche canzone più amata, o per esempio in Olanda, dove aveva avuto grande successo Gli impermeabili prima e Max poi, ma mi sembra che non ci siano, gusti a parte, grandi differenze di pubblico da un Paese all’altro.
Si ricorda la prima volta che è entrato in contatto con uno strumento musicale?
Probabilmente era il pianoforte di mio padre e di mia madre, che è poi quello su cui ho scritto quasi tutte le mie prime e migliori canzoni. Era degli anni ’30, tedesco, mezza coda, Meyer: per tanti anni mi vedevo scritto sopra la tastiera “Meyer Stuttgart”, così quando poi ho cominciato a fare spettacoli in giro per il mondo e ho fatto il primo concerto a Stoccarda sono andato alla ricerca di quella Meyer, una cosa molto tenera, un po’ come andare alla ricerca di mia nonna, di qualcosa che mi era molto familiare. Purtroppo i Meyer erano falliti, c’era ormai solo un negozietto, ma la ditta non c’era più. Peccato.
Be’, io per anni ho cercato Gondrand, quello della sua Fuga all’inglese.
E l’ha trovato?
Sì, ma ci sono rimasta un po’ male perché ho scoperto che è una ditta di traslochi mentre io pensavo fosse un mago che si portava via tutto, che faceva sparire le cose.
È vero, in effetti fa sparire tutto, c’è della magia. Mi sento di dirle che alla fine aveva ragione lei. Gondrand è proprio un mago.
Foto: Laura Baiardini
In realtà, siccome nel pezzo si parla chiaramente di un camion, mi sa che erano fantasie di bambina… però questo mi dà anche l’opportunità di dirle che lei piace molto ai bambini, ho scoperto che cantano le sue canzoni.
Alcune mamme, alcune nonne mi dicono che in effetti è così, che i bambini cantano i miei pezzi, ma io ci ho pensato e non saprei spiegare perché. Forse perché molti sono decisamente orecchiabili, quindi possono essere imparati in fretta anche dai piccoli. Chi lo sa? Magari ci saranno anche dei misteri compositivi che solo io e i bambini conosciamo, ma che non diciamo a nessuno.
Più in generale, qual è il suo rapporto con il successo?
Io non l’ho mai voluto, lo giuro, non l’ho mai cercato. Ho sempre desiderato il successo delle mie canzoni. Ho fatto tutto per difendere quel poco di valore che sentivo nelle mie canzoni e nella loro identità. Facendo questo, però, naturalmente a un certo punto è arrivato anche un bel po’ di successo sulla mia persona, un successo che oggi per esempio devo dire mi fa molto piacere, anche più di allora.
Come mai?
Perché adesso si è trasformato in rispetto. Sarà un fatto di età o sarà qualcos’altro, il tempo, chissà, però comunque è una forma di rispetto e questo mi piace molto.
Il successo è anche un fatto fisico, lei si è protetto?
Sì, e per questo devo molto ai miei manager, Renzo Fantini e Rita Allevato, per una certa protezione, e il fatto di non essermi mai esposto più di tanto ed essere stato un po’ difeso da tutto quello che di più triturante c’è nel pur felice successo. Perché a volte ti si può anche buttare addosso e finire poi col procurarti magari anche un bel po’ di fastidio.
Quanto conta il corpo nella musica?
Conta. E conta soprattutto per i ballerini: io, non essendo mai stato un buon ballerino, ho sempre e solo guardato con riverenza e piacere quelli che sanno ballare bene sul serio. E quindi mi è capitato di collocare nella danza diverse canzoni, come Boogie, Dancing o altre ancora.
Cos’è che le piace così tanto? È l’elemento istintivo, selvatico che la danza tira fuori della musica?
Certo, la danza è una cosa perfetta proprio nella sua primitività. Oggi però purtroppo vedo che si balla male, la gente tutti i momenti è lì che si dimena, ma che fanno? Se andiamo a vedere quelli che sanno ballare davvero, i ballerini di rumba o di tango, quelli professionisti, loro incantano… proprio come come il mago Gondrand.
Queste di cui parla sono le cose del Novecento. Le manca molto, vero?
Sì, sì, mi manca. Mi manca anche perché io l’ho sofferto, e questo perché indubbiamente è stato un secolo che ha fatto soffrire per le due guerre mondiali e tutto quello che c’è stato nella storia. Però è anche un secolo che si ama perché è così torbido e affascinante nelle sue contraddizioni, perché è soprattutto un secolo di innovazioni nel campo dell’arte, così ricco di ricerca e di novità. Un secolo tutto sempre in movimento a una grande velocità, tutto che avvenne dal giorno alla sera, e dalla sera alla mattina con una rapidità che ha fatto dimenticare quello che eravamo nei secoli precedenti, quel concetto di classicità che sembrava all’improvviso sparito e invece c’era, eccome se c’era. Mi manca, mi manca tanto.
Sento un po’ di romanticismo. Sbaglio?
No, no.
Ma cos’è il romanticismo per Paolo Conte?
Lo Sturm und Drang!
Ci avrei scommesso.
Ma sa, io non mi sono mai fatto prendere dall’aggettivo romantico nel senso sentimentale ma in senso filosofico sicuramente, anzi, diciamo pure più dall’idealismo post kantiano. Quello è stato un periodo della filosofia che mi ha attratto moltissimo.
A questo punto vorrei approfondire bene la sua visione.
Ho fatto una bella figura all’esame, interrogato su Hegel, ma ora le dico: il mio preferito era Fichte, cioè il primo che mi ha fatto capire “questo è l’Io e questo è il non Io, questo è il sì, questo è il no, questa è la luce, questa è l’ombra”. Forse il più platonista di tutti, diciamo.
L’ha sedotta il concetto di scelta?
Forse sì.
Restiamo sul concettuale: quello tra arte e artigianato è un confine che le sta molto a cuore.
Mi sta a cuore sì, perché è un confine difficile da individuare, perché l’alto artigianato è già arte. E quella che si autodefinisce arte è qualche cosa che alle volte può anche essere un po’ manchevole dal punto di vista dell’artigianato, cioè qualcosa che pretende il sublime senza avere la grande capacità creativa che è contenuta nell’artigianato. Non solo, l’artigianato nelle mani di gente come Dürer, per dirne uno, ci fa paura, il livello a cui attinge è spaventoso. Per me comunque questo confine crea un dilemma aperto che non ho mai risolto, quindi a riguardo racconto più che altro dubbi e perplessità su una questione aperta.
In un’intervista di una quindicina di anni fa, diceva di aver percorso quasi sempre più l’artigianato e di voler iniziare dunque a spostarsi un po’ sull’arte, intesa anche nella sua rarefazione. Pensa di averlo poi fatto, negli ultimi anni?
No, alla fine credo di no, sono sempre rimasto più legato all’artigianato. Anche per un fatto personale, proprio di pudore. Cioè il volersi sentire artisti mi fa un po’ senso, mi mette un poco di disagio, mentre così, sentirmi magari anche un grande artigiano mi piace di più.
Forse potremmo azzardare e dire che l’artigiano sta al primo Novecento come l’arte sta all’ultima parte del secolo scorso, quella che ci ha condotti qui.
Sì, lo azzardiamo in modo molto malefico però ha senso, certo (ride).
Immaginando che a leggerla sia qualche giovane autore, domando a un esperto come lei: come si resta sempre fuori dalla moda così bene?
Con il senso del pudore, anzi di più, del disagio. Io mi sarei sentito tanto a disagio se mi fossi accorto che stavo seguendo le mode, quella magari potrà anche dare buoni frutti ma le dico la verità, io credo sia molto difficile che li dia. Ecco tutto.