Alessandro Roia ha fatto un bel film, il suo primo da regista, «e all’inizio ero un po’ terrorizzato, anche perché ho avuto questo tempismo un po’ strano per cui esco col mio esordio nel momento in cui tantissimi attori diventano registi. Prima ne ho sofferto, poi mi sono reso conto del percorso personale che ho fatto, a cosa ha portato, e che è solo una coincidenza fortunata, sfortunata, non importa. Mi baso su questa scelta che ho fatto e quando ho paura, quando sono un po’ giù, sulla considerazione che sto sentendo da parte di chi il cinema lo fa, e lo fa a un certo livello. La verità è che questo è il mio primo film, e sta già andando tutto benissimo così».
Il viaggio di Con la grazia di un dio è iniziato alle Giornate degli Autori all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, grande accoglienza, recensioni unanimemente positive. Ora arriva in sala, distribuito da RS Productions, prima dal 23 novembre in anteprima a Roma, poi dal 30 nelle sale di tutta Italia. È anche un viaggio la storia che racconta il film. Quello, di ritorno, di Luca (grandissimo, al solito, Tommaso Ragno) a Genova, la sua città, per il funerale del migliore amico di gioventù morto di overdose. Sono passati 25 anni, gli altri amici sono ancora tutti lì, c’è anche un vecchio amore (Maya Sansa). E forse dietro quella morte c’è un mistero, anche se tutti lo vogliono negare.
La considerazione, diceva lui. «Negli ultimi tre anni ho rinunciato a tantissime cose da attore, ho cercato di costruire un altro profilo. E quando rinunci a tanto, quando fai dei cambi, c’è anche un po’ di terrore. Perciò sono contento che ora arrivino quei segnali in cui speravo, ma che non avevo la certezza di ricevere. Sento che finalmente è l’inizio di quel percorso che volevo fare».
Ne parlavamo tempo fa. Tanti anni da attore, poi la produzione, ora la regia. Mi dicevi che hai sempre guardato al cinema come a un mestiere “totale”.
Scherzando con persone che mi amano, mi hanno detto: “Alla fine, dopo tanti anni, hai fatto questo coming out”. Ho fatto tutto un giro per scoprire dove volevo stare e come volevo stare, ed è incredibile per me dirlo adesso. È vero, non sono riuscito a fare quel percorso al Centro Sperimentale, ne ho fatto un altro, ho imparato un sacco di cose ma allo stesso tempo avevo tanto timore, il timore di immettere nel cinema qualcosa che magari, parlando proprio da amante del cinema, non avrei rispettato: quello era il freno più grosso. Ora quasi tutti quelli vedono il film mi dicono “Non me l’aspettavo”, e all’inizio reagivo con un po’ di dolore, mi offendevo: che vor dì, che da me avevi un’aspettativa bassa, o anche solo diversa? Invece mi son reso conto che lo stupore è una cosa bella.
La tua aspettativa invece è stata ripagata? Il lavoro di regista era come te lo immaginavi?
Voglio essere onesto al 100%, e ti rispondo usando le parole di Maya (Sansa): “Alessandro lavorava e sembrava un pesce nel mare”. Però la prima settimana me la ricordo perfettamente: tutta la troupe, fatta di gente che aveva un curriculum importante e anche da tante persone che mi amano, da amici che fanno questo lavoro, ecco, tutti in qualche modo mi hanno giudicato: “Vediamo chi è, che cosa fa”. Poi, a fine set, i capi reparto sono venuti singolarmente da me e mi hanno detto delle cose bellissime rispetto a quelle sette settimane. Ed è stato importantissimo, anche se io non ne avevo neanche bisogno perché sono stato così bene, siamo stati così bene. Mi svegliavo la mattina e andavo sul set correndo, non vedevo l’ora di arrivare, e non avevo nemmeno la mistica del set, perché ci ho passato i miei ultimi 15 anni: era proprio un senso di adeguatezza, mi sentivo in un posto dove stavo bene, a mio agio, anche se sapevo che avrei potuto sbagliare. Mi sono trovato molto vicino al me appassionato di cinema.
Non hai mai pensato di dirigerti come attore, immagino.
No. La verità, te lo giuro, è che è come se avessi skippato su un altro canale. Il mio ego, la mia ricerca non era più riferita a me, ma alla responsabilità del racconto e degli attori che si mettevano in mano a me. L’ho vissuto con naturalezza, e ho capito perché su tanti set, da attore, spesso ero distratto, stavo a guardare le dinamiche, i comportamenti, gli aspetti anche più tecnici: a volte mi appassionavo di più a tutto quello che all’atto del recitare. Alla regia ci sono arrivato con lentezza perché sono uno lento, però in questa lentezza ci ho messo anche tanta responsabilità, non l’ho fatto così per vezzo, o per disperazione, o per scrivere un’altra storia. Quando ho deciso di fare questo passaggio e di rinunciare per un lungo periodo a tante offerte da attore – e ha significato rinunciare a tanto: alla fama, al continuare la mia carriera, a una sicurezza economica – l’ho fatto proprio perché era arrivato il momento per quella trasformazione che covavo da molti anni. Non è che mi sono svegliato una mattina e ho detto “Faccio il regista”, avevo questa necessità da tanto e l’ho anche combattuta, perché c’erano esempi che non mi esaltavano, o perché avevo paura di diventare un ibrido. Invece mi sono reso conto di essere stato onesto con me stesso e con il processo filmico. Ho semplicemente fatto venire fuori la mia natura.
La cosa che mi ha colpito di più, in Con la grazia di un dio, è il racconto della droga come fatto generazionale. Non sono i tossici un po’ folkloristici che vediamo di solito nei film, la dipendenza è stata parte, nella loro giovinezza, del tessuto sociale, anche culturale, e chi ha vissuto gli anni ’90 lo sa.
Quello che dici è molto preciso. Questo è un film di fantasmi, di proiezioni rispetto a quello che eravamo e che siamo diventati. E quello che succede è che non si cambia mai radicalmente rispetto a quando eravamo più giovani, facciamo solo parte di un processo. I personaggi del film si ricordano la loro giovinezza come fosse l’altro ieri, eppure son passati 25 anni. È una storia sulle generazioni, su come viviamo l’amore dentro l’amicizia, o sul fatto che l’amicizia stessa è amore. E su come – e lo dico dal punto di vista di uno che anagraficamente sta un po’ in mezzo – certe cose hanno veramente deviato una generazione, quella degli attuali cinquantenni. Quelli di Con la grazia di un dio non sono veri criminali, ma non sono neanche persone completamente standard; non sono tossici da ultimo stadio, ma continuano a vivere l’eco di quell’esperienza lì, che è molto reale. Se a un ragazzo di vent’anni dici che i suoi genitori cinquantenni, quando stanno in gruppo, magari fanno certe robe, lui manco ci crede. E invece ti dico che succede, io l’ho visto da esterno, c’erano queste persone un po’ più grandi di me che, quando volevano divertirsi, hanno rimembrato, diciamo così, i vecchi tempi, e dopo un po’, a tarda notte, sono tornati i figli dalla discoteca. Questa cosa mi ha fatto molto effetto, ti accorgi che in realtà il tempo non ci divide poi così tanto.
Come quando in discoteca a vent’anni guardavamo i quarantenni e dicevamo “Ma cosa ci fanno qui”, e ora i quarantenni che vogliono continuare a ballare siamo noi.
Sì, noi facciamo i conti solo con noi stessi. Il tempo passa, lo vediamo dentro lo specchio, ma tu sei rimasto per tante cose ancora lo stesso di prima. È come quando vedo gli amici di mio fratello, che sono classe 1970: ancora oggi le loro dinamiche sono le stesse di quando li vedevo a casa mia e c’avevano vent’anni. Sono cambiati tutti, ma quell’imprinting lì non cambia. Lo stupore, la voglia di vivere o di non vivere… fa tutto parte del nostro essere, e se c’erano restano. Mi interessava molto indagare questo tema.
Tommaso Ragno è magnifico, e con tutti hai fatto un lavoro che, ti chiedo, è così puntuale anche perché sei un attore a tua volta?
Questo non lo so, perché non so come sarebbe stato diversamente. È chiaro che su certe cose ho lavorato in modo che l’attore brillasse il più possibile, e l’ho fatto per il bene del film e anche dell’attore che mi aveva dato fiducia. Ma credo che questo sia l’istinto di tutti i registi che amano questo lavoro e dunque amano tutti coloro che partecipano al film, dagli attori ai tecnici, e dunque vogliono metterli nella condizione di fare il loro lavoro al meglio, che poi è uno degli scopi totalmente egoistici del regista. Perché il regista, come mi ha detto una persona a me cara, in realtà è solo, ed è vero.
Questa solitudine l’hai provata?
Sì, nel senso che sei circondato da persone che, se ti rispettano, ti aiutano. Ma in fondo sei solo. Quando hai un problema vero, creativo, di narrazione, o quando qualcosa non va, le soluzioni le devi trovare da solo, ovviamente coinvolgendo gli altri, ma poi sai che il film lo firmi tu, che le battaglie le perdi o le vinci tu. Che quella è una forma di leadership alla quale non puoi sfuggire, se vuoi fare questo lavoro. Più ti circondi di persone professionalmente di alto livello, meglio ti va.
L’altro elemento che colpisce è, ovviamente, Genova e l’uso che ne fai. È una città un po’ imprendibile, forse addirittura incomprensibile, anche per noi nordici. Di recente ho visto questo film un po’ dimenticato di Pasquale Pozzessere – Padre e figlio con Michele Placido e Stefano Dionisi, è su RaiPlay – che descrive una Genova piuttosto simile, molto nera, e che curiosamente parla anche di droga, e siamo pure lì negli anni ’90.
Non l’ho visto.
Meglio ancora, questo rende ancora più personale il tuo sguardo, la tua Genova.
Sai, ho fatto un patto, tra virgolette, tra me e la città che avremmo scelto. Io non ho scritto il film pensando a Genova, che è diventata protagonista del film ma non con la sua cronaca, con la sua storia. Volevo una città che mi desse certe sensazioni, volevo i vicoli di una città magrebina, di costa francese, di porto, ma volevo poterla anche cambiare. Se guardi, ci sono tanti neon, ma li abbiamo messi noi, abbiamo cambiato tutta l’illuminazione notturna perché giravamo in pellicola in 35mm e i vicoli adesso sono illuminati a led, sembra giorno. E quindi ogni notte smontavamo e cambiavamo le luci, un lavorone, e di questo devo ringraziare il produttore Massimo Di Rocco, che già aveva accettato questo film in 35mm e poi ha detto sì a tutte queste altre cose difficilissime a livello pratico. Alla fine, Genova è diventata una città teatro, di sfondo. Avevo deciso di mettere questo sapore noir nel film, e questa città mi ha permesso di essere inquadrata, fotografata, come volevo io, non è la Genova di De André, è la Genova che serve alla mia storia. E però ha questa topografia assurda, questa capacità di regalarti location diversissime che è incredibile. Nel panorama italiano, questo di certo non è un film considerato “grande”, eppure se lo vedi è ricco, pieno di posti, di immagini.
Genova ha questa cosa pazzesca, anche quando ci cammini, di farti passare dal buio dei vicoli al cielo e al mare, stai guardando per terra e di colpo alzi gli occhi e c’è l’orizzonte…
È stato sempre Massimo, dopo che io avevo dato delle opzioni su alcuni luoghi che mi sembravano giusti per il film, a dirmi: “Andiamo a fare un giro a Genova, perché secondo me devi viverla in un certo modo”. Ci siamo andati e ci siamo un po’ persi. Per esempio, la comunità trans che ho coinvolto nel film l’ho incontrata nel secondo giro di location. Abbiamo conosciuto questa donna trans che gestisce un’associazione per la tutela delle persone che lavorano per strada, nei vicoli, e abbiamo iniziato a parlarci proprio perché in uno di questi vicoli ci eravamo persi. Con Ivano Fachin (il co-sceneggiatore del film, nda) avevamo scritto una storia che non voleva rifarsi a una malavita reale, volevamo immaginarci la nostra, crearla da zero, ed è venuto fuori questo gruppo strambo, diverso. Dopo aver conosciuto quella comunità trans, ho pensato: “Coinvolgiamoli, perché non possono essere loro la parte forte della gang, le figure vicine a quel capo che è già borderline”. Come il coro dei Trullalleri, che compare in una scena. Li ho sentiti cantare, li volevo, e ho capito grazie a loro che in un film scattano dei processi inconsci. Il momento in cui Luca si perde nel coro e la macchina da presa inizia a girare come un turbine… ecco, quella scena l’abbiamo pensata in pochi giorni, quando ci hanno detto che il coro sarebbe venuto a cantare una canzone che peraltro si chiama La partenza, che racconta proprio di un uomo che parte dalla sua città e si perde. Qualche giorno fa ho rivisto per l’ennesima volta un film che adoro, che è Io la conoscevo bene di Pietrangeli, e mi son reso conto che nella scena in cui Stefania Sandrelli studia recitazione e poi sviene c’è la macchina da presa che gira a turbine. Io non ci avevo mai pensato, però è un film che ho visto talmente tante volte che dentro di me, nel momento in cui dovevo creare qualcosa, evidentemente è venuto fuori.
Ecco, dove collocheresti questo tuo primo film? Per ispirazione, sguardo, anche passione cinefila.
Io volevo fare un film che non tradisse le cose che amo, volevo andare in una certa direzione. E cioè quella di un racconto che le persone vogliano seguire, vedere. Un film con, in questo caso, uno storytelling noir, qualcosa che devi scoprire, e che di base ti vuole intrattenere. Insieme ad altri miei amici abbiamo sempre parlato di “superspettacolo d’autore”, e cioè un cinema che non tradisce l’idea di fare le cose bene, con profondità – e in questo sta per me l’accezione di autoriale – ma che allo stesso tempo vuole rivolgersi alle persone che quel film lo andranno a vedere. La mia idea è intrattenere ma cerando una qualità narrativa, di immagine. E il mistero intrattiene, così come l’aver scelto di fare un film di 74 minuti…
Sarebbe stato il mio ringraziamento finale, lo dico proprio da spettatore.
Questa cosa l’avevo dichiarata fin dall’inizio: voglio fare un film in 35mm e lungo al massimo 80 minuti. Questa compressione mi permetteva di avere uno slow burning iniziale e poi un’accelerazione che ti porta al finale e che però ti lascia con ancora un po’ di voglia. Alessandro Borghi, che ha visto il film in una proiezione per un po’ di amici, mi ha detto proprio “Avrei anche voluto vederne di più”, e invece il film è un po’ un colpo di pistola, ti intrattiene senza rinunciare a un inizio lento, a inquadrature di un certo tipo, e poi esplode… questa è la formula che sto cercando.
Ti posso chiedere di cosa sei più fiero?
Mi rende molto fiero il fatto che mi sono messo in un’impresa molto scivolosa, perché ero considerato un attore popolare ma non uno dei “top 5”, come dire, non avevo quella considerazione lì che mi poteva permettere di giocare a fare il regista. Io l’ho fatto per altri motivi, per il processo che ti ho raccontato prima. Quindi la considerazione che sto avendo ora da parte di addetti ai lavori di altissimo livello, di colleghi e registi che stimo da morire, mi ha scioccato: è quello che desideravo fortissimamente, ma che non mi sarei mai sognato di avere veramente. Vedere persone che fanno film importanti, che producono progetti internazionali, dirmi certe cose sul mio film mi ha reso davvero orgoglioso. E poi ho visto i miei genitori, la mia famiglia, le persone a me care molto più scioccati e coinvolti in positivo, anche con un po’ più di… non voglio dire rispetto, ecco, ma ho provato una sensazione che prima sentivo meno. Io cercavo un feedback, c’è poco da fare. Ora arriverà quello della sala, che è ancora più importante. Ma se faccio un computo, ti dico che trovo tutto questo incredibile, oltre che un grande balsamo per il mio cuore che ha sofferto tanto in questo passaggio. E tutto questo mi dà coraggio, mi fa capire che le rinunce, questi anni di difficoltà personali e professionali, sono valsi a qualcosa. Ci ho messo tanto tempo, ma era il tempo che serviva.
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