‘A Murder at the End of the World’: la recensione della serie con Emma Corrin e Clive Owen su Disney+ | Rolling Stone Italia
Whodunit

‘A Murder at the End of the World’ è il mystery più figo dell’anno

Emma Corrin e Clive Owen in una serie (su Disney+) che mischia Agatha Christie e Intelligenza Artificiale. E che, nonostante qualche difetto, diventa qualcosa di completamente nuovo

‘A Murder at the End of the World’ è il mystery più figo dell’anno

Emma Corrin in ‘A Murder at the End of the World’

Foto: FX

Nella scena d’apertura della nuova miniserie Disney+ A Murder at the End of the World, una donna di nome Darby si trova di fronte al piccolo pubblico di una libreria per leggere il suo libro true crime intitolato The Silver Doe. È molto giovane, parla in modo stentato e sembra voler a scomparire nel suo cappotto rosso e nella felpa con cappuccio che indossa sotto. Mentre annaspa nelle sue osservazioni, gli spettatori iniziano ad alzarsi e ad andarsene, convinti che questa strana persona non abbia nulla di interessante da dire. Poi, però, fa notare di aver passato molto tempo in mezzo ai cadaveri, inizia a snocciolare statistiche sul numero di vittime di omicidi non identificate negli Stati Uniti, la maggior parte delle quali sono donne, e cita una sconosciuta saltata fuori alla periferia della sua città quando aveva 15 anni. A questo punto, i clienti tornano ai loro posti, interessatissimi a Darby e al suo libro.

Non era questo il mio rapporto con i creatori di A Murder at the End of the World, Brit Marling e Zal Batmanglij, ma potevo capire una certa fascinazione per la coppia. La loro serie precedente, The OA (uscita su Netflix), è uno dei drama più strani che abbia mai visto, e non in senso positivo. La prima stagione culmina con un gruppo di ragazzi e un insegnante che impediscono una sparatoria in una scuola grazie al potere della danza interpretativa. No, non me lo sto inventando:

The OA by Netflix 1x08 Song The Movements in the School 1080p

La seconda stagione era in qualche modo ancora più bizzarra, con tanto di scena in cui il personaggio principale, interpretato da Marling, viene guidato da una piovra malevola e telepatica. Anche in questo caso, non me lo sto inventando:

【驚異のCGにも注目!The Voice of Old Night】ネットフリックスの隠れた傑作ドラマ『THE OA』 Season 2 より。尾崎英二郎 ”オールド・ナイト” 役

Se di solito ho tutto il rispetto per il mondo della serialità smaccatamente stramba, la stranezza specifica di The OA – o, forse, la mancanza di una storia e di personaggi interessanti intorno a quella stranezza – mi ha scoraggiato, e non ho mai finito la seconda stagione (né Marling e Batmanglij sono riusciti a raccontare tutta la storia che avevano in mente, dato che Netflix ha cancellato la serie). Perciò non ho iniziato A Murder at the End of the World con le più alte aspettative, pronto a prendere il cappotto e a uscire dalla libreria nel momento in cui fosse accaduto qualcosa di troppo autoindulgente, in questa sua stravaganza. Ma stavolta la coppia cerca di dimostrare di essere in grado di fare qualcosa di più diretto e commerciale, che si rivela essere un mystery alla Agatha Christie mischiato a un po’ di noir nordico alla Stieg Larsson, e con un’eroina hacker socialmente impacciata come Darby (interpretata da Emma Corrin). E si scopre che Marling e Batmanglij sanno recitare molto bene. Alla fine della prima scena, ero coinvolto nella storia quanto il pubblico di Darby, e lo sono rimasto per la maggior parte dei sette episodi.

La storia si svolge su due linee temporali. In un flashback, vediamo una Darby più giovane e il suo fidanzato Bill (Harris Dickinson), un collega detective, impegnati nell’indagine sul serial killer che sarà al centro di The Silver Doe. Nel presente, il solitario miliardario tech Andy (Clive Owen) invita Darby a partecipare a un ritiro in un hotel situato nel profondo della natura selvaggia dell’Islanda. Sebbene il summit abbia come obiettivo la ricerca di soluzioni alla crisi climatica, Darby – già scossa dal fatto che anche Bill, ora suo ex, è nella lista degli invitati – inizia a sospettare che Andy abbia uno o tre piani nascosti. E questo prima che gli ospiti inizino a morire.

Marling e Batmanglij si alternano alla regia degli episodi, li scrivono o li co-scrivono interamente (con l’aggiunta, in alcuni casi, di altri sceneggiatori), e hanno ben chiaro il tono e lo stile di questo tipo di mystery glaciale e pieno di tensione. L’hotel di Andy è una meraviglia high-tech – con tanto di un aiutante IA apparentemente amichevole di nome Ray, che può apparire in forma di ologramma (lo interpreta Edoardo Ballerini) – e un ottimo sfondo in fatto di scenografia, in particolare quando l’indagine di Darby rivela sempre di più ciò che Andy ha nascosto all’interno dell’albergo stesso. Le varie vittime e i sospetti sono una solida galleria di personaggi, tra cui altri ricconi come Lu Mei (Joan Chen) e David (Raul Esparza), artisti come Bill e il regista Martin (Jermaine Fowler) e altri geni della tecnologia come Oliver (Ryan J. Haddad) e Lee (la stessa Marling), l’hacker idolo di Darby, tutti interpretati da un cast eccellente.

Ma soprattutto c’è Emma Corrin, nota per aver interpretato Diana negli anni Settanta e Ottanta in The Crown. In questo tipo di whodunit, il detective deve sostenere un carico pesante: è presente sullo schermo per quasi tutto il tempo, fornisce tonnellate di informazioni, reagisce agli sviluppi della trama in modi che sono evidenti per lo spettatore ma non sempre per gli altri personaggi, eccetera. Corrin gestisce tutto questo con estrema grazia, e riempie l’inquadratura ogni volta che è in scena.

A Murder At The End Of The World | Dal 14 Novembre | Disney+

Si tratta di un’interpretazione straordinaria da parte di una star, che compensa in gran parte il più grande passo falso della serie. Dividendo la narrazione tra gli omicidi in Islanda e il vecchio caso del serial killer, i creatori cercano di aiutarci a capire meglio cosa fa scattare Darby e cosa rende Bill così speciale non solo per lei, ma anche per molti altri ospiti del ritiro. Ma anche se la storia ambientata in Islanda è chiara e convincente, la trama sul serial killer, invece, è un po’ troppo caotica e tirata per le lunghe. È importante sapere perché Darby e Bill sono come sono in entrambe le linee temporali – in particolare per capire come lei si sia sempre trovata più a suo agio con i morti che con i vivi – ma non così a lungo e in questo modo. Solo la presenza sullo schermo di Corrin e la sua chimica con Dickinson (*) non fanno sbracare tutto.

(*) Sebbene il genere richieda un tono cupo, i registi sono abbastanza intelligenti da permettere occasionalmente a qualche diverso colore emotivo di fare capolino nel loro mondo gelido. All’inizio, per esempio, vediamo Darby e Bill guidare verso la scena di quello che credono sia stato il primo omicidio del loro bersaglio, e iniziano a cantare con entusiasmo No More “I Love You’s” di Annie Lennox quando viene riproposta in shuffle. Si tratta di un momento di leggerezza e di affetto, che ci porta un po’ fuori dai toni lugubri di quella sequenza.

Emma Corrin e Harris Dickinson in una scena della serie. Foto: FX

Il senso di pericolo crescente si avverte piacevolmente per tutto il tempo. E la serie fa del suo meglio per far sì che le discussioni sul cambiamento climatico, sulla disuguaglianza di reddito e sui pericoli della tecnologia avanzata vengano percepite come temi fondamentali della storia, piuttosto che come elementi di contorno. Ma non tutto è sempre a fuoco. Bill, poi, sostiene che i serial killer in sé sono noiosi, mentre ciò che conta è la terrificante cultura che li produce. La serie non riesce a portare avanti quest’idea fino in fondo, forse per mancanza di spazio tra tutti i flashback e le varie scene di suspense.

Per la maggior parte, però, si tratta di una serie appassionante, da guardare assolutamente. Quando Bill rompe con Darby nei flashback, le lascia un biglietto in cui spiega che la loro relazione era “troppo e non abbastanza”. A Murder at the End of the World è praticamente perfetta. Marling e Batmanglij potrebbero voler tornare alle loro cose più astratte in futuro, ma ci fanno scoprire di saper fare anche molto altro.

Da Rolling Stone US