«Non è per umiltà, ma io questa cosa della Bevilacqua non la percepisco. Non è che ho tutta questa popolarità da dire “la Bevilacqua”. Quando mi fermano per strada ancora mi sembra assurdo. Anche quando ho fatto delle cazzate, come mettermi in topless al mio addio al nubilato e mi hanno beccata, sono rimasta basita che dei paparazzi facessero delle foto proprio a me».
La raggiungiamo mentre è a Roma, dopo la prima messa in onda del Metodo Fenoglio – L’estate fredda (8 episodi per Rai 1 created by Gianrico Carofiglio e diretti da Alessandro Casale), e nell’arco di poche ore tornerà a Salerno, dove sta girando la seconda stagione di Vincenzo Malinconico, avvocato d’insuccesso (tratta dai romanzi di Diego De Silva). Le chiedo se ha già dei progetti per il 2024 e mi risponde – che ve lo dico a fare – che subito dopo attaccherà con le riprese del Patriarca 2 di Claudio Amendola, mentre a gennaio tornerà al cinema nel film di Leonardo Pieraccioni Pare parecchio Parigi, accanto a Chiara Francini e Nino Frassica.
Questa è, oggi, “la Bevilacqua”, che tale non si percepisce: attrice da un progetto dietro l’altro, zero spocchia e molta voglia di lavorare. Fame di set? Più del primo giorno. Determinata? Sì, ma senza lasciarsi fregare dall’ambizione. Quella c’era, forse in eccesso, dopo aver lasciato il X Tuscolano ormai in un’altra vita, un periodo in cui ammette d’aver pensato troppo a certi orpelli come il premio, la critica positiva, il riconoscimento da parte degli addetti ai lavori. «Poi a un certo punto ho smesso di rosicare», e la ruota della commedia ha iniziato a girare: con Genovese (Tutta colpa di Freud), Veronesi (Moschettieri del re), Bruno (Ritorno al crimine e C’era una volta il crimine), Vanzina (Tre sorelle), Falcone (Il principe di Roma), Parenti (Volevo un figlio maschio) e ora Pieraccioni.
Non rinunciando alla serialità che l’ha lanciata, ballando senza pregiudizio tra Rai, Mediaset e Sky (ma quanto balla Giulia Bevilacqua?), perché a lei questo piace: «Poter viaggiare sempre, non stare mai troppo ferma. Sai le volte che io e Claudia ci sentiamo mentre siamo in trasferta e ci diciamo: “Ah, che pacchia”». Claudia sarebbe Pandolfi, che se c’è una coppia che fa girare la testa sono queste due, amiche, sorelle, mogli – così si chiamano tra loro – e quando qualcuno si deciderà a riunirle in una rom-com sarà sempre troppo tardi. «Stavolta sì, lo dico senza umiltà: quando recito accanto a lei riconosco una cosa bella, vera, di qualità. È un dono, ci siamo conosciute sul set vent’anni fa, lei era Claudia Pandolfi e io ero Giulietta appena uscita dal Centro Sperimentale». Più romantico di così. Chiacchierata con un rarissimo personaggio non in cerca d’autore.
Oggi di momenti d’attesa non ce ne sono più?
Ci sono, ci sono. L’anno scorso sono rimasta ferma qualche mese, perché Fenoglio doveva andare in onda molto tempo fa e ci stavamo tenendo liberi per un’ipotetica seconda stagione. Ora, però, emotivamente riesco a gestire meglio le attese. Prima avevo sempre paura: “Oddio, non lavorerò mai più”.
Perché ora sai che, bene o male, il telefono squillerà?
So che può sembrare assurdo, ma non hai mai la sicurezza che il telefono squilli. Sicuramente lavorare da tanti anni ha costruito un’immagine di me professionale e abbastanza credibile, ma allo stesso tempo non è detto che ci siano i ruoli. L’età cambia, i registi cambiano.
Ti stai trattenendo? È evidente che sei in un periodo fortunato.
Non mi voglio trattenere, anzi, penso di non aver espresso tutta la mia gamma di emozioni e performance. Sono fortunata perché ho iniziato che avevo 23 anni e ora ne ho 44. Ho lavorato sempre, senza grandi picchi eccetto Distretto di Polizia, una serie che ha avuto un successo incredibile, ma erano anche altri tempi. È vero che sto iniziando a fare personaggi sempre più importanti in progetti che mi piacciono sempre di più, e spero che conti qualcosa, che possa raccogliere frutti. La certezza che mi chiameranno sempre però no, non ce l’ho, ché poi magari mi chiamano per fare delle cagate mostruose. Io comunque non disdegno niente, lo dico spesso, non è che uno può sempre puntare al massimo.
Questo tuffo negli anni ’90 per Il metodo Fenoglio come è stato?
Il progetto per me è bellissimo e – com’è che si dice? – anche ben impacchettato. Tutti i reparti sono composti da eccellenze, penso subito ai costumi di Alessandro Fusco. Il fatto che sia tutto così autentico è un po’ la cifra della serie: la rappresentazione della città di Bari in quegli anni, il tipo di racconto, la certezza della scrittura di Carofiglio. Ora non voglio fare la lista, ma l’audience della prima serata ci ha premiato. E avevamo contro il Grande Fratello, che comunque va avanti ad oltranza perché il gossip ancora acchiappa…
Serena è un personaggio semplice, pulito, si presenta tutta con un pizzico d’ironia: “Che brutta fine che ho fatto, sto con un carabiniere e brindo al posto fisso”.
Be’, mi sono divertita un sacco. Faccio un’insegnante barese, ho lavorato su un accento lieve anziché marcato, che è stato anche più difficile. Poi dài, siamo negli anni ’90. Io ho una sorella che ha dieci anni più di me, quindi all’epoca era ventenne. Spesso le mandavo le foto con i costumi di scena e la prima cosa che ha fatto lei, guardando le puntate, è stata scrivermi: “Oddio, ma sembro io!”, con quei capelli cotonati, le spalline e la vita alta.
È anche un personaggio che potresti fare con la mano sinistra, nella sua semplicità. Dove hai trovato lo stimolo?
Ultimamente sto facendo tanta commedia, quindi la sfida di Fenoglio per me era mantenermi su una semplicità autentica, senza virare su note più alte. Essere vera e credibile, pur non parlando il mio dialetto. Il rapporto tra lei e Fenoglio (Alessio Boni, nda) è speciale perché basato sulla libertà e il reciproco rispetto, sulla stima e non solo sull’amore. Questo l’ho trovato interessante e attualissimo. Siamo negli anni ’90, era ancora moderno il concetto di non sposarsi ma convivere da molti anni, essere indipendenti economicamente. Serena si sgancia dallo stereotipo della donna che per forza di cose deve costruirsi una famiglia: a un certo punto sentirà il desiderio di avere un figlio, ma non perché è nella sua natura diventare madre.
Da Distretto di Polizia al Metodo Fenoglio, passando per Nero Wolfe, Una pallottola nel cuore e Cops: sei testimone del fatto che il poliziesco rimane un genere inossidabile. Perché piace così tanto?
Piace perché rimane il mistero che porta lo spettatore a fare delle teorie e sciogliere l’enigma prima che venga rivelato. In questo caso spero che piaccia ancora di più perché raccontiamo un pezzo della nostra Storia, un momento importante ma poco affrontato, che ha sconvolto Bari. Un periodo in cui si iniziò a parlare di mafia anche in Puglia.
Per molto tempo è stata Anna Gori, oggi qual è il personaggio per cui ti fermano per strada?
È sempre Anna Gori (ride). C’è gente che ancora mi chiede se faremo un’altra stagione di Distretto di Polizia, ma sono passati vent’anni, ragazzi! Siamo tutti diversi. Non c’è più neanche Roberto Nobile, pensa che tristezza (il Parmesan di Distretto, nda). Poi ogni tanto capita che mi fermino per Nero Wolfe, pensa te, che è stata solo una stagione, e ultimamente anche per alcuni film al cinema con Massimiliano Bruno e Brignano.
Molti anni fa nelle interviste parlavi di quanto ti pesassero i ritmi televisivi e le dinamiche della serialità alla Boris. È migliorato il sistema, è migliorato il tuo spirito d’adattamento o hai solo imparato a non dire troppo?
Non so cosa dicevo ai tempi, ma i ritmi di Distretto erano davvero serratissimi, giravamo in pellicola, dieci ore al giorno per nove mesi l’anno. Dopo cinque stagioni ero molto affaticata. Ora le serie durano massimo quattro mesi, e io forse so gestire meglio i ritmi. Che poi a me non dispiace la serialità, anzi, trovo che alcuni progetti televisivi siano migliori di certi film.
Tempo fa parlavi anche delle raccomandazioni in tv e nel cinema. Non è che oggi sono gli altri a dire “ormai le fa tutte Giulia Bevilacqua”?
Allo stereotipo della raccomandata in sé non ci ho mai creduto. Non credo che per favori politici o sessuali uno possa rubare ruoli più di tanto, al massimo esistono le raccomandazioni in nome delle amicizie o dei rapporti personali. Quello che dico io, e che ancora penso, è che vorrei ci fossero più possibilità per tutti, che tornassimo tutti a fare i provini. Ad esempio, io per Malinconico ho fatto il provino, pur avendo già girato due serie tv con Luca Miniero (nuovo regista della seconda stagione, nda). Però mi capita anche di essere chiamata per un ruolo e basta, perché il regista sa come lavoro o mi stima. Questa può essere una raccomandazione.
È capitato che scrivessero un ruolo su di te?
Non ancora, ma Luca Miniero mi ha chiamato per il personaggio quando in scrittura non era ancora sviluppato. Così, dopo avermi scelta al provino, ha riscritto tantissimo il ruolo su di me. È la prima volta che mi capita e mi piace moltissimo, spesso infiliamo battute che userei nella vita o una sorta di aggressività che posso avere quando sono in confidenza con qualcuno e lo prendo in giro per giocare.
Lo hai fiutato il momento in cui hanno iniziato a darti credito?
È successo quando ho smesso di rosicare. C’è stato un periodo, dopo Distretto e alcune serie, in cui volevo di più. Se non mi proponevano il provino per un ruolo, se non potevo lavorare con alcuni registi, mi dispiaceva. E rosicavo. Ma questo è sempre un circolo vizioso, che alla fine non ti fa avere un’aura positiva. Quando ho allentato le aspettative mi sono resa conto che io sono il frutto delle mie scelte, e non sono mica una che ha ponderato le sue scelte chissà quanto. Non sono mai stata così ambiziosa da voler fare solo cinema di nicchia, quindi di cosa dovrei lamentarmi? Sono stata la prima a scegliere anche la fiction meno bella o il ruolo meno importante. Questo perché io ho bisogno di stare sul set, prima di tutto. Di soddisfare la mia necessità di recitare, essere parte di un gruppo di lavoro. Il set è sempre più forte della mia ambizione personale di voler fare solo il top.
Gli imbarazzi per i progetti più bruttarelli come li gestisci?
Di base ho smesso di criticare quello che faccio, purché io lo faccia al mio massimo. Quando riguardo il progetto, di fronte alle cose bruttarelle, questioni di leggerezza o di mestiere, alla fine basta ammetterlo. Certo, non lo dico in un’intervista, ma a casa con gli amici che problema c’è? Mi è capitato di parlarne anche con gli stessi registi.
E i progetti buoni li festeggi o rimani distaccata?
Eccome, se li festeggio. Ultimamente ho festeggiato quando mi ha chiamato Leonardo. Pieraccioni io l’ho sempre amato, alcuni dei suoi film fanno parte della mia vita. Ricordo quando ho visto Il ciclone al cinema, forse è stata una delle prime volte in cui questa roba del ridere insieme mi è sembrata potentissima. Quell’emozione del grande cinema che unisce, io ancora me la ricordo. Ecco, con lui non ho dovuto fare un provino: mi ha chiamata per dirmi che aveva piacere che io interpretassi sua sorella nel film. Non me l’aspettavo, non pensavo neanche che mi conoscesse. Ho telefonato subito a mio marito: “Non hai idea, m’ha chiamato Pieraccioni!”. Che poi io festeggio anche quando mi chiamano per progetti meno belli, mi sembra comunque un attestato di stima.
Vabbè, tu festeggi sempre. Balli senza sosta.
Io ballo ovunque, mi piace proprio tanto. Mi piacerebbe anche cantare, ma sono scarsa. Be’, non che a ballare sia brava, quelle brave sono altre.
Non abbastanza brava per Saranno famosi, ma per risultare affascinante sì?
Saranno famosi che ho fatto, tra l’altro (ride, il riferimento è a Grandi domani nel 2005, nda). È fastidiosissimo che io sembri umile ad ogni costo, diciamo allora che ballo con disinvoltura perché non ho imbarazzo? Io mi piaccio, in generale. E mi piaccio quando ballo. Sono coinvolgente.
Pare parecchio Parigi: del film di Pieraccioni fa già ridere il titolo. Sarà un on the road familiare con un maestro della nostra commedia.
E ne sono felicissima. Ancora non ho visto niente, Leonardo sta organizzando una proiezione per noi attori. La storia è davvero bella, è ispirata alla vicenda reale di un papà che sta per morire e ha chiuso i rapporti con i figli da qualche anno. Così i figli si ritrovano a doversi prendere cura di lui e organizzano un viaggio a Parigi, un desiderio d’infanzia mai realizzato. Ma il padre non può allontanarsi troppo dall’ospedale, quindi decidono di far finta di portarlo a Parigi e gireranno in camper dentro un maneggio.
Romantico.
Molto. Tenero, dolce, ma con momenti esilaranti. Nino Frassica ha mantenuto il suo accento, mentre io dovevo essere toscana accanto a Leonardo e Chiara Francini, che più toscani di loro non si può. Stanno sempre a battibeccarsi e passarsi la palla come in una partita. La comicità è molto legata alla regione, l’umorismo toscano è diverso da quello romano, quindi è stato divertente sentirsi parte di un ritmo che conoscevo meno. Nonostante io sia una coatta romana, era difficile non assimilare la loro cadenza (imita l’accento toscano e poi si blocca: “Ahia! Sto sul letto e mi è preso un crampo al collo del piede… da ballerina quale sono. Sai che ho un collo del piede pazzesco? E senza aver fatto danza. I ballerini infatti me lo invidiano”).
A proposito della tua BFF nonché moglie Claudia Pandolfi, farei un appello: ma una bella commedia romantica ancora non ve l’ha proposta nessuno?
No, ti rendi conto? Infatti provo sempre a dirlo. Io e Claudia non lavoriamo insieme da anni, dai tempi di È arrivata la felicità. Poi abbiamo fatto un mini corto in cui interpretiamo una coppia gay (nella web serie Noi due (e gli altri), l’episodio Sally, ti presento Sally, nda). Non penso necessariamente a due amanti, magari anche due nemiche-amiche. Noi due ci amiamo e quindi sarebbe facile, bello per noi ma anche per il pubblico, ci sarebbe autenticità. A un certo punto un produttore mi parlò di un progetto su due donne, aveva pensato a me e Claudia, ma poi non ci ha fatto leggere niente. Se è per questo, abbiamo anche pensato di scrivercelo da sole, ma serve una struttura importante dietro. Io e Claudia abbiamo una grande affinità che si trasferisce anche nei personaggi, e questo sì, lo dico senza umiltà: quando recito accanto a lei riconosco una cosa bella, vera, di qualità. È un dono, ci siamo conosciute sul set vent’anni fa e dopo due giorni eravamo inspiegabilmente amiche. Lei era Claudia Pandolfi e io ero Giulietta appena uscita dal Centro Sperimentale. Una bambina spaventatissima, terrorizzata dal dover recitare accanto a Ricky Memphis, Giorgio Tirabassi, Claudia stessa.
Vent’anni fa cosa ti aspettavi da questo mestiere?
Sia la popolarità che il guadagno economico non sono mai stati i miei obiettivi primari. Però vent’anni fa volevo avere ruoli più importanti, aspiravo ai grandi progetti, ai riconoscimenti. Sognavo di vincere un premio, di fare il discorso che da bambina provi davanti allo specchio. Avevo bisogno che il mio lavoro fosse riconosciuto, cercavo l’affermazione degli altri, aspettavo la critica positiva, il riscontro degli addetti ai lavori.
E adesso?
E adesso non me ne frega veramente niente. Non ci credo neanche così tanto, ai premi. Ora preferisco lavorare. Io devo fare, fare, fare. Non posso rimanere ferma, stare sul set è una droga. Non mi pesa la stanchezza, viaggiare, non dormire. Sul set mi passa tutto.
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Foto: Mirko Morelli
Styling: Other Agency
Total look: Sandro Paris
Location: Hoxton Roma
Trucco: Giulia Luciani @Simone Belli Agency
Capelli: Luigi Siciliano @Simone Belli Agency