Poi oh, magari un sacco di gente si identificherà, e (ri)prenderà ad avere Ghali come eroe, come carismatico cantastorie a cui inneggiare; ok, va bene. Ci sta. Ci stiamo. Ma a noi però viene da immaginare solo una cosa: arrivare lì da lui e dargli un sincero abbraccio, e una pacca sulla spalla. Senza paternalismi, sia chiaro; e a dirla ancora più chiaro, davvero senza sarcasmi. È che quello che ci sembra venire fuori da Pizza Kebab Vol. 1 è un artista, e fors’anche un uomo, profondamente confuso. E forse anche un po’ in difficoltà.
Non è facile. Non è facile aver assaporato la vetta – l’uomo che rivoluziona il mainstream e il nazionalpopolare italiano, trap e sapore di strada, aria nuova! – e ritrovarsi invece collezionista di colpi mancati a ripetizione, e questo proprio a partire da quando il mondo sembrava essere caduto ai tuoi piedi. Perché il fatto che giganti telefonici prima e multinazionali paninariche poi ti cercassero avidamente ti sembrava la conferma di un destino perfetto, vero? Tu che senza rinnegare te stesso tieni in scacco magari non il mondo, ma l’Italia intera sì. Quello che Ghali ed eventualmente le persone più vicine attorno a lui all’epoca non sapevano e non capivano è che proprio il massimo picco di nazionalpopolarismo si è rivelato purtroppo l’inizio di una serie di battute a vuoto e mezzi risultati. È successo non a caso: proprio a causa dell’ansia di non fare passi falsi ma seguire solo il manuale del nazionalpopolare e del successo su larga scala, i passi falsi sono stati invece fatti proprio tutti. Capita, quando segui il manuale e/o il conto in banca e i numeri, e non il cuore.
Essere fumettoso McTestimonial non ha certo aumentato la sua credibilità di strada, anzi, l’ha picconata. Decidere di affidarsi mani, piedi e vestiti agli stylist – venendo trasformato in qualche caso in una sorta di credenza rococò – ha solo denotato un deficit preoccupante di personalità. Ambire infine a tour megagalattici per poi invece fare gran fatica a riempire i tanti (troppi?) palazzetti fissati è un bacio della morte tra gli addetti ai lavori e quelli che muovono veramente i meccanismi dell’industria.
Magari Ghali negherà sprezzante questo racconto delle cose, magari sventolerà gli estratti conto (come dice del resto in Zuppa di succo di mucca: «Quante cazzate sul mio conto / quanti zeri sull’altro», e ok, è una riuscita punchline), ma siamo abbastanza sereni e sicuri nel dire che con questo album deve aver sentito addosso una pressione spaventosa, con la necessità di smetterla con le cazzate – con gli errori, le scelte che si rivelano sbagliate – e di tornare ad essere quello che le imbrocca tutte, tornare un po’ insomma il LeBron del rap nazionalpopolare 2.0 italiano: il Prescelto.
D’altro canto le aveva tutte le carte in regola per essere un prescelto, Ghali: una voce penetrante, una buona padronanza del flow, una visione personale e incisiva, una reale connessione col gergo di strada, una capacità di reinterpretarlo senza esserne ottuso ambasciatore rintronato, un carisma naturale dato dall’altezza, dal piglio e dal modo di muoversi, infine la benedizione dell’intellighenzia (la convocazione nel 2016 al festival C2C, bastione della schiatta suddetta, ha certificato come gli intellettuali snob avessero trovato in lui e solo in lui l’esponente trappuso da sostenere senza vergogna, senza nascondersi più, facendo anzi pure bella figura; e bella figura l’aveva fatta pure Ghali su quel palco lì, anche se non aveva capito bene dove cazzo fosse finito, a dirla tutta).
Tutto girava a suo favore. E questo era pure positivo: Ghali poteva davvero diventare un Jovanotti 2.0 credibile: ovviamente meno anni ’90 ma molto più multietnico, incisivo, connesso con la contemporaneità, stradaiolo, cinico. Un personaggio che avrebbe fatto bene all’immaginario nazionalpopolare italiano. Più del rosario Che Guevara-Madre Teresa, ormai polveroso in questo nuovo millennio.
Questo progetto è franato sul più bello, nel momento in cui doveva avversarsi per davvero e non essere solo una potenzialità annunciata (cartina di tornasole definitiva, lo scarso riscontro di Sensazione ultra, l’album precedente). Colpa di Ghali? Probabilmente non era ancora pronto per un ruolo del genere, checché gli abbiano fatto credere, e forse nemmeno lo sarà mai. Ma manco è importante capire se la colpa sia sua o meno: di sicuro, tutta la pressione negativa se l’è dovuta sobbarcare e intestare lui. Lui e nessun altro. Massima solidarietà. Perché non esiste conto in banca o marchetta strapagata per un brand (è così che oggi i rapper e trapper rimpinguano le finanze, mica con la musica e i concerti) che ti possa rendere più sostenibile questa brutta sensazione di fallimento, di occasione mancata, di inadeguatezza artistico-personale dal mercato sancita. Vero? Non esiste. Brucia, tutto questo.
La soluzione è stata: rintanarsi nel passato. Pizza Kebab Vol. 1 è, a partire dal titolo, una volutissima ammissione di come – per rimettere insieme i pezzi, le forze, le fiducie, le consapevolezze – Ghali abbia fatto un salto indietro nel tempo fino agli anni migliori: ovvero quelli in cui non era più il bambascione rincitrullito dei Troupe D’Elite (mai gruppo così scarso tirò fuori poi dei solisti così potenti: ne faceva parte pure Ernia), ma un solista forte, incisivo. Un trapper autentico ma stiloso & stiloso ma autentico, naturaliter sulla rampa di lancio definitiva giocando però ancora sulla strada per davvero, non nei salotti dei discografici major e negli studi degli stylist o dei marketing manager.
“A 30 anni, rinasco come un bimbo”, dice nella succosa e musicalmente interessante intro d’apertura. Segno che anche lui si rende conto – e ammette – che questo disco vuole essere una palingenesi.
Già. Peccato che subito questa palingenesi viri pericolosamente verso la commedia stanca e fuori tempo massimo già al secondo pezzo: Paura e delirio a Milano è infatti una traccia di rara fiacchezza, dove l’ospitata dalla risorta per l’occasione Dark Polo Gang (ci sono Tony Effe, Dylan e Side) sembra più una certificazione di stasi creativa e di inadeguatezza, un «facciamo i personaggi di noi stessi ma lo facciamo per contratto, in fondo non ci crediamo più nemmeno noi davvero», è più questo ‘sta traccia che un valore aggiunto e la riaffermazione che Ghali non guarda in faccia a nessuno ed è tornato il ghepardo sfrontato e strafottente di una volta. Non va molto meglio poi con Machiavelli: almeno Simba La Rue è sì scombinato, però molto più credibile ed incisivo, ma in generale è una traccia che vorrebbe ma non può.
Scorrendo avanti, diamo invece più credito a Sotto controllo: duetto con Luchè che non parla certo di epistemologia heideggeriana o della visione socio-politica di Habermas, per carità, ma che nel suo gioco di onomatopee gutturali stradaiole diverte e dimostra qui sì forza creativa e piglio. A modo suo interessante anche Coco, un reggae-trap confezionato da Draganov e FinesseGTB, una formula che si sente poco in giro ma che ha del potenziale (sempre meglio dei maledetti latinoamericanismi); peccato che la parte al microfono di Ghali sia un monumento alla confusione, un girare in tondo senza costrutto e senza reale mordente.
Tanti soldi si gioca la carta Mina (campionamento di Mi sei scoppiato dentro il cuore) e quella del featuring di Geolier: la prima carta lascia il tempo che trova, la seconda invece ha un ottimo peso e nobilita il tutto. Si sente qualche tentativo di semi-sperimentazione ritmica, un po’ alla Oneohtrix Point Never, rullate anni ’80: in parte riuscito, in parte insomma. Più sugosa e affascinante, dal punto di vista musicale, la fine bizzarra della già citata Zuppa di succo di mucca, traccia in cui Ghali forse nemmeno lo sa, ma si fotografa alla perfezione quando dice “Allo specchio ho paura / Che ci sia dentro qualcuno”. Meno perfetto quando subito dopo aggiunge “Sono confuso / Oppure sono cambiato”, perché quell’“oppure” dovrebbe diventare una “e”. Del resto confusa è la traccia, un po’ storytelling di strada cazzeggiante, un po’ wannabe introspezione pensosa: messi insieme in meno di due minuti, sono ingredienti che stonano e cozzano.
Safi Safi e Celine scorrono senza lasciare troppa traccia di sé (la seconda mette in campo il topos preferito dal trappuso contemporaneo: che dura questa vita da star), mentre Senza pietà è scombinata e allucinata, stavolta però volontariamente ed efficacemente (anche nella musica: bellissima la coda), quindi conquista, è un episodio riuscito. Non fai tempo ad esultare, a dirti «ah ma c’è allora qualcosa di interessante e davvero incisivo in questo disco» che sulle tue speranze cala la mannaia del ritmello latinoamericano (Buonasera) e di una traccia di chiusura, Peccati, che vorrebbe essere profonda ed emotiva invece è un Bacio Perugina.
Al netto insomma di qualche lampo, al netto del fatto che Ghali comunque resta un talento naturale e molte spanne sopra rispetto al trappuso medio (che, a dirla tutta, non ci vuole granché), Pizza Kebab Vol. 1 è un lavoro incerto, non del tutto ispirato, un lavoro che liricalmente vaga di qua e di là all’affannosa ricerca di un centro di gravità permanente che, invece, proprio non c’è. E non c’è nonostante il 30enne Ghali sia tornato se non bimbo, come dice nell’intro, almeno ai suoi momenti più cazzuti di sei, sette anni fa sì, la cosa è chiaramente esplicitata, smettendo così i panni di icona zuccherosa per grandi e piccini che ad un certo punto sembrava volesse diventare.
Però ecco: il disco di Sfera, pur coi suoi limiti, è più compatto, più consistente, più sicuro di sé. Magari a Ghali questo derby nemmeno interessa (e fa bene: ‘sti dualismi sono spesso puttanate che ci inventiamo noi giornalisti), ma di sicuro si certifica il fatto che in questa fine 2023, caro Ghali, al momento non sei più tu il Prescelto. Non lo sei. Stacci. E lavoraci sopra: perché per tornare al vertice assoluto della faccenda i mezzi li hai eccome. Sei solo ancora tanto confuso e incerto, e convalescente dalla botta del paradiso mainstream generalista perduto quando invece (ti) sembrava già tutto tuo. Fregatene: puoi farne tranquillamente a meno. Così come puoi fare a meno di tutti gli status symbol materiali, e dalle paranoie che essi comportano. Quando lo capirai, farai un disco che metterà d’accordo tutti.