In un’epoca musicale in cui tutto si moltiplica e quasi tutto sembra uguale, un album come quello appena pubblicato da Massimo Silverio s’insinua nel panorama come un urlo che reclama attenzione. Uscito a fine novembre, Hrudja è un disco che porta con sé l’urgenza di un percorso artistico che il musicista friulano, classe 1992, ha avviato durante l’adolescenza e portato avanti da autodidatta, nutrendosi di collaborazioni, stimoli, confronti, fino a pubblicare due EP e infine queste 10 tracce in dialetto carnico e inglese, basate su un personale linguaggio tra cantautorato e ambient, acustico ed elettronico, popolare e colto.
Radiohead, Sigur Rós, Iosonouncane: ascoltandolo non si può fare a meno di pensare che Silverio si muova su queste coordinate. Il suo canto intriso di un’intensità eterea e insieme dolente rimanda alla vocalità di Jónsi e di Thom Yorke, anche di Jeff Buckley, ma non siamo di fronte a un esercizio di stile. Autore di versi che diventano musica intrecciando un ricco spettro di strumenti, dal violoncello al contrabbasso, dalle percussioni al pianoforte preparato, dalle chitarre ai synth, Massimo c’è, è lì che pesca a piene mani dalla sua storia, da quella dei suoi avi, immerso nel fascino della terra di confine dov’è cresciuto e nella tradizione di un idioma antico destinato a scomparire.
«Ho sempre avuto una forte attrazione per il suono e il significato delle parole che sentivo pronunciare dalla bocca dei miei nonni e genitori», dice lui. «Vi percepivo timbri e sfumature di senso che non ho più ritrovato in quelle dei miei coetanei. Così per la mia musica ho utilizzato la lingua del mio cuore, le metriche e il gusto della villotta friulana uniti a un suono crudo, evocativo, pieno di contrasti. Se sono arrivato a questo album è perché sentivo il bisogno di cercare un mio spazio per esprimermi, avvertivo forte l’esigenza di registrare della musica che piacesse innanzitutto a me, qualcosa che portasse con sé una sorta di modernità, ma avendo una radice stabile».
Prodotto da Manuel Volpe (Rhabdomantic Orchestra), il disco è stato arrangiato e registrato con il contributo del piemontese Nicholas Remondino, già al fianco del giovane e bravo Vieri Cervelli Montel, che qui firma l’artwork. «A livello di sound, arrangiamenti e produzione, Hrudja deve molto al lavoro e alla visione musicale che porto avanti da anni con Nicholas, con cui ho fatto anche molti live. Alla base ci sono sensazioni e paesaggi interiori provocati da tanta lettura e da tanto cinema che ho assorbito nel tempo. Non farei nomi, ma di sicuro molto si lega ai documentari di Herzog: c’è una verità magnetica in ciò che comunica e questo mi emoziona al punto che nella musica sento di dover rincorrere quel tipo di poetica senza tempo».
Un altro incontro decisivo è stato quello con il violinista ed etnomusicologo friulano Giulio Venier. «Uno dei più grandi studiosi viventi di musica tradizionale friulana, mi ha dato l’opportunità di suonare in vari progetti al suo fianco, mettendomi anche in mano un violoncello, uno degli strumenti che suono in questo album». Gli altri sono chitarra, basso e guzla, strumento a corda balcanico, in un’opera attraversata dal lirismo delle linee vocali. «Tante parole le ho recuperate da conversazioni con anziani e molto arriva dalla lettura appassionata di testi in carnico e da una ricerca su questo dialetto. Ma a parte questo per le mie canzoni parto dalle melodie, è da quelle che il testo affiora da sé. Da questo punto di vista la mia scrittura è diretta, l’intento è di essere personale e universale contemporaneamente».
«Vorrei che chiunque trovasse ciò che cerca, in questi brani che si muovono sul contrasto tra parole come nijò, che vuol dire in nessun luogo, e algò, da qualche parte; grim, ossia grembo, madre, e šchena, schiena, padre; criure, che è il gelo, la morte, e šcune, la culla, il calore. O ancora, jevâ, cioè ergersi, svegliarsi, tornare alla realtà, e colâ, cadere, crollare, il sogno. Come suggerisce il titolo dell’album, sono canzoni che parlano di una ferita che si rimargina, ma che non è solo una ferita, è anche una crosta che scompare senza lasciare traccia. Come può fare una lingua, una sensazione, come possono fare tanti gesti che compiamo quotidianamente. Avevo l’esigenza di fermare queste immagini e di tradurle in una sorta di conscia fragilità con un canto condizionato dalle emozioni del momento. Canto che non è stato praticamente toccato: non ho voluto fare più take per poi selezionare le migliori, mi sembrava un processo troppo artificioso».
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Afferma che «il Friuli non esiste», Massimo, che «è un po’ come il Molise». Ma in qualche modo, da questa regione poco esplorata dove lui ha imparato a fare l’elettricista, il falegname, ma sogna di vivere di musica, il suo album è arrivato nelle mani di Iggy Pop, che ha trasmesso il singolo Nijò durante il suo Iggy Confidential su BBC Radio 6. Lo ha fatto citando Pier Paolo Pasolini, che riteneva che la scomparsa dei dialetti avrebbe portato all’omologazione linguistica e a un conseguente impoverimento culturale. «Mi sono formato con Pasolini, soprattutto con le sue poesie, che oltre a essere di una meraviglia incredibile, incarnano ciò che mi trasmette il dialetto della mia terra», dice il 31enne oggi residente a Udine, ma originario di Cercivento, paesino di 600 anime nella regione alpina della Carnia, che deve il suo nome (letteralmente, “circondato dai venti”) alla posizione tra due valli soggette a venti persistenti.
Le fotografie in bianco e nero che popolano il video di Nijò ritraggono alcune persone che abitavano nel borgo all’inizio del Novecento. Dove sono finiti i loro sguardi, i loro sentimenti, le loro vite? La risposta è in quel titolo che significa al contempo in nessun luogo e ovunque, e in un video che di quella gente vuole comunicare la presenza-assenza. Ma è una risposta in cui si annida il mistero, come nella poesia. «Il mistero si porta dietro delle verità inconfutabili ed è ciò che sento nel timbro delle parole che canto in carnico», osserva Silverio.
Gli chiediamo se si sente a suo agio nell’attuale scena musicale italiana; gli facciamo i nomi di artisti più o meno giovani, dal già citato Iosonouncane a Daniela Pes, da Pieralberto Valli ai C’mon Tigre, che investono su proposte alternative. «Tutta questa ondata di nuova musica sempre più appiattita su canoni radiofonici, dedita ai numeri, all’arrivare, al farsi piacere per piacere, ha provocato una tale uniformazione che forse sta emergendo la necessità, almeno da parte di alcuni, di fare ricerca. E magari anche di forgiare un’identità legata alle proprie radici. Io non voglio farne parte, di quell’ondata, perché per me la musica è altro: è spontaneità, urgenza, autenticità, genuinità. Nei miei testi ci sono anche parti in inglese, perché è una lingua che ho studiato sin dalle elementari e quella con cui sono cresciuto come fruitore di musica».
«Ciò detto, se ho scelto, con questo mio debutto, di non cantare in italiano, è proprio perché non volevo finire nel calderone odierno, un mondo dove non si perseguono i fini che per me contano. Ossia: valorizzare una ricerca interiore, tendere a un messaggio che sia più alto rispetto al numero di follower su Instagram. Per me la musica dovrebbe essere qualcosa che ti fa crescere, non che ti distrae».