La roboante risposta al femminicidio di Giulia Cecchettin da parte dei movimenti femministi, di una larga fetta della popolazione e del mondo dello spettacolo ha amplificato il dibattito attorno alle discriminazioni di genere.
Abbiamo l’abitudine di pensare a esse in relazione a quello femminile perché gli esempi si sprecano (gender pay gap, genitorialità, mansioni di cura, libertà sessuale, credibilità, ecc.) ma nei fatti si tratta di discriminazioni che si ripercuotono sull’intera società, rendendola più fragile e compromessa.
Ne abbiamo parlato con la pedagogista e counselor Alessia Dulbecco, autrice del saggio Si è sempre fatto così (Tlon, 2023), che sta girando l’Italia in lungo e in largo per parlarne, segno che c’è voglia – ed esigenza – di affrontare pubblicamente questioni che fino a qualche tempo fa erano relegate ad ambiti specifici.
Cosa ti ha avvicinato alla pedagogia di genere?
È stato il lavoro ad avvicinarmi. Quando frequentavo l’università, nei primi anni del Duemila, non c’erano nel mio Ateneo corsi di laurea dedicati a questo tema. Eppure la pedagogia di genere esisteva già da almeno una trentina d’anni se si considera che il testo a cui si fa risalire la sua nascita, Dalla parte delle bambine della pedagogista Elena Gianini Belotti, è stato pubblicato nel 1973. Appena terminata l’università ho cominciato a lavorare nel Centro Antiviolenza della mia città e lì ho capito quanto le questioni educative fossero centrali nel contrasto alla violenza di genere. L’educazione riguardava sia i contesti “micro” – per esempio le relazioni affettive e familiari in cui erano invischiate le donne che seguivamo – sia quelli “macro”, dato che la violenza è un fatto sociale e come tale si apprende e viene trasmessa di generazione in generazione insegnando alle persone più giovani ad assumere determinati comportamenti e considerarli normali. Sono proprio queste le esperienze da cui sono partita iniziando a scrivere.
Il tuo è un saggio destinato a un pubblico di genitori e persone che lavorano nell’ambito dell’educazione. Un testo analitico che parte dall’infanzia (anzi, ancora prima – dalla gestazione delle future persone che verranno al mondo) fino all’età adulta. Per certi versi è un testo controcorrente, che si pone l’obiettivo di parlare di educazione alle e con le persone adulte, anziché con quelle piccole. Come mai questa scelta?
È esattamente così: è un testo che si rivolge alle persone adulte. Il panorama editoriale è piuttosto ricco di volumi destinati all’infanzia e alla prima adolescenza (penso, per esempio, allo splendido lavoro che fa l’editrice Settenove) in cui si scardinano i principali stereotipi che ingabbiano la vita di bambini e bambine. Tuttavia, quando si cercano testi destinati al pubblico adulto, si trovano molti importanti volumi accademici e pochi altri titoli destinati a un pubblico ampio. L’obiettivo che mi sono posta è stato dunque quello di scrivere un libro che potesse essere facilmente compreso da chiunque – non solo persone già alfabetizzate alla tematica – e tuttavia rigoroso nei contenuti, con fonti e indicazioni utili per un ulteriore approfondimento.
Nel libro affronti anche la spinosa questione della sessualità e dell’educazione sessuale: come le immagini e desideri?
L’educazione affettiva e sessuale è un tema balzato agli onori delle cronache in ragione della proposta del Ministro Valditara di introdurla ufficialmente nelle scuole italiane. L’ho accolta in modo piuttosto critico perché, a mio avviso, non sono state poste alcune domande essenziali: in che modo si introduce? L’educazione affettiva e sessuale non può essere infatti un “insegnamento” (come la matematica o l’italiano), anche per questo – dal mio punto di vista – dovrebbe essere affidata non a docenti ma a personale esperto, capace di aprire con le classi spazi di dialogo su argomenti che – soprattutto per le persone adolescenti – potrebbero risultare imbarazzanti o complessi da affrontare. Uno di questi è senza dubbio quello del consenso, necessario per costruire relazioni affettive e sessuali in cui ogni persona sia posta nella condizione di esprimere i propri desideri, senza vergogna e nel rispetto delle altre.
Ritieni che le critiche al sistema scolastico, avanzate in particolare da chi sta compiendo un corso di studi, rappresentino un rimprovero alla società in cui viviamo?
La scuola è una sorta di microrganismo che prepara alla vita sociale: più la società si assetta su logiche capitaliste, più la scuola è chiamata a formare giovani capaci di adeguarsi al sistema. Nel libro ho provato a identificare alcune dinamiche secondo me preoccupanti (dai compleanni di 4enni passati dall’estetista alle logiche che si celano dietro alcuni prodotti destinati alla prima infanzia); tuttavia il mio obiettivo non è quello di insegnare come si deve stare al mondo. I genitori di oggi ricevono fin troppe indicazioni rispetto a cosa e come dovrebbero comportarsi coi loro figli e figlie. Non ho scritto un manuale, ho anzi cercato di offrire qualche conoscenza in più lasciando libere le persone di seguirle o meno.
Cosa pensi del concetto di “descolarizzazione della società”, sostenuto in particolare dal pedagogista e filosofo Ivan Illich?
Illich, come Don Milani, rientra tra quelle figure per me significative. Se lo scopo del primo era di “far saltare il banco”, il secondo ha proposto un progetto educativo e didattico capace di considerare gli esclusi, quelli che la scuola performativa e classista degli Anni ʼ60 escludeva sistematicamente. Personalmente mi sento più vicina all’approccio del priore di Barbiana, soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo, in cui certi meccanismi elitari stanno tornando a mostrarsi in modo evidente. Ci sono molti ambienti in cui, forse, la descolarizzazione potrebbe funzionare ma ce ne sono altrettanti in cui la scuola funge da rete e sopperisce alle carenze del territorio. Personalmente cercherei di salvarla, partendo dal presupposto che – se vogliamo cambiarla – dobbiamo prima cambiare le persone adulte che si muovono dentro e fuori da essa.
Come ritieni che queste persone possano lavorare da sole e insieme per analizzare, criticare e decostruire i modelli di riferimento? Pensi che il buon esempio – da solo – sia abbastanza per innescare un circolo virtuoso?
C’è un saggio molto interessante che si intitola Come si cambia idea (Aboca, 2023): mostra che il cambiamento è innescato quando un certo fenomeno (per esempio la violenza o la discriminazione) ti colpisce direttamente o da vicino. Per esempio ci sono molti uomini che hanno dichiarato di aver capito cosa significa la disparità di genere quando l’hanno vista abbattersi sulla partner o sulle figlie. Preferirei che non si arrivasse a tanto, ma sono convinta che un’esperienza vissuta sulla propria pelle possa offrire lo spazio necessario per comunicare a decostruire quanto sappiamo di violenza, discriminazione, odio ecc. Certo è che l’esperienza da sola non basta: abbiamo poi bisogno di informarci (e su questo i social, se usati bene, possono fornire un grande contributo) e, soprattutto, fare rete. Nel libro mi concentro molto sul ruolo che gioca la collettività nel cambiare le dinamiche sociali in cui ci troviamo ad abitare. Oggi, forse anche per logiche performative, si dà un grande peso all’individuo, al singolo: credo che sia un errore. Possiamo impegnarci per rendere il nostro “orticello” il migliore di tutti, il migliore per noi, ma – a meno di non fare una vita ascetica – tutto quello che abbiamo rimosso dalla nostra piccola porzione di mondo tornerà a palesarsi non appena varcheremo il cancello di casa. Costruire reti capaci di sostenerci significa da una parte avere un margine di azione maggiore, dall’altro ricordarci che non tutto dipende sempre e solo da noi e dal nostro comportamento: in un’epoca in cui si elogia la performatività credo sia una lezione importantissima da tenere a mente.