Tutti scommetterebbero su una qualunque citazione di Bukowski, ma in realtà una delle frasi più gettonate sui social (e non solo) è quel “The eyes, chico. They never lie” che il Tony Montana di Al Pacino butta lì mentre guida nella notte di una Miami che non dorme mai. È Scarface, baby, e, per quanto inflazionata, quella citazione racchiude una verità. E cioè che i nostri occhi e il modo in cui guardiamo (non solo vediamo) ciò che ci circonda hanno il potere di comunicare più di quanto vorremmo. E pensa te che strazio ci tocca.
Gli occhi: quelli che qualunque docente di filmologia ti dirà essere l’immagine chiave del rapporto tra spettatore e cinema. Ma anche gli occhi che per Tony Montana non mentono, mentre sul viso di un attore, be’: imparano a farlo. E poi gli occhi che hanno certi interpreti, e che un po’ ti farebbero correre via a gambe levate e un po’, le gambe, te le farebbero aprire (scusate).
In pratica: quegli occhi à la Barry Keoghan, ché sarà una caratteristica di certi irlandesi (cfr.: Cillian Murphy), ma l’effetto che fanno è qualcosa a metà tra l’agghiacciante e il perverso, l’irresistibile e il magnetico. Con un unico risultato possibile: l’impossibilità di leggerci dentro davvero. Tanto che se toccano in sorte a uno che fa della recitazione il proprio mestiere (e quel mestiere lo fa bene), non possono che aggiungere quel quid all’interpretazione di personaggi dall’animo torbido e insondabile; facendo oltretutto un favore all’attore. E uno come Barry Keoghan, potete starne certi: tutto questo lo sa.
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Classe 1992, autentico Dubliner (ma del quartiere di Summerhill), Barry Keoghan in realtà fin da piccolo sa molte cose. Per esempio, sa che non è semplice essere bambini affidati (lui e il fratello Eric) a famiglie sempre diverse; sa che si può rimanere presto orfani di una madre eroinomane, ma comunque affermare (ormai adulti, e ai microfoni del Guardian) di essere «orgogliosi di lei»; e sa che, dalle sue parti, nessuno si sogna di dire di voler fare l’attore senza aspettarsi di essere un po’ preso per il culo (anche se «non in modo meschino»). Sa che si può sognare come tutti gli altri giovani irlandesi di diventare una stella del pugilato, e finire per vedere il proprio nome tra i candidati all’Oscar (per Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh, l’anno scorso).
Il punto è che, a sentirlo parlare, Barry Keoghan fa sembrare tutto ciò che c’è di terribilmente difficile qualcosa di invece così facile: come imparare a recitare guardando i film nelle sale dove non si è pagato il biglietto; o fare le cose al contrario (per così dire), ottenendo prima una parte in un film – è il 2011, con Between the Canals – e poi un posto in una scuola di recitazione (The Factory). Per non parlare della notorietà che alcuni cercano tutta una vita, ma che per lui arriva (e meritatamente) nel giro di solo un paio d’anni, quando la partecipazione nel 2013 alla serie tv Love/Hate fa circolare il suo nome alla grande; al punto che l’anno dopo basta un film sul conflitto nordirlandese (71 di Yann Demange) per iscriverlo nella rubrica dei grandi orgogli nazionali.
Ma l’Irlanda è troppo piccola per uno che ha quel potenziale e quei due occhi lì. Così nel 2017 prima ci pensa Christopher Nolan ad arruolarlo come George Mills in Dunkirk; poi tocca a Yorgos Lanthimos, con Il sacrificio del cervo sacro, investirlo della tonaca che più gli si addice. Ovvero: quella dell’outsider che stranisce, fosse anche solo per come ti guarda, con quel tranquillo distacco di un folle che ammira il caos che si è lasciato dietro – e il tutto magari sorseggiando una bibita dalla cannuccia.
Ma c’è altro: dopo la parte del carismatico Spencer Reinhard in American Animals (2018, regia di Bart Layton), ecco che la conferma del successo arriva nel 2019 con la candidatura a miglior attore emergente ai BAFTA; un premio che Keoghan non vince ma che gli porta molto bene, complice anche il successo della serie tv Chernobyl, a cui prende parte quell’anno. Dopodiché, il test (ormai obbligatorio?) dei superhero movies, con la parte di Druig nell’Universo Marvel di Eternals (2021), e dello “sconosciuto prigioniero” di Arkham (leggi: Joker), in quello DC del The Batman (2022) di Matt Reeves.
È però nei panni del Dominic Kearney nel citato Gli spiriti dell’isola che Barry Keoghan torna allo splendore interpretativo visto già con il Martin Lang del film di Yorgos Lanthimos. Tanto che arriva il premio BAFTA come miglior attore non protagonista, nonché la prima candidatura all’Oscar. Fino a oggi, con il film più spoilerato (diciamolo) degli ultimi tempi: Saltburn. Il thriller psicologico della regista Emerald Fennell che – piaccia o meno, scandaloso o meno – ha avuto di sicuro un merito: quello di premiare una volta per tutte il talento di Barry Keoghan, che ha portato il suo Oliver Quick ben oltre la definizione di semplice tizio che ti fa «gelare il sangue», e che (spoiler?) ha un amplesso con una tomba. È riuscito pure in un’impresa che sembrava ancora più impossibile: far palpitare più cuori del belloccio Jacob Elordi (alias Felix Catton). Tanto che la candidatura ai Golden Globe come miglior attore protagonista – vinto da Cillian Murphy per Oppenheimer – era inevitabile.
“Gli occhi, chico“, diceva Tony Montana: che sia questo l’asso nella manica di Barry Keoghan? Quello sguardo e quella faccia un po’ così, in quei ruoli lì? O forse, per dirla con le parole del collega e connazionale Colin Farrell (con lui nel Sacrificio del cervo sacro e Gli spiriti dell’isola), il segreto di quel suo magnetismo sta in quella “pura esplosione di energia irlandese”? Quel che è certo è che su Barry Keoghan sta bene ogni personaggio, folle o meno che sia. Ma a dirla tutta, pure quell’aura da grande attore di Hollywood che resta sempre il “kid from the block” calza bene. Un po’ come un outfit firmato Louis Vuitton. O più imprevedibilmente un crop top.