Jonathan Glazer era, per sua stessa ammissione, un po’ smarrito. Lo sceneggiatore e regista di Sexy Beast – L’ultimo colpo della bestia e Under the Skin ha inseguito per anni un’idea informe per un film, incerto sulla direzione da prendere con la storia o su cosa volesse dire sull’argomento. «Non era nemmeno un’idea, in realtà», dice il regista, ripensando alla sconcertante quantità di letture e ricerche che hanno occupato gran parte dei suoi anni ’10, seduto in un piccolo ristorante di New York. «Era più una sensazione. Stavo inseguendo una sensazione». Sapeva solo che il soggetto su cui voleva fare un film, il veicolo per questa vaga emozione che non riusciva a definire o articolare, lo aveva perseguitato fin da ragazzo. E lo perseguitava ancora.
È così che Glazer si è ritrovato in Polonia, a vagare sul luogo di uno dei più grandi omicidi di massa del XX secolo. E poi ha visto la casa.
«Era la casa della famiglia Höss», racconta Glazer. Rudolph Höss era il comandante di Auschwitz; la casa era quella dove lui, sua moglie Hedwig e i loro figli vivevano durante la Seconda guerra mondiale, a circa 50 metri da uno dei forni crematori. «Ho visitato la casa e il giardino, che non è esattamente come era allora. Ma esiste ancora. E stando lì, in quello spazio, ciò che mi ha colpito è stata la vicinanza al campo. La casa condivideva un muro con Auschwitz. Tutto accadeva proprio lì, dall’altra parte di quel muro. E il fatto che un uomo vivesse lì e crescesse lì la sua famiglia…». Glazer fa una pausa, ancora scosso dal ricordo. «Come si fa? Come deve essere nera l’anima…».
La zona d’interesse (nelle sale italiane dal 22 febbraio, ndt), il tentativo di Glazer di catturare l’orrore dell’Olocausto dal punto di vista di Höss e di sua moglie – interpretati da Christian Friedel (Babylon Berlin) e Sandra Hüller (Anatomia di una caduta) – trascorre la maggior parte della sua durata all’interno di quella casa, seguendo la routine quotidiana dei suoi occupanti che organizzano feste di compleanno, curano i fiori che sbocciano e chiacchierano con i vicini. Nel frattempo, uno sterminio di massa sta avvenendo proprio fuori dal loro cortile. Per loro, tutte le urla, gli spari e la vista del fumo nero che si alza nel cielo sono semplicemente il loro ambiente quotidiano.
È l’immaginazione più agghiacciante dell’inimmaginabile a memoria d’uomo, resa ancora più terribile dal fatto che, come il romanzo di Martin Amis del 2014 da cui il film di Glazer prende in prestito il titolo (la frase si riferisce al perimetro intorno ad Auschwitz dove vivevano gli amministratori del campo), costringe gli spettatori a vivere il campo dal punto di vista impietoso di uno dei suoi amministratori. Questo aspetto era una delle poche cose che sapeva di voler fare quando ha iniziato a pensare di realizzare un film sull’Olocausto, un argomento che lo affascinava. Glazer attribuisce questa fascinazione, per così dire, al fatto di aver visto le foto della Notte dei Cristalli e dei campi in uno dei numeri di National Geographic di suo padre, quando era ragazzo. «Ricordo di aver pensato che in quelle immagini c’erano persone vere», ricorda il regista. «Le persone che venivano picchiate per strada, che venivano messe sui treni, che i soldati trovavano nei campi quando le liberavano… sembravano i miei parenti. Mi somigliavano».
Tuttavia, quando ha iniziato a considerare seriamente il modo in cui avrebbe potuto cercare di rendere il genocidio sullo schermo, Glazer ha guardato «il mondo sempre più oscuro che ci circonda, e ho avuto la sensazione di dover fare qualcosa riguardo alla nostra somiglianza con i carnefici, piuttosto che con le vittime. Quando si dice: “Erano dei mostri”, si dice anche: “Noi non potremmo mai essere così”. È una mentalità molto pericolosa».
È stata l’idea di affrontare in qualche modo questa atrocità – che tanti artisti, scrittori, opinionisti e critici culturali hanno cercato di sviscerare e/o rendere nell’ambito dell’arte e della letteratura – in un modo diverso ma profondo a far nascere le prime conversazioni su un possibile progetto tra Glazer e il suo produttore di lunga data, James Wilson. «Non avevamo ancora finito Under the Skin», ricorda Wilson in un call su Zoom, «quando me ne parlò per la prima volta. Ci siamo scambiati molti libri, abbiamo discusso molto su cosa si potesse dire che non fosse già stato detto. Non voleva fare un altro, tra virgolette, “film sull’Olocausto”. Jon ha un filtro molto piccolo, quando si tratta di fare qualcosa che non è mai stato fatto prima. Ma nessuno di noi due sapeva cosa sarebbe stato quel qualcosa».
«Quando si dice: ‘Erano dei mostri’, si dice anche: ‘Noi non potremmo mai essere così’. È una mentalità molto pericolosa»
Glazer stava cercando un modo scomodamente soggettivo di guardare a questo atto di barbarie quando, nel 2014, gli capitò di leggere su un giornale un’anteprima del libro di Martin Amis La zona d’interesse, da cui scaturì quello che Wilson definisce «il momento di rottura dell’atomo che si verifica in tutti i nostri film». Non si trattava di molto più di un paragrafo, dice il regista, ma si riferiva a due aspetti su cui aveva riflettuto molto: la prospettiva e la complicità.
«La storia è raccontata dal punto di vista di un comandante nazista immaginario», dice Glazer, «e io avevo già deciso che volevo raccontare la storia non di coloro che erano all’interno del campo, ma di coloro che lo gestivano. C’era un grande coraggio nel libro, nel senso che si impegnava a esprimere con forza quella mentalità in un modo estremamente scomodo. C’era un triangolo amoroso, che… be’, non ci interessava. Ma quando ho iniziato a leggerlo, il romanzo è diventato il nocciolo della mia storia. Era solo una scintilla, ma una scintilla molto, molto importante».
Tuttavia, Glazer non voleva semplicemente adattare il libro. Le sue ricerche gli rivelarono che il protagonista del romanzo era basato sul vero Höss. Glazer ha iniziato così ad approfondire chi fosse quest’uomo. «Höss è passato dall’essere un nome tra tanti nei libri di Storia a un essere umano che era un padre, un marito e un vero credente in quello che faceva», dice. «Continuavo a chiedermi: “Come posso raccontare questa storia?”. Onestamente, l’ultima cosa che volevo fare era passare tutto il mio tempo a pensare a lui». Una pausa. «E invece è esattamente quello che ho fatto negli anni successivi».
Mettendo insieme «tre righe, due parole, un paragrafo, qualsiasi cosa», Glazer cominciò a porre al centro del racconto la famiglia Höss, iniziò a capire che si trattava di «creature dell’orrore non pensanti, borghesi e carrieriste» che avevano semplicemente normalizzato il male. Tuttavia, non era ancora sicuro di dove avrebbe voluto andare a parare. Il regista iniziò a viaggiare in Polonia, e fu durante una conversazione con Piotr Cywiński, direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, che si trovò nuovamente costretto a lottare con la solita questione: qual è l’intento di questo film?
«[Cywiński] mi disse: “Perché lo stai facendo? Perché vuoi farlo?”». Ricorda Glazer. «Gli ho risposto: “Non ne ho idea. È per questo che sono qui”. Mi consigliò allora di andare ad Auschwitz, e… sarò sincero, ho sempre avuto paura di andarci. Ma lui mi disse: “Vai e ascolta. Se ascolti, in un modo o nell’altro lo scoprirai”».
Una volta arrivato lì e vista la casa, Glazer ha avuto la sensazione che anni e anni di ricerche sul tema lo avessero condotto in quel luogo. Aveva il suo punto di partenza.
Il risultato sarebbe stato qualcosa che non solo raccontava minuziosamente la banalità che c’è dietro la banalità del male, ma guardava all’Olocausto in un modo che rifiutava l’immaginario solitamente associato a questi film. «Siamo diventati desensibilizzati a queste storie», osserva Glazer. «È impossibile mostrare quello che è successo all’interno di quelle mura. E secondo me non si dovrebbe nemmeno provare a farlo». (C’è solo una scena che si svolge effettivamente all’interno di Auschwitz, e la macchina da presa rimane sul primo piano di Höss.)
Invece, La zona d’interesse utilizza la suggestione e il suono – ciò che il regista definisce «male ambientale» – per evocare come gli esseri umani possano considerare l’uccisione metodica di altri esseri umani come un rumore di fondo nelle loro vite piuttosto che una tragedia profonda. Mentre le pittoresche scene domestiche si svolgono in giardini soleggiati e in sale da pranzo splendidamente progettate, il suono dei cani che abbaiano, degli spari e delle urla si intreccia con la colonna sonora. L’autore ha anche deciso di far iniziare il film con una lunga sequenza di schermo nero, accompagnata solo dalla colonna sonora atonale di Mica Levi. «Volevo che gli spettatori si rendessero conto di essere come sommersi», spiega Glazer, riferendosi al vuoto che accoglie gli spettatori prima di passare alla famiglia Höss che fa un picnic in riva al lago. «Era un modo per sintonizzare le orecchie prima di sintonizzare gli occhi su ciò che si sta per vedere. C’è il film che si vede, e c’è il film che si sente».
E quando si è trattato di girare all’interno della residenza degli Höss – una perfetta ricostruzione della casa originale – Glazer ha deciso di nascondere quasi una decina di cineprese in varie stanze, e poi ha chiesto al suo cast di recitare le scene in riprese continue mentre lui filmava tutto contemporaneamente, in modo che sembrassero vecchi filmati catturati da telecamere di sorveglianza e ciò che Wilson definisce «una casa del Grande Fratello piena di nazisti».
«Christian [Friedel] me lo ha ricordato di recente», dice Hüller, al telefono qualche settimana dopo la mia chiacchierata con Glazer. «Alcune riprese sono durate fino a 45 minuti, andavamo continuamente avanti e indietro. Non si sapeva cosa si stesse riprendendo, e da quale angolazione. La troupe e i monitor erano in un edificio separato, quindi se non ci dicevano di tagliare, ricominciavamo una scena e finiva per essere completamente diversa».
L’idea era quella di creare un’esperienza immersiva in cui le performance potessero trasformarsi nella vita di persone che svolgono la loro routine quotidiana, e che il cast fosse libero non solo di esplorare gli ambienti, ma anche di calarsi nella noiosa e banale vita di tutti i giorni, in contrasto con l’orrore che sta letteralmente accadendo fuori dal loro cortile. «Si potrebbe paragonare al teatro, ma con il teatro devi almeno guardare verso il pubblico», aggiunge Hüller. «Qui invece succedeva tutto intorno a te. Una delle prime cose che ho detto a Jonathan è stata: “Non voglio interpretare Hedwig. Non mi interessa”. E la sua risposta è stata: “Questo non è un biopic. Si tratta di creare un collegamento tra il passato e il presente”. Le cineprese in casa mi hanno aiutato in questo senso».
«Non volevo che la gente avesse una distanza di sicurezza dal passato e se ne andasse senza restare turbata da ciò che aveva appena visto»
Un concetto che Glazer sperava di rendere esplicito anche con il finale del film, in cui si viene momentaneamente catapultati ad Auschwitz nel XXI secolo; un flashforward disorientante che, a suo dire, è nato dalla sua esperienza di girovagare per il parco una mattina, e di notare gli addetti alle pulizie che raccoglievano i rifiuti e passavano l’aspirapolvere davanti ai reperti. «Era come se stessero curando delle tombe», racconta Glazer. «Sai, Höss è morto da tempo. È cenere. Ma il museo, e l’importanza di questi musei, è ancora lì».
Sono testimonianze di ciò che è avvenuto, dice, e mentre Glazer spera che La zona d’interesse venga accolto anche in questo modo, ammette che tutto quel fissare l’abisso gli ha fatto male. «A casa ho scaffali stracolmi di libri su questo argomento», confida, «e sono contento di essermene liberato e di essermi lasciato alle spalle la realizzazione di questo film. È stato un bel viaggio, ma per niente facile».
«Ma quel sentimento che stavo inseguendo… ora so cos’è», continua. «È un film nato da un profondo senso di rabbia. Non ero interessato a fare un pezzo da museo. Non volevo che la gente avesse una distanza di sicurezza dal passato e se ne andasse senza restare turbata da ciò che aveva appena visto. Volevo dire che no, no, no: dovremmo sentirci profondamente insicuri per questa sorta di orrore primordiale che ci riguarda tutti».
«Ero determinato a non fare un film sul passato, ma sull’oggi», aggiunge a bassa voce. «Perché questo non è un documento. Non è una lezione di storia. È un avvertimento».