«È facilissimo arrivare sul palco, mettere i soliti pezzi che tutti conosciamo – da Sound of Da Police di KRS-One a Still D.R.E., eccetera eccetera, ci siamo capiti – e vedere che sono tutti contenti. A te, è bastato fare il compitino. Ecco: di fare una cosa così non ne avevo minimamente voglia».
È veramente affascinante e per certi versi pure paradossale la storia di Davide Bassi, in arte Bassi Maestro (ma anche, non dimentichiamolo, North of Loreto). Negli anni ’90 e nei primi 2000 è stato infatti il bastione dell’integralismo hip hop: rap americano e solo rap americano come stella polare, tutti gli altri erano – l’espressione è proprio sua, e se ci vedete del sarcasmo fate bene – «estimatori del crossover». E se da un lato le prese di posizione integraliste nella musica sanno essere limitanti, dall’altro va detto e va dato atto che lui ha portato avanti la bandiera del rap-fatto-a-modo in anni in cui pareva che del rap-fatto-a-modo, in Italia, non gliene fregasse proprio niente a nessuno. Se ancora oggi il rap e l’hip hop non sono (del tutto) un orpello circense del mainstream ma comunicano ancora un senso di appartenenza edautenticità, lo dobbiamo in primis a persone come Bassi: lui ha sempre tenuto alta la bandiera del rigore, della competenza, dell’obbligo della conoscenza delle basi e delle radici stilistiche e culturali, invece di andare dove tirava il vento. E tutto questo lo ha fatto non a parole, ma coi fatti: dischi, produzioni, pure le prime pionieristiche video-serie sul web (Down with Bassi).
Bene: nel momento in cui l’hip hop non solo torna di moda ma diventa finalmente anche dalle nostre parti – come da anni in buona fetta del mondo – l’alfabeto egemone dell’industria musicale e dell’intrattenimento, uno come Davide Bassi poteva vivere di rendita, raccogliere i frutti della sua intransigenza praticata in tempi difficili e beccarsi oggi tutti gli onori (e gli appalti fruttuosi…) dei tempi attuali facili e trionfanti. Beh: no. Proprio quando il rap pure in Italia è decollato in modo roboante nei numeri, lui se ne è allontanato.
È così che nasce North of Loreto, un progetto tra electro, disco e funk, a cui si è dedicato tantissimo nell’ultimo quinquennio. È così che improvvisamente il suo nome scompare dai credits della scena rappusa (mentre negli annui bui era ubiquo). Ma soprattutto è così che lui si riscopre sereno: abbandonare lo scudo dell’integralismo per riscoprire il piacere di tuffarsi in alcune passioni musicali originarie – sul synth-pop-dance-disco anni ’80 ad esempio Bassi è un’enciclopedia, come dimostrato ad esempio nelle recenti sortite radiofoniche a due con Nicola Savino – ed anche il piacere del navigare in nicchie musicali da neofita entusiasta («Io lo so che con North Of Loreto entro in un campo in cui sono ancora un novizio, ho tutto da imparare, ed è proprio questo il bello, è proprio questo che mi rende felice» ci raccontava nemmeno tanto tempo fa), ecco, tutto questo gli dà una contentezza ed una serenità d’animo che è reale. «Ad un certo punto nel mondo del rap mi sono sentito fuori luogo: fuori luogo in quella musica, fuori luogo in quell’ambiente» ci raccontava quattro anni fa. Una dichiarazione sorprendente, se uno pensa invece a cosa è stato Bassi per il rap italiano – e il rap italiano per Bassi! – in tutto l’inizio di secondo millennio. Ma nel dircelo e raccontercelo era sincero e sereno al cento per cento.
Certi legami però non si recidono. Un po’ per gioco un po’ per caso un po’ per cazzeggio arriva Madreperla, il disco del ritorno di Gué Pequeno al rap super-classico, al boom bap come si deve; e l’artefice sonoro di tutto questo è Bassi. Disco che va alla grande, Bassi stesso che si vince premi come produttore hip hop dell’anno, sbaragliando concorrenze agguerritissime. Per quasi tutti sarebbe il momento di tornare a battere il ferro finché è caldo, no? E invece: «Non penso proprio che adesso potrei fare altre cose tipo Madreperla, nonostante figurati se non me ne hanno già chieste. Sai perché? Perché sarebbe un ripetere in modo freddo, calcolato ed opportunista una formula che, invece, è nata in maniera completamente spontanea. Non c’è stato nulla di calcolato. Non è che ci siamo messi a lì a dirci “Ecco, ora facciamo tornare il rap classico, è il momento giusto per farlo”… Sono contentissimo di averlo fatto, quel disco; e penso anzi che se il nuovo album dei Club Dogo è anche lui così classicheggiante come stilemi hip hop, è anche per la forza che ha avuto Madreperla, così come un po’ di Madreperla sta anche nel fatto che in giro è tornato ad esserci molto più hip hop di un certo tipo, quello classico, quello dritto. Mi fa piacere, tutto questo». Ma non gli interessa cavalcare la cosa. Zero.
Parlando di hip hop classico, a Bassi ora interessa altro. Ed è tutto concentrato su un evento unico (unico almeno per il momento, poi chissà…) il prossimo 5 aprile, allo Spazio Teatro 89 di Milano, intitolato Occhi aperti. Qualcosa che è molto più di un semplice live, di un semplice dj set. Molto di più. «L’anno scorso in effetti sulla scia di Madreperla mi sono trovato a fare parecchi dj set legati all’hip hop. Era da un po’ che non mi capitava di farli. Se a questo aggiungi che cadeva anche il cinquantesimo anniversario dell’hip hop stesso, capisci che in effetti c’era una serie di pianeti che si allineavano. Peccato che però io all’interno di questo genere sentissi di aver dato e detto praticamente tutto dal punto di vista creativo. Ho cercato allora di inventarmi un tributo all’hip hop che potesse essere per me comunque una sfida, qualcosa di nuovo e stimolante, visto che per me il semplice costruire o suonare basi hip hop classiche è una vera e propria comfort zone, così come appunto sarebbe stata una comfort zone salire sul palco e fare un dj set con tutti i soliti pezzi che piacciano all’appassionato rap di un certo tipo, con tutta la roba super-storica degli anni ’80 e ’90 con la scusa del celebrare l’anniversario. L’ho fatto per 25 anni, di suonare quella roba lì nelle serate. Io oggi a suonare Simon Says mi sento quasi fuori luogo, capisci? Ci voleva qualcosa di diverso. Ci voleva un’idea in più».
E l’idea è arrivata. «Io ho sempre molto lavorato con l’aspetto video: da Down with Bassi in passato a, ancora di più, tutta una serie di esperimenti che mi diverto a fare oggi su Twitch in tempo reale, dove utilizzo anche dei software per mixare non solo audio ma anche video. Alla fine ho voluto dare una forma ufficiale e lavorare su una declinazione compiuta di questi esperimenti. Per Occhi aperti ho insomma recuperato tutta una serie di materiale video anche abbastanza raro o, nel caso degli italiani, rarissimo, forse inedito, e a questi video ho legato tutto un lavoro di ri-editing e ri-masterizzazione del materiale audio, assolutamente fondamentale perché la qualità originale audio della fonte è quello che è, arrivando dal web o da altre fonti a bassi fedeltà. In questo modo ho costruito un vero e proprio racconto storico. Un racconto in cui ci sono molti anni ’80, che ancora oggi è un periodo della cultura hip hop che pochissimi conoscono, e poi ovviamente ci sono gli anni ’90, sia con materiale americano che con materiale italiano. Ma appunto: non sarà una semplice raccolta di spezzoni video con relativi audio, c’è dietro un lavoro di restauro e riattualizzazione fatto ad hoc. Sarà divertente: ad esempio per quanto riguarda anni ’90 ci sarà tutta una parte italiana che negli anni avevo sempre omesso nei miei dj set, così come ci sarà una sorta di racconto e tributo a quella che è stata la mia carriera nel campo del rap, cosa che prima mai avevo fatto».
Ne stai parlando un po’ al passato, di questa carriera. Sbaglio? «Non sbagli. Vedo infatti Occhi aperti come una sorta di mio omaggio finale all’hip hop, a quello che l’hip hop ha rappresentato per me. Non credo che farò mai più progetti legati esclusivamente all’hip hop. Ripeto: mi pare di aver già dato e detto tutto». Eh? Davvero? Proprio ora che sarebbe il momento di raccogliere i frutti e gli onori di anni ed anni di dedizione? Proprio ora che con Madreperla è stato (ri)affermato il tuo ruolo di padre nobile del rap italiano più classico, ora che il rap italiano più classico sta tornando di moda anche fra le nuove generazioni, dopo la sbornia trap? E, aggiungiamo: proprio ora che comunque la legge del mercato pare ancora più del solito batti-il-ferro-finché-è-caldo, soprattutto per i producer? Col risultato magari che poi, come nel caso di Charlie Charles, si va in un burn-out. Ma ok, non tutto è perfetto…
«Non posso parlare né per Charlie, né per altri. Posso solo dire che io sono arrivato stremato a furia di percorrere le strade dell’hip hop più classico. Stremato. Ormai è proprio una cosa che mi fa fatica. Ma se fossi un ragazzo di 25, 30 anni oggi, non so cosa farei, non so come mi sentirei. Per questo non mi permetto di dare lezioni a nessuno. Il problema è che quando decidi di giocare secondo le regole dell’industria, le alternative sono sempre poche. Vuoi fare un producer album, costruendo tu le basi ed invitando poi della gente a rapparci sopra? Beh, l’industria ti dice che gli unici nomi che ha senso chiamare sono sempre quei dieci che vanno per la maggiore, sempre quelli, non ti lascia alternative. Perché sono bravi; perché sono popolari; perché comunque si prestano ad operazioni di questo tipo senza creare problemi e in modo tanto veloce quanto efficace. Quindi insomma, sempre lì vai a parare. Se provi a proporre qualcos’altro, sempre l’industria ti dice: no, loro no, loro non si può, se vuoi loro noi non ci stiamo». Una pausa, e poi il ragionamento riprende: «Il problema è che le realtà che sono da un lato brave, dall’altro completamente indipendenti e libere quindi da un certo tipo di condizionamenti, oggi sono poche, molto poche. Quindi finisci coll’accettare una serie di dinamiche e una serie di costrizioni. Ma in realtà una via d’uscita ci sarebbe sempre, così come ci sono delle domande che sarebbe giusto tu ti facessi sempre…».
Tipo? «Se ti fanno una proposta e ti rendi conto che lo stimolo maggiore per accettarla è quello economico, beh, forse c’è qualcosa che non va. Poi chiaro: ognuno può e deve valutare secondo le sue necessità del momento, secondo la sua posizione. Questo è importante da sottolineare. Ma il consiglio che posso dare io è che se una cosa ti dà pochi stimoli a parte quelli economici, in realtà sarebbe meglio non mettersi a farla». Altra pausa. «Il problema è che ancora oggi sembriamo legati a delle dinamiche che ci vengono vendute ineluttabili, ma che ineluttabili in realtà non lo sono. Ti faccio un esempio stupido: ‘sta cosa che i dischi devono uscire la notte del venerdì, tutti. Sono almeno quattro, cinque anni che un po’ tutti ci diciamo “Basta con ‘sta stronzata, è ridocola”, eppure la si continua a fare, con sempre la pantomima del release party il giovedì sera, che non si capisce a chi serva. O ancora: la dipendenza che oggi si ha dalle piattaforme e dai loro editor per quanto riguarda le playlist, che riesce ad essere persino peggio di quella – già insopportabile di suo – che c’era all’epoca verso i quotidiani o verso testate come Tv, Sorrisi & Canzoni. Possibile che non riusciamo a fare dei passi avanti? Dopodiché, appunto, anche questa cosa che puoi collaborare solo con alcuni artisti e non con altri, perché altrimenti ti dicono che la tua cosa non funzionerà, che non farà i numeri negli stream, non passerà in radio… È davvero un buon affare lavorare con queste ansie, con questi obblighi detti o non detti che aleggiano sopra la testa? In realtà uno può anche farsi le regole del gioco da solo. Con Madreperla è stato così, e mi pare abbia funzionato. No? Così come io, nonostante da tempo abbia deciso di fare solo quello che mi piace e nel modo che mi piace, oggi sono nella posizione di poter dire “Basta, ora mi prendo un periodo di pausa di tre mesi”, visto che nel frattempo per fortuna ho già fatto un sacco di date, peraltro alternandole ad appuntamenti fissi ma in posti piccoli dove mi sento a casa, vedi appunto i giovedì al Ghe Pensi Mi a Milano, che è veramente una piccola cosa fra amici. Insomma, riassumendo: è possibile avere il controllo della propria carriera. Ed è bello il gusto di prendersi delle pause, senza che nessuno ti imponga questo o quello, così come il gusto di sperimentare, esplorare. Dovremmo ricordarcelo tutti più spesso».
«Ad esempio: l’avresti mai detto che la musica che sto ascoltando di più in queste settimane è il punk?». Prego? Il punk? Tu?! «Eh sì. Perché mi sono detto: cosa c’è fra gli ascolti che ancora mi manca come percorso? E poi, ho una figlia che è una bella rockettara… Che contrappasso, vero?». Caspita, sì. «Ma è bellissimo. E guarda, ne sono felicissimo».