Ha aperto il 15 febbraio e proseguirà fino al 1° settembre Yōko Ono: Music of the Mind, la più grande personale mai organizzata nel Regno Unito (ma anche una delle più grandi in generale) sulla vita e le opere della donna che ha fatto sciogliere i Beatles. Già, perché è quella la prima cosa che viene in mente pensando a Yōko Ono, e in parte è probabilmente anche vero. Ma chi conosce bene la vita e le opere dei Fab Four sa bene che le sue responsabilità sono collaterali, i quattro ragazzi di Liverpool avrebbero preso comunque altre strade indipendentemente dall’influenza che questa bizzarra donna dal Sol Levante ha avuto su John Lennon dal 1966 in poi.
Bizzarra perché per l’Inghilterra conservatrice di quegli anni – perché è opportuno ricordare che la mitica Swingin’ London era solo un lato della medaglia – una donna così indipendente, intelligente, creativa e anche ben conscia dei suoi mezzi era un bersaglio facile, il capro espiatorio perfetto a cui addossare la colpa di avere dissolto uno dei fiori all’occhiello dell’Impero Britannico.
Yōko Ono ha oggi novant’anni, compiuti lo scorso giugno, e nella vita di cose ne ha viste eccome. E la morte dell’uomo che amava, l’8 dicembre del 1980, per mano del folle gesto di Mark David Chapman, non è neanche la peggiore. Nata nel 1933, Yoko ha visto con i suoi occhi il Giappone devastato dalla guerra. Sfollata in campagna dopo il bombardamento di Tokyo nell’estate del 1945, ricorda che con il fratello, stesi sull’erba, giocavano a dare una forma alle nuvole. Le descrive come “le mie prime opere d’arte”. Poi vennero Hiroshima e Nagasaki, la resa del Giappone, la fine della guerra e l’inizio di un percorso artistico inevitabilmente segnato da queste esperienze. Per certi versi, un sentiero simile a quello raccontato da un altro visionario giapponese, Hayao Miyazaki, proprio nel suo Il ragazzo e l’airone, segno di un sentimento comune che ha abbracciato chi ha vissuto quei tragici anni per l’Impero.
Probabilmente è da qui che si dovrebbe partire per comprendere al meglio la donna e l’artista che per cinquant’anni è stata in qualche modo vilipesa ma mai realmente esplorata. Artista performativa e concettuale, musicista, molto brava a tessere relazioni e ad accompagnarsi con le giuste persone, divisa tra due culture, quella natia e quella americana d’adozione, Yōko Ono è un personaggio molto complesso e per questo affascinante, con intuizioni artistiche notevoli e altre più banali ma promosse con un’intelligenza non comune negli anni Sessanta.
I suoi Instruction Pieces, ovvero istruzioni che indicano a chi le legge come immaginare, creare, performare nella vita quotidiana, sono un’intuizione notevole, con lampi di puro genio sparsi qua e là. Un lavoro che parte quando Yōko aveva appena 21 anni e che prosegue per dieci anni, raccolto poi in Grapefruit, l’opera dattiloscritta che le raccoglie e in cui stila anche il listino prezzi per comprare i giorni del futuro. Alcune instruction sono quasi imperativi: FLY, TOUCH, dall’impossibile al possibile. Altri sono compiti per casa, che letti o ricordati con la giusta predisposizione d’animo hanno un senso ben più che compiuto: “Ascolta il battito del cuore”; “Passa in tutte le pozzanghere della città”; “Un dipinto da costruire nella tua testa”.
Altro discorso sono le sue performance come Bag Piece, in cui si rinchiude in un sacco che assume forme diverse a seconda dei suoi movimenti, un’opera d’arte in continua ricomposizione di sé stessa, la forma che si fa vita e viceversa. Oppure il famoso Strip Tease Show, in cui, immobile in scena, permette agli spettatori di tagliare con un paio di forbici lembi di stoffa dai vestiti che indossa fino a essere spogliata completamente, l’opera che si scompone e viene portata a casa. Niente di particolarmente originale, a dire il vero già negli anni Sessanta, ma quando a riprendere una di queste performance ci sono Albert e David Maysles, due dei maggiori esponenti del Direct Cinema, allora tutto prende una forma e una dimensione diversa. Così come i suo concerti d’avanguardia con John Cage, conosciuto ai tempi del college a New York, sarebbero passati probabilmente più in secondo piano con una collaborazione diversa.
Ono in questo ha precorso i tempi, capendo che “il media era il messaggio”, e utilizzando gli strumenti più utili per veicolarlo. Attivista per la pace, femminista, musicista, artista, e anche moglie e madre, entrambe cose in cui non trovava niente di denigratorio come donna, Yōko ha fatto anche della sua relazione con John Lennon, conosciuto nel 1966 e con cui ha diviso i successivi quattordici anni, un’opera d’arte. Dalla formazione della Plastic Ono Band al Bed Tour per la pace, passando per la campagna di affissioni di War Is Over, si capisce come la coppia avesse trovato un piano planetario comune che ha lasciato un segno indelebile nella storia della cultura pop, dei movimenti artistici contemporanei e della musica, naturalmente. Il testamento di Lennon fu Double Fantasy, uscito appena tre settimane prima della sua morte, disco straordinario, una delle vette della sua produzione artistica, in cui la mano di Yōko si sente.
L’esposizione della Tate Modern, che comprende oltre 200 pezzi, è un giusto tributo nei confronti di un’intellettuale che ha saputo ottenere il massimo da tutto quello che ha prodotto e che, cosa non da poco, ha fatto del suo meglio per vivere una vita davvero unica e irripetibile. Alcune chicche da non perdere: il film dei Maysles sullo Strip Tease Show, l’intero film Bed Piece che documenta la loro campagna per la pace via materasso, il volume dattiloscritto originale di Grapefruit, le lettere, anche di risposta, della campagna “Ghiande per la pace”, ovvero di quando John e Yōko spedirono delle scatoline contenenti due ghiande a tutti i maggiori leader mondiali come segno di pace. E poi le opere meno conosciute ai più, come il film Fly, in cui segue il cammino di una mosca sul corpo nudo di una donna, potente messaggio femminista.
Camminare tra le stanze della mostra permette al visitatore di intraprendere un viaggio attraverso sessant’anni di storia, fino all’ultimo pezzo, la SKY TV ideata nel 1966 e portata ai giorni nostri, una telecamera puntata verso il cielo sopra la Tate che trasmette in diretta quello che accade, che sia un cielo azzurro di cui portarsi magari via un pezzo – come nell’opera partecipativa Helmets (Pieces of Sky), realizzata per la prima volta nel 2001, che invita i visitatori a portare via il proprio pezzo di puzzle del cielo – o pieno di nuvole a cui dare una forma. Come la prima opera d’arte di Yōko bambina, stesa su un prato della campagna giapponese con il fratellino a inseguire le sue fantasie.