Lo dice sempre un’amica mia, quando ci sono i film belli la gente al cinema ci va, e quell’amica di cinema ne capisce, e io quando lo diceva annuivo sempre dandole ragione un po’ così, e invece dall’anno scorso moltissimo, e dall’inizio di questo ancora di più.
Per film bello s’intende tutto e niente, certo che sono belli a seconda del gusto mio o tuo, però ecco per belli diciamo e consideriamo quei film che hanno motivo d’esser visti perché – addendi vari, a volte sommati a coppie, nei casi più fortunati tutti insieme – hanno storie che t’acchiappano, sollevano il famigerato dibattito qualunque cosa significhi oggi, danno sguardi nuovi sul mondo, fanno pensare un po’ più in grande o un po’ più largo, vai a vederli e trovi la fila fuori dal cinema e allora pensi cazzo ma cos’è il ’95?, ti permettono poi di parlarne con qualcuno pensa te, invogliano a uscire di casa per ficcarsi dentro un posto al buio (“l’esperienza della sala”, la chiamano intrepidamente), eccetera.
L’anno scorso, lo sapete, sono successe due grandi cose di massa, e quelle cose si chiamano Barbie e Oppenheimer. Sono usciti lo stesso giorno (negli Stati Uniti), hanno fatto incassi scintillanti, il primo ha settato riferimenti da qui al futuro, il secondo vincerà l’Oscar tra qualche settimana. Sono film belli in quel senso ampio lì, grandi racconti popolari con però un’evidenza di visione d’autore, percorsi da scrittura, confezione, recitazione di prima scelta, e via a dire. Poi da noi è arrivato C’è ancora domani, per cui vale lo stesso discorso.
Non credo mai in queste spinte collettive – a meno che non sia Reds di Warren Beatty, un film che mi fa piangere sempre moltissimo ma non è che poi quella spinta lì di quella sinistra lì abbia portato chissà dove (all’armocromia, al massimo: devono aver preso i “reds” del titolo alla lettera, come pantoni). Dicevo, non credo mai in queste spinte collettive che producono terremoti, quindi non so se basti dire che Barbenheimer ha prodotto tutto quello che stiamo vedendo oggi, che quei due bei (senso ampio) film lì siano bastati a far pensare alla gente: toh, al cinema qualcosa di bello (senso ampio) lo trovi ancora.
Certo credo che abbiano almeno un po’ arrestato quell’inerzia che per molti era lo scegliere la visione al cinema, per anni il pubblico diceva andiamo perché c’è il secondo Avatar (pur pirotecnico), o il quinto Guardiani Del Multiverso Contro Le Guerre Infinite Di Capitan Formica, o lo Young Adult dal bestsellerissimo già in sconto all’autogrill, ma gliene fregava poco o niente, e fortuna almeno da noi spuntava un Checco Zalone a darci una scossa (quanto ci manchi).
Non credo alla spinta eroica del pubblico che grida “vogliamo l’esperienza della sala!”, io stesso ormai se mi danno un link non è che mi scandalizzo anzi, ma all’inizio dell’anno nuovo, il primo gennaio preciso, noi addetti ai lavori (vabbè) di questo malatino che è il cinema abbiamo pensato: ma allora quest’anno si è fatto il vaccino antinfluenzale, ma allora non è il catorcio che pensavamo. È successo che Il ragazzo e l’airone di Miyazaki – un nome che, nella sua storia, alle masse c’è arrivato eccome, ma ci siamo capiti: cartoon nippo-filosofico-esistenzialista non proprio let it gooo, let it gooooo – è balzato in testa al botteghino italiano, e tre giorni esatti dopo è arrivato il Giappone però di Wenders, che nelle settimane successive avrebbe superato i cinque milioni d’incasso, cosa mai successa a Wenders in Italia e soprattutto a un pulitore di cessi di Tokyo (protagonista del film, che è Perfect Days).
Dietro c’è Lucky Red, che a San Valentino ha piazzato pure Past Lives, anche lì primo posto per una storia d’amore interrotta tra America e Sudcorea, “l’ho visto l’altro giorno in sala ed era pieno di ragazzi giovanissimi, forse l’hanno preso per un K-drama”, diceva un’altra amica, e io non ci avevo pensato perché di K-drama non ne ho mai visto mezzo (la vita è troppo breve), però in effetti un po’ di K-drama c’è, e c’è anche quest’idea del “cinema di qualità” che sembra una certificazione dop tornata ad essere rilevante, per un pubblico sempre più piccolo ma che ha voglia di quei bei (senso ampio) film lì, di quelle storie lì non serializzate.
E poi – passando per i quasi otto milioni di Povere creature! – è successo che stamattina mi sono svegliato e ho visto che, nel primo weekend in Italia, La zona d’interesse ha fatto quasi 800mila euro, e La zona d’interesse è sì un gran film, se n’è parlato tanto in questi mesi (sempre nella bolla della bolla della bolla), ma è comunque un drammone d’auteur (il sottovalutatissimo Jonathan Glazer: mo’ so’ buoni tutti a dire genio, dov’eravate ai tempi di Birth) sul comandante di Auschwitz, e dopo il Covid eravamo rimasti a “la gente i film tristi al cinema non vuole più andare a vederli” – altra cosa che non avevamo capito.
Ora laggiù in America sono preoccupatissimi perché quest’anno un nuovo Barbenheimer non ci sarà, i film anche grossi attesi nei mesi a venire non garantirebbero chissà che numeri, e dunque il cinema tornerà il corpo comatoso che era. Io m’accontento del nostro piccolo Paese di cui non frega a nessuno e dove al cinema ci andranno in pochi (e sempre più pochi), e vedo questi strambi numeri nelle classifiche, e penso che è tutto il contrario della musica dove esistono solo gli italiani e gli stranieri ormai sono spariti e invece al cinema gli italiani non li fila più nessuno (Cortellesi e pochissimi altri a parte) e le commedie nostrane arrancano e Wim Wenders diventa un piccolo campione d’incassi con i suoi cessi pubblici. E penso che c’ha ragione l’amica mia, e allora ci vediamo al cinema, che cosa sovversiva da dire, nel 2024.