Ci sono i vampiri alla mia porta, e non riesco a stare da solo. Una pick-up line da maestro, quella che sfoggia Harry (un tenerissimo, ma sempre un po’ dannato Paul Mescal) all’inizio di Estranei di Andrew Haigh, presentandosi davanti all’appartamento di Adam (Andrew Scott) in una notte londinese in cui l’anima sembra aver perso la strada di casa, e la solitudine preme fino a far esplodere il cuore.
Per quanto weird but sexy, la frase non è farina del suo sacco. Arriva dal limbo a metà tra il tempo e il sogno in cui finiscono le parole ben piazzate, quelle che dicono qualcosa di noi senza davvero farsi comprendere, e lì rimangono, nel retro della testa, a infestare come fantasmi. In questo caso, il complemento di moto da luogo è facilmente identificabile: The Power of Love dei Frankie Goes to Hollywood da Welcome to the Pleasuredome, 1984, prodotto da quel Trevor Horn che lavorò con ABC, Grace Jones, Pet Shop Boys (per dire) e che nei Buggles, era il 1980, “inaugurò” l’era digitale della musica con Video Killed the Radio Star. “I’ll protect you from the hooded claw, keep the vampires from your door, feels like fire…”.
Quarant’anni esatti, ma dagli Eighties a qui sembrano due secoli, due vite. Forse lo sono per Adam, sceneggiatore nato giusto qualche anno prima di quella canzone. Vive in un austero palazzo “trendy” della capitale del Regno Unito, si nutre alla bisogna, beve più che altro, non esce mai, sembra avere difficoltà nel sedersi alla postazione di scrittura per lavorare su un’idea che gli frulla in testa da un po’. Ha perso i genitori in un incidente d’auto quando aveva dodici anni. Omosessuale, ha vissuto a lungo la sua sessualità in maniera contrastata, complice anche il fatto di non aver mai potuto rivelare questa parte di sé alla famiglia più stretta (interpretata da Jamie Bell e Claire Foy). Vorrebbe scrivere di loro, di ciò che ha perso, anche se forse, alla fine, non ha fatto bene in tempo a capirlo.
Siamo ai nostri giorni, ma potrebbe essere la coda lunga di una distopia. I rumori della metropoli arrivano lontani, le luci a volte non fanno dormire, Haigh chiede alla cinepresa piani stretti, sottilmente in movimento. E, in effetti, Estranei si situa proprio nel day after tomorrow di due “mondi brutalmente impossibili”: il primo sono i due decenni della “peste gay”, durante i quali la negligenza collettiva verso le infezioni da HIV investì la comunità queer, sotterrando le conquiste sociali (e morali) raggiunte negli anni precedenti; il secondo parla sempre di infezioni, ma il nome questa volta è Covid-19, e sappiamo com’è andata. Ne risulta un mondo a fettine, dove avvicinarsi all’altro pare hybris degna delle più terribili punizioni divine.
Per questo il gesto più naturale, per Adam, è chiudere la porta, lasciare che i vampiri (che lui, in fondo, sta solo ignorando) divorino l’anima di Harry. C’è un’esitazione, però, ed è qui che il film si mette in moto. Il personaggio di Scott, che scrive e conosce la fertilità dei crocicchi, spalanca l’abisso del what if. E se lo lasciassi entrare? E se tendessi una mano? E se, mettiamo, anche questo estraneo condividesse la mia stessa solitudine, parte della mia storia, e fosse quella scheggia di me che mancava all’appello?
In questo tunnel da Bianconiglio ci finisce, naturalmente, anche lo spettatore. E, come bisogna essere disposti a credere che un lato del cappello di un fungo faccia diventare giganti e l’altro minuscoli, così bisogna prestare il proprio consenso molte volte, per non uscire dal solco tracciato da Adam, o forse dal regista e sceneggiatore Haigh, chi lo sa. Adam ed Harry, da estranei che furono, si scoprono non solo anime gemelle particolarmente funzionali, ma anche presi benissimo a ogni passo condiviso. Adam intraprende quel viaggio di guarigione a tutto tondo che aveva rimandato così a lungo, trent’anni suppergiù, e nel sentimento verso Harry sublima, sorride, sembra finalmente capace di chiudere con il proprio passato (e con i fantasmi dei genitori, che continua a “visitare”). Un collega un giorno ha definito questo genere di arco “la parabola del queer triste”. E poi cos’è che cantavano dell’amore? “The power of love, a force from above, cleaning my soul…”.
Il percorso di Adam, però, appare presto chiaro, non è in giro per Londra, nei club con Harry, sui prati verdi d’Albione, attraverso un tunnel di ketamina quando fuori cala il buio e nel club la musica continua. Così come New York e “l’altro” erano figmenti ipertrofici della coscienza del Caden Cotard di Synecdoche, New York, così l’unico punto di vista a cui possiamo affidarci (sapendolo inaffidabile) è quello di un protagonista in preda alla spirale dell’Io. Nessun mondo oltre il suo, come sembra indicare il nome da “primo uomo” che si ritrova (decisamente meno prosaico di “Harry”). Dobbiamo scendere al fondo del vortice insieme a lui, accettare la sconfitta del principio di realtà, oppure pigliarci male appena usciti dalla sala.
Perché nei confini di questo mondo, che esiste, e non può essere messo in discussione, Adam quarantenne può andare a trovare i genitori (cristallizzati ai trent’anni) nella vecchia casa di famiglia (Haigh ha scelto di girare nella “vera” vecchia casa della sua famiglia), prendere il tè con loro, fare coming out, tracciare una somma di “com’eravamo” ascoltando le preoccupazioni della madre che viene a conoscenza della sua natura e gli chiede, soprattutto, se non si sentirà solo, di fatto completando la sua educazione sentimentale nel respiro di un sogno.
Haigh non fa mistero del fatto che Estranei sia un film intimista, con cucite dentro alcune note autobiografiche (anche lui, per esempio, ha perso la madre in giovane età), né che sia un film queer, che parla di un amore queer e delle difficoltà storiche e sociali che hanno portato alla possibilità di affermarlo, questo amore, nel mezzo sentendosi sbagliati, soli, appunto, inconoscibili (e “stranieri”) per gli altri attorno e, in certa misura, anche per noi stessi.
Liberamente (molto) tratto dal romanzo omonimo di Taichi Yamada (pubblicato per la prima volta nel 1987), sarebbe però sbagliato cercare di categorizzare, intellettualizzare forse, eccessivamente la quinta opera del regista di Weekend e 45 anni – ché, comunque, di lavori “nascostamente” queer non ne ha mai tentati. Facendolo, se ne perderebbe il nucleo morbido e prezioso, quell’incongruenza di fondo, quell’incredulità che emerge a tratti, che ci ricollega a quel limbo in cui un vampiro alla porta emoziona, e parla di noi in una lingua che non riusciamo a comprendere.
Facendolo, finiremmo per dire che Estranei è “molto bello” ma sorretto unicamente da due performance affiatate e, per Mescal soprattutto, decisamente mature. Diremmo che è facile far leva sugli spigoli scoperti del cuore (sessualità e identità, famiglia, scrittura, solitudine, paura, a chi non parla questo film?), e cercheremmo di trovare una spiegazione razionale al fatto che quello che abbiamo appena visto non dovrebbe, in fondo, piacerci. Oppure potremmo domandarci, come fa il Guardian, se davvero questa storia sia una rappresentazione che rende giustizia all’esperienza di essere gay, o anzi, come distingue Harry, queer.
A tutte queste domande avremmo già risposta. Per la felicità di aver provato anche solo la metà della commozione che ci ha provocato la Ghost Story di David Lowery, però, ci limiteremo a chiosare, con i CCCP: “Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così, non dire una parola che non sia d’amore”. E lasceremo che Estranei si colleghi al nostro, di mondo, per vie incomprensibili. Ah, una cosa: se vedrete i Frankie Goes to Hollywood spuntare misteriosamente tra i TikTok della Gen Z, che questo film attendeva per il sex symbol Mescal (e anche per Scott, dài), adesso sapete anche come mai.