MasterChef Italia 13 è finito, e ha trovato la sua regina. Con una classifica che ricalca pericolosamente “tutto quello che già sapevamo”, in puro stile del vicino Festival di Sanremo, i chakra si sono riequilibrati, il mondo rassicurante in cui vogliamo vivere è stato confermato. Nessun ribaltone possibile, la finale è un allenamento di squash in singolo, e, batti che ti ribatti, vengono fuori i muscoli. Quelli veri però, non quelli della cazzimma. Appartengono alla più mingherlina della classe, quella ventisettenne tutta storta che ci aveva fatto affezionare già alla prima puntata. Eleonora è un esercito, amica, nemica e amante di sé stessa nello stesso piatto. E ad amarsi sta imparando sempre di più. Senza ironie, è il caso di dirlo: God save the Queen.
Eleonora Riso voto: 10
Ichi-go ichi-e: una volta, un incontro. Con un colpo di mano che unisce ispirazioni nipponiche alla cucina di casa Toscana (sarà mica che la lezione di Mory Sacko abbia sortito qualche effetto?), questa straniera meravigliosa ci fa, finalmente, divertire, e ci provoca non poca acquolina in bocca con piatti che, innanzitutto, aprono: lo stomaco, gli orizzonti, il futuro. Lo fa per sopravvivere, pare, nel modo di chi subisce il proprio talento passivamente: crollando spesso, smettendo mai. Inserendo una citazione apocrifa di Ungaretti nel suo Fiume sacro: «Ho tirato su / Le mie quattro ossa / E me ne sono andato / Come un acrobata / Sull’acqua».
Michela Morelli voto: 8
Mountain Experience potrà non essere un titolo particolarmente originale per un menu, ma su Michela calza a pennello. Lei è stata, durante questa edizione, la nostra vera esperienza: toro scatenato, dea New Age, concorrente senza scrupoli e mother di tutti gli avversari. Heiße Liebe, amore caldo, dolce che dalle sue parti altoatesine va forte per il connubio tra gelato freddo-freddo e salsa ai lamponi calda-calda. Un “Arrivo a casa”, come recita il suo dessert, interpretazione di strudel. Non avrai vinto come tanto volevi, Michela, ma abbiamo l’impressione che una sorta di nuova casa tu l’abbia trovata.
Andreas Caminada voto: 7,5
Non è bravo, di più, è dritto come uno svizzero dritto, è elegante e pure un bell’uomo. Il difetto di Andreas Caminada alle battute finali di MasterChef è proprio quello di essere “troppo”, e di impedirci quell’identificazione di cui l’anima provata da emozioni e sacrifici ha disperatamente bisogno. Sembrano pensarla così anche i concorrenti, schiacciati da tutta la tecnica che si vedono esibita davanti, troppa per tenerla dentro. La connessione mitteleuropea funziona con Michela, tra uno scambio in tedesco e l’altro.
Antonio Mazzola voto: 7
Tra tutte le personalità cosmopolite – Antoine, Anthony, Toni il cubano – non avevamo dubbi che, alla fine, la Sicilia che scorre nel sangue di Antonio avrebbe preso il sopravvento. È un “problema”? No, certo che no, specie se gli attesi “omaggi” arrivano con un menù che si ispira ai viaggi in Italia dello scrittore nazionale tedesco Johann Wolfgang Von Goethe, celebrando quel bi-animismo che il Mazzola, emigrato in Germania, deve aver introiettato da qualche parte. Diciamo che il dessert al pistacchio non stupisce, né noi, né i giudici. Però bravo, Antonio. Quando aprirai il tuo ristorante, facci un fischio. A noi, soprattutto sull’oro verde di Sicilia, piace sempre essere smentiti.
Sara Bellinzona voto: 6
Errorini vecchiotti qua e là, tanta emozione, la voglia di farcela ma i demoni ancora forti, nonostante gli occhiali da vista siano spariti da un po’. Sara non è emozionata, trema, e come una foglia che rabbrividisce al vento si perde lungo la strada, e non capisci bene dove voglia andare a finire. Così anche la sua cucina, dobbiamo dire, non l’abbiamo ben afferrata. In questo MasterChef, Sara è stata a volte bravissima, a volte così-così, ma mai, ce ne dispiace, “Sara”. La storia avrebbe potuto esserci. A oggi, ha ancora bisogno di qualche rintuzzata da parte di un bravo editor. Nulla che, con il tempo, non possa sistemarsi.
I giudici voto: 5
La finale di MasterChef è una festa, i giudici ci invitano a prendere posto, e come ospiti da loro ci aspettiamo cerimonie, la lacrima e il sorriso, e un savoir-faire che dovrebbe, auspicabilmente, travalicare l’eleganza irresistibile del completo rosso di Barbieri. Il party invece è sottotono, il copione prevale sulla spontaneità. E lo sappiamo, per carità, che è difficile rendere le cose interessanti quando la vittoria non può essere che netta. Ma questa, in fondo, è la croce e delizia dell’intrattenimento: essere superfluo, e imprescindibile allo stesso tempo. Qualcuno diceva che annoiarsi alle feste era stato di esistenza filosoficissimo. È una pratica che apprezziamo, ma non il giovedì sera sul divano di casa.