Paolo Virzì,
il capitale italiano
Ritorno a Ventotene, quasi trent’anni dopo. Il regista di ‘Ferie d’agosto’ pensava da anni a un sequel perché «tutti mi tormentavano», ma quando stava per farlo ha abbandonato il progetto. Fino a oggi, tempo in cui fare il bilancio dei Molino e dei Mazzalupi diventa «il modo per fare anche il mio». Il nuovo film, Berlusconi che non c’è più, il fascismo di ritorno, il diventare più vecchi (ma non necessariamente più maturi). E l’Italia, e tutti noi: ancora lì, ancora qui
Paolo Virzì sul set con Silvio Orlando. Foto: 01 Distribution
Alle sue spalle, mentre chiacchieriamo su Zoom, Paolo Virzì ha i poster di Tutta la vita davanti e La prima cosa bella, e sembra come dentro questa cover che ha disegnato per Rolling Stone, lui in mezzo ai suoi personaggi, «i miei pupazzetti» li chiama lui, che sono il suo racconto di noi, e di sé. Oggi, lo sapete, ha ripreso i pupazzetti tra i suoi più famosi e amati, i protagonisti e il coro di «quella truffa» che era Ferie d’agosto: «Dopo il mio primo film tristanzuolo sotto i fumi delle fabbriche di Piombino (La bella vita, nda) sono andato da Cecchi Gori», come ha raccontato spesso, «dicendogli che avrei girato una commedia balneare di quelle che sapevano fare i Vanzina, i Parenti, gli Oldoini, e dentro però ci ho messo un segreto. Solo a pochi intimi dicevo: “È una truffa, in realtà stiamo facendo una commedia di Čechov”».
La truffa la conoscete, è uno dei film che hanno disegnato, anticipato, dribblato i successivi trent’anni di storia italiana. Rieccoci oggi a Ventotene, con Sandro Molino (Silvio Orlando) che sta per morire e, in un atto idealista finale, vuole scrivere insieme al nipotino una lettera a Ursula von der Leyen per conservare la memoria di quell’isola e dei suoi confinati che negli anni ’40 inventarono l’Europa. E con lui la moglie Cecilia (Laura Morante), il figlio Altiero come Spinelli (Andrea Carpenzano) diventato ricchissimo grazie a una app, e gli amici, e i vicini dell’“altra Italia”, ora neo/ri-fascistizzata. Perché tornano anche i Mazzalupi, anche se del clan non fanno più parte Ennio Fantastichini (fu Ruggero) e Piero Natoli (Marcello), morti nel frattempo, ma le loro mogli (Paola Tiziana Cruciani e Sabrina Ferilli) ci sono ancora: la prima ha la figlia Sabrina (Anna Ferraioli Ravel), influencer ramo tutorial beauty, che si sposa con un trafficone nostalgico del Ventennio mai vissuto (Vinicio Marchioni), la seconda arriva accompagnata a un palazzinaro in realtà spiantato (Christian De Sica), molto dinorisiano. Tornano tutti quelli che sono rimasti e torna tutto, anche l’“igiene delle parole”: una volta non si poteva dire che un’insalata è “simpatica”, qui c’è l’ossessione per “radical chic”. Ecco la nuova, vecchia Italia, rieccoci qua.
A convincerlo a fare Un altro ferragosto, nelle sale dal 7 marzo, è stato – Virzì ha raccontato anche questo – un signore bolognese. Dopo una proiezione di Ferie d’agosto in Piazza Maggiore, tutte le mani si sono alzate per dire ma perché non fa un sequel, e lui rispondeva ma no, cosa lo faccio a fare, due dei protagonisti sono pure morti, e quel signore lo liquidò così: “Ma scusi, un regista come lei si fa spaventare dal tema della morte?”. In realtà l’idea era lì già da un po’. Anni fa eravamo nel giardino di un villino del Lido di Venezia, io e Virzì, e lui mi disse che sì, a un seguito di Ferie d’agosto, che lo riunisce nella scrittura a Francesco Bruni, ci stava pensando davvero. «In quel momento però s’intitolava L’ultimo ferragosto, e del vecchio Ferie d’agosto riprendeva solo, come si direbbe ora, il format».
Ahia, qua devo già segnalarti per igiene delle parole.
(Ride) Cartellino giallo, sì. Va bene, lo dico in italiano… però non c’è una parola, ora che ci penso. Allora, del vecchio Ferie d’agosto riprendeva la struttura dialettica.
Oddio, forse “struttura dialettica” è pure peggio.
In effetti… comunque, stavo pensando a un’altra commedia di villeggiatura ma con altri personaggi, ambientata nell’estate di Salvini. Era l’estate degli sbarchi, e avevamo una chat segreta su Signal a cui partecipavamo io, Sandro Veronesi che era l’animatore principale, Michela Murgia, Saviano. Loro stavano interrogandosi su cosa fare per rispondere alla narrazione ufficiale della paura, dei neri che arrivavano ad assaltarci dall’Africa… mi ricordo una frase di Sandro su cui avevo dei dubbi, “mettiamoci il corpo, andiamo noi sulle barche”; io gli dicevo attenti a questa parola, il corpo, che a me viene subito in mente l’inno di Benigni, “quando si caca di molto…” (ride). Comunque, mi ricordo che quell’estate mi presi l’impegno di andare su Open Arms con Òscar Camps, e poi però ci è andato Sandro, e ti spiego perché. Ero in vacanza a Baratti, e portando i miei bambini a fare il bagno con un pedalò avevo trovato il mare appena appena increspato, e avevo rischiato il naufragio, ed ero anche scivolato perché la bambina s’era tuffata senza braccioli, andando nel panico. E allora ho pensato: come posso andare a salvare le vite nel Mediterraneo se sono uno che naufraga col pedalò. Questo era il primo spunto. Poi c’era stato un altro episodio che mi aveva colpito. Non mi ricordo in quale località balneare un ambulante si era ribellato alla bullizzazione da parte di un gruppo di villeggianti tatuati stile fratelli Bianchi di Colleferro. Aveva dato una capocciata a uno di loro ed era scappato nelle dune. Avevo unito queste due cose e a quel punto ero, quando ci siamo incontrati.
E poi…
E poi ho deciso di non girarlo come spesso mi capita, non è stato un caso eccezionale. I film è bello farli ma è bellissimo anche non farli. E quel copione, che pure era già andato in produzione, stavo facendo i primi casting, decisi di abbandonarlo.
Stacco di qualche anno, arriva il signore di Bologna.
Sì, ma anche prima gli attori stessi mi tormentavano. Mi ricordo Natoli che m’inseguiva dicendomi “lo fai il 2 di Ferie d’agosto?”, e io pensavo fosse una furbata, ché mi metto a fare i sequel, chi sono, Sydney Sibilia? (ride) Quindi lasciavo correre, finché è arrivata la piazza di Bologna, e la domanda di quel signore che ha cominciato a lavorarmi dentro. E poi ho fatto un sogno. Ero a Ventotene, ma una Ventotene tempestosa, non estiva, e in quel sogno c’erano tutti gli esiliati illustri del confino, Spinelli, Colorni, Pertini, Camilla Ravera, Terracini, Di Vittorio, e in mezzo a loro c’erano anche Fantastichini e Natoli esuli a Ventotene, e mi dicevano: “Non fare il prezioso, vieni qua, dài, ti aspettiamo”. In particolare Natoli insisteva: “A Pa’, te lo stanno a di’ pure loro, méttete a lavora’”. È un sogno che mi fece molto ridere e commuovere, perché c’erano i miei vecchi amici con i padri della patria. Il giorno dopo buttai giù la scaletta della storia, quest’ideina per cui di là c’è un matrimonio e di qua una specie di commiato alla vita. E per farmi aiutare la portai a mio fratello Carlo, che è un feticista di quel film al contrario di me che non riesco a riguardarlo, mi sembra girato alla cazzo di cane.
Lo dici spesso.
All’epoca non sapevo girare, ero interessato agli attori, avevo fatto il mio primo film (La bella vita, nda) dov’ero stato in balìa della troupe di Paolo Carnera (il direttore della fotografia, nda) perché non sapevo fare niente, ero davvero un debuttante totale, avevo fatto solo lo sceneggiatore e sui set ero passato giusto a salutare da lontano. Dicevo a Carnera “qui vorrei un faccione, qui invece fallo più piccino”, e spesso lui rispondeva “nun se pò fà”. Allora per il secondo film mi portai uno steadycam, Giovanni Gebbia, come operatore principale, perché pensavo “lui non mi dirà: nun se pò fà”. Ma io continuavo a non guardare la luce, gli sfondi… non guardavo Ventotene. Avevo attorno a me questo cast di attori pazzeschi e guardavo loro. Per questo Ferie d’agosto è un film che, se lo guardo ora, penso: “Ma come cazzo l’ho girato”. Ti dico solo che a un certo punto, quando si presenta la casa dei Molino nell’ultima inquadratura dei titoli testa dove c’è anche il mio nome sotto, “diretto da Paolo Virzì”, non si vede che siamo al mare, e bastava che alzassi la macchina di un metro. Ero ignaro di tutto, e credo di aver imparato a fare il regista così, da questi errori. Infatti il terzo film, che era Ovosodo, è il primo che ho iniziato a girare avendo un po’ in mente la ripresa cinematografica.
Insieme a tuo fratello Carlo, tantissimi hanno una passione feticistica per Ferie d’agosto. Guardando Un altro ferragosto ho pensato che, dopo anni passati (forse) col timore di dover fare il sequel perfetto, cioè quello che tutti quei feticisti si aspettavano, a un certo punto ti sia invece detto “ma che me frega, faccio il film che voglio fare adesso, e stop”.
Sì. A un certo punto mi sono reso conto che il tema del passare del tempo, di come questi due aggregati famigliari sono cambiati e le loro relazioni si sono trasformate, come hanno reagito ai lutti, alle novità, ai cambi di scenario socioculturali e politici, mi ricordava la natura di certi romanzi d’appendice che io amo molto, quelli ottocenteschi dove poi si riepilogano le vite, come I tre moschettieri vent’anni dopo di Dumas, o certi romanzoni dickensiani coi personaggi che col tempo crescono, invecchiano, fino alla morte. Aggiornare le loro vicende personali, fare il loro bilancio – e adesso ti dico questa cosa avvicinandomi sottovoce, poi valuta te se scriverla perché rischia di suonare pomposa – era anche il modo per fare il mio, di bilancio, per dire com’ero cambiato io.
Dimmi se questo cambiamento che ho scorto io è reale: nel primo Ferie d’agosto restava la speranza del “cosa ci sarà dopo”, ora lo sappiamo cosa c’è stato, cosa siamo diventati, e mi sembra tutto più…
Sconsolato? Ti piace sconsolato? O sconfortato, disperato…
Sì, disperato. Del resto una delle battute più belle è di Laura Morante: “Non sono profonda: sono disperata”. In generale, se prima ci lasciavi col dubbio su chi parteggiare – e infatti su questa cosa del “ti senti più Molino o Mazzalupi?” ci giochi tu stesso da sempre – adesso, ecco, mi sembri proprio un Molino.
Forse sono un po’ Sandro, dici? Può darsi. Ma la verità è che sono anche un po’ Sabri Mazzalupi. Le cose che dice Sandro la sera del matrimonio sono giuste anche se le dice nella modalità sbagliata, non si rende conto di essere del tutto inefficace presentandosi in ciabatte a fare la sua lezioncina sull’importanza dei valori dell’antifascismo e della democrazia, non sa di coprirsi di ridicolo. Ma sono anche Sabri quando dice: “È tutta la vita che mi sento giudicata. Chi siamo noi, quelli di serie B? Mo’ basta!”. Certo, ci sono anche personaggi verso i quali sono più spietato, per esempio quello di Marchioni. Ruggero (il personaggio di Ennio Fantastichini in Ferie d’agosto, nda) era l’armaiolo di piazza Tuscolo che faceva cose terribili, sparacchiava agli ambulanti, però ti faceva una pena infinita perché era innamorato disperatamente della cognata (la Marisa di Sabrina Ferilli, nda) e non pensava ad altro, e tutto questo avveniva sotto gli occhi di sua moglie (Paola Tiziana Cruciani, nda) che si era accorta di tutto, e quindi emergeva il tema romantico, faceva persino tenerezza. Ruggero era il capotribù di quella piccola borghesia che aveva scoperto di non doversi più sentire in colpa per non aver letto neanche un libro perché stava vincendo un’altra parte dell’Italia, che era quella del Karaoke, delle tette, dell’allegria berlusconiana. Invece Cesare (il personaggio di Marchioni, nda), questa specie di bestione tatuato approfittatore, incarna questo nuovo tipo di destra che non è più quella berlusconiana, e difatti Berlusconi è simbolicamente morto la scorsa estate durante il set. È arrivata quest’altra Italia che è fatta di un’altra ombra, quella della paura degli stranieri, e anche, soprattutto, degli omosessuali, che si batte per la famiglia tradizionale, eccetera. Allo stesso tempo, perché non mi riesce di fare i personaggi cattivi, ho immaginato che Cesare fosse in realtà un criptogay, come forse quell’altro fascistone da gran mondo (Christian De Sica, nda) che arriva con zia Marisa, un borghese del giro costruttori romani, da circolo canottieri, e infatti tra loro nasce un’intesa… insomma, c’è sempre quel senso di compassione, di pena, alla fine il mio cuore sta un po’ con tutti.
Sei proprio invecchiato…
Ho capito che il passare del tempo non fa maturare le persone, ma accentua le loro fragilità. E quindi sono anche un po’ Cecilia, con la sua continua questua di attenzioni e conferme. Se prima viveva un complesso d’inferiorità verso il suo compagno che lei vedeva come una divinità – e infatti alla fine di una scena piuttosto comica del primo Ferie d’agosto, mentre lui emergeva esausto e sudato dalle coperte dopo averle probabilmente praticato un cunnilingus, lei gli diceva “sei bellissimo” e lui era un’otaria, c’era uno sbilanciamento totale tra Laura Morante, che è una delle donne più belle del mondo, e Silvio con quella sua fisicità da caratterista – ecco, oggi in questa relazione si sono accentuati gli spigoli di ventisette anni fa: lui è ancora più ruvido con lei, pur amandola, lei ancora più insicura, e di fronte alla prospettiva che lui possa morire mette una barriera di denial, come dicono gli americani, e cerca di farlo ingelosire. Invecchiando non si matura ma si diventa ancora più fragili, i legami si portano dietro questioni che riguardano lo stare al mondo, la società: Sandro, uomo di sinistra, soffre per questo suo figlio diventato ricchissimo, che ho ricalcato su Moxie Marlinspike, l’inventore di Signal, un ex anarchico punk che a 26 anni ha venduto tutto, è diventato billionaire e si è messo a fare beneficenza forse per espiare il suo senso di colpa. E, col tempo, senti la memoria che svanisce, e da qui Sandro fissato con quella storia del confino a Ventotene che non ricorda più nessuno, e invece la democrazia europea moderna è stata pensata mentre il mondo era in fiamme: è incredibile che quei matti abbiano concepito quell’idea così lungimirante nel ’41. Molto lo dobbiamo a Ursula Hirschmann, che all’epoca era solo la sorella di quello che sarebbe diventato un premio Nobel per l’economia, la “negra”, detto nel gergo degli sceneggiatori, che non firmava il manifesto, e invece se leggi la sua autobiografia capisci che è stata lei la vera ispiratrice.
A un certo punto a Sandro qualcuno dice: “Tu non sai divertirti”. Ecco, se prima c’erano l’allegria e il Karaoke, in questa nuova estate che racconti il segno vero è che pare non divertirsi più nessuno.
Fammici pensare… non è del tutto vero, a un certo punto da una parte ci sono delle danze scatenate e dall’altra, quando intorno a Sandro si ricrea la sua comunità, ricominciano a cantare e suonare come ai vecchi tempi. Certo, c’è un’ombra di malinconia in più, ma questo probabilmente dipende da questa cazzo di capoccia (si indica la testa, nda), dal mio modo di guardare le cose che è mutato. Quando girai Ferie d’agosto avevo trent’anni, tutte le sere dopo le riprese suonavamo la chitarra, facevamo casino. Adesso ho girato questo film defilato in cima all’isola, nel posto più irraggiungibile. Ci siamo fatti qualche cena, perché molti del cast sono ormai i miei fratelli e le mie sorelle, ma fondamentalmente me ne stavo per i cazzi miei. Sarà l’andropausa, la senilità, ma da parte mia c’è meno voglia di festa, non lo so.
Hai colto spesso l’umore del Paese, del resto dicono che sei il profeta…
… di ’sta minchia, sì (ride).
Ora cogli quello che ci hanno fatto i social, e forse anche loro sono uno dei motivi del fatto che non ci divertiamo più. O meglio, all’inizio su Facebook e Instagram e ovunque ci andavamo per alleggerire e alleggerirci, oggi per indignarci contro la Ferragni. Prendiamo tutto sul serio, ci offendiamo per qualsiasi cosa…
Questa cosa di avere meno senso dell’umorismo è vera, c’è proprio il venir meno del piacere, e forse è dovuto al crescere del narcisismo collettivo, della mitomania. A Ruggero Mazzalupi non fregava nulla di essere famoso, invece Cesare dice alla futura moglie influencer di taggarlo sempre nelle sue stories. C’è questa novità prepotente di un mondo dove le bacheche social sono palcoscenici che confermano la tua esistenza in vita.
Sentivo un recente intervento di Francesco Costa, dopo la morte di Navalny, in cui diceva – parafraso – attenzione a usare la parola fascismo, noi italiani l’abbiamo fatto troppo e a sproposito, il fascismo è uccidere i dissidenti, non la nostra destra.
Non sono così d’accordo. Con Navalny si parla di dittatura, il fascismo è quella cosa che diceva Benedetto Croce, l’autobiografia di una nazione. È innanzitutto una retorica, uno sguardo sulla vita e sul mondo, un modo di parlare, il dannunzianesimo, il familismo amorale, il deresponsabilizzarsi dalle proprie colpe per attribuirle a un capro espiatorio, la devozione per il maschio alfa… sono atteggiamenti culturali che credo facciano parte del nostro patrimonio da sempre, Mussolini non se li è inventati, da astuto politico propagandista li ha usati e ha trasformato quell’umore in un movimento politico. È una roba che faceva già parte della nostra antropologia, non è che siamo diventati fascisti adesso. Poi c’è quella funzione di vigilanza psichica del Super Io di coloro che sono dotati dell’attrezzatura critica e culturale e che hanno provato a domare questa nostra inclinazione: la democrazia è stata resa possibile da chi ha detto “attenzione, questo è un problema, stabiliamo dei princìpi fondamentali tra cui quello per cui non si può propagandare quell’idea lì”, e questa cosa l’abbiamo messa anche dentro la Costituzione perché sappiamo che è una nostra latenza. C’è una battuta del film che ho scritto con Checco Zalone (Tolo Tolo, nda), che peraltro è sua anche se involontariamente gliel’ho suggerita mettendogli sotto il naso una frase di Se questo è un uomo di Primo Levi, che dice “il fascismo è come la candida”, proprio perché è una patologia latente che emerge nei momenti di stress, angoscia, insicurezza. Puoi curarne i sintomi con delle pomate, ma l’essenza di quella patologia è endemica.
Perché ti dicono che sei un profeta?
È una domanda vera?
Certamente.
E che ne so. Fare un film è un processo industriale che dura un po’ di anni, devi sempre cercare di guardare un po’ più in là se vuoi raccontare il presente. Devi fare quello sforzo di allungare i piedi e il collo e guardare quello che c’è dopo, e a volte ti capita di azzeccare le cose. Mi sono reso conto che, a un certo punto di questo film, mentre Cesare e Pierluigi fanno il barbecue, il primo tira fuori il tema che sta emergendo in questi giorni a proposito dell’elusione fiscale degli influencer. Ma non è che avessimo immaginato come la Chiara gestisce le cose con il suo commercialista, così come non è ancora avvenuto che Fratelli d’Italia decida di candidare un’influencer degli smalti… o forse sì, in qualche elezione locale, chissà.
Invecchiare non vuol dire maturare: è anche un conforto, questo?
Lo è nel momento in cui conosci e capisci i tuoi limiti. Vivi meglio perché non vivi più nell’autoinganno, che è il limite maggiore dell’essere umano. Io poi continuo come ho sempre fatto a fare i disegnetti, le recite con gli attori, e forse per questo ho fatto vivere la mia parte puerile, che tra l’altro mi ha sempre fatto pure fatturare (ride). In qualche modo, anche se sono vecchio sono rimasto infantile, perché faccio i pupazzetti per Rolling Stone.
Ti chiedo un sequel solo per me: quello su Iacovoni (il personaggio di Sergio Castellitto in Caterina va in città, nda). Vuoi dirmi che quello non era profetico?
(Ride) Hai voglia… in effetti non c’erano ancora i social in quella stagione, uno al massimo andava nella platea del Maurizio Costanzo Show e cercava di proporsi, ma erano i germi di quello che sarebbe successo dopo, il sentimento di frustrazione e di rancore degli esclusi, e intendo gli esclusi non più al pane e alla casa, ma a quell’altra nuova moneta misteriosa che è la visibilità, la preziosa essenza di cui sembra che nessuno possa fare a meno, anche le persone più sagge, colte, equilibrate. Vedo amici della mia età o anche più anziani che sulle loro bacheche espongono quotidianamente il loro sentimento di frustrazione, che vogliono essere riconosciuti. Ecco, questa cosa lì ribolliva già, era un sentimento popolareeeee (si mette a canticchiare E ti vengo a cercare, nda) ma non era ancora esploso come sarebbe avvenuto dopo con i “vaffanculo”, e l’affermarsi del populismo per cui tanto so’ tutti uguali, e allora tanto vale sorteggiare il cittadino comune per fare il Ministro degli Esteri. Ma basta sequel. Anche se in effetti, ti devo dire la verità, se dovessi fare il sequel di un mio film, siccome il romanzo più dickensiano di tutti quelli che ho fatto è Ovosodo mi verrebbe voglia di fare quello, di vedere cos’è successo a Piero Mansani, a Susy Susini, a Tommaso Paladini… però vabbè, non vorrei neanche diventare quello dei sequel.
Ma se poi ti viene, anche sticazzi di quello che bisogna o non bisogna fare, e dei sequel, e di tutto.
Anche sticazzi. Chiudiamola così.