Nei giorni in cui Kim Gordon ha terminato le registrazioni di The Collective, album in uscita venerdì 8 marzo, l’ex bassista dei Sonic Youth stava per compiere 70 anni. Era la fine di aprile dello scorso anno. «Esce solo adesso» ci spiega dalla sua casa di Los Angeles, la città dove è cresciuta e dove da una decina d’anni è tornata a vivere «perché per fare anche il vinile c’è bisogno di un sacco di tempo: non ci sono più tutte le fabbriche che c’erano una volta e quelle ancora in attività sono piene di lavoro, perché oggi le major pensano che sia figo pubblicare vinili. Io ragiono ancora in termini di album e non di singole canzoni da pubblicare qua e là, anche se questo è il modo in cui la musica esce, ora che siamo nell’era digitale. Per me fare uscire il vinile è ancora una cosa importante».
Nonostante abbia lavorato a una quindicina di album post Sonic Youth, The Collective è solo il secondo disco che esce a suo nome dopo l’“esordio” di No Home Record (2019). In cabina di regia è stato confermato Justin Raisen, già produttore, fra gli altri, di Sky Ferreira, Charli XCX e Drake. Non i primi nomi che verrebbe da associare a Kim Gordon. «Diciamo che riesce a intercettare la mia sensibilità», dice lei. «Conosce il mio background musicale, lui stesso ha una sorta di background punk-rock. Averlo con me dà una grossa mano alla mia creatività, e mi piace l’uso che fa della tecnologia». I file con i pezzi del disco hanno fatto più volte avanti e indietro fra i computer dei due. Lui mandava a lei basi ritmiche su cui incidere voce e chitarra, lei gliele rispediva pronte per essere rielaborate.
Come sempre quando c’è di mezzo Kim Gordon, descrivere cosa c’è dentro un suo album è la cosa più difficile del mondo. «È un album di fantascienza», risponde quando le chiediamo di darci una mano, senza mostrare particolare desiderio di aggiungere altro. Non è una che parla molto: la maggior parte delle sue risposte iniziano con un «I dunno» che non fa sperare per il meglio. L’impressione è che sia un mix di austerità e timidezza, che del resto traspariva già da Girl In a Band, l’autobiografia uscita ormai quasi dieci anni fa. Forse quel titolo diceva già tutto: la sua rivoluzione è consistita nell’essere una ragazza in una band, e che band, ma non in tante parole.
La parola chiave in The Collective è probabilmente beats. Bye Bye, il disturbante singolo di apertura a base di ritmi hip hop e chitarre dissonanti, è diventato un minor hit su TikTok, con il suo testo che in pratica è la checklist che le persone più ordinate buttano giù prima di preparare la valigia per un viaggio. Lei chiarisce che non ci tiene affatto a essere considerata soltanto una musicista, anzi: «Considero il mio essere artista importante tanto quanto il mio essere musicista. È una cosa che mi dà stimoli diversi e mi permette da un lato di guardarmi dentro e dall’altro di riflettere sul modo di pensare degli altri. È una sorta di sfida. In generale, penso a me stessa con un’artista visuale che suona o che scrive». Quando le chiediamo quali sono i musicisti del panorama attuale che le piacciono di più cita Bill Nace, il musicista sperimentale con cui suona nei Body/Head: «Mi ha sempre ispirato, ma sono una frana a rispondere a questo tipo di domande».
Nel momento in cui parliamo con lei, è da poco passata la serata dei Grammy, caratterizzata da una forte presenza femminile sul palco. Ma il culto dei Sonic Youth per Madonna, sfociato addirittura in un album a nome Ciccone Youth, sembra lontano non solo in termini di tempo: «Ai Grammy c’erano tante donne perché si parla di pop music, e penso che per loro sia più facile, o comunque ci sono più donne che fanno musica pop. Da parte mia il pop non lo considero proprio, non ci penso mai e non è il mio mondo. Quella dei Grammy non è la mia idea di successo: per me è come se certe cose succedessero in un Paese straniero. Le prime canzoni di Madonna però ci piacevano per davvero. Erano cool, minimaliste, non erano iperprodotte: erano canzoni dance orecchiabili. Se invece mi chiedi che musica fa Taylor Swift non te lo so dire. Differenze tra il ruolo di Madonna allora e quello di Taylor Swift oggi? Non lo so, non è una cosa che mi interessa. E non mi interessa parlare di nessuna delle due».
Un’idea sull’enorme successo di Taylor Swift però se l’è fatta. «Penso sia una cosa sociologica: è interessante osservare come si è coltivata i propri fan e come sia arrivata ad avere questo enorme seguito. Credo che il suo successo sia l’espressione più lampante del ruolo di internet e dei social media, cose su cui Madonna negli anni ’80 non poteva contare». Sempre a proposito di Taylor Swift, però, ammette che la sua influenza sul proprio pubblico possa contribuire a costruire qualcosa di positivo: «Penso che abbia fatto bene a sostenere i democratici, il che sfortunatamente significa votare per Biden. Ma anche a spingere le persone a fare scelte politiche a difesa della libertà di scelta della donna riguardo all’aborto. Penso che questa sia stata un’ottima cosa, molto importante». A otto mesi dalle elezioni presidenziali, non nasconde le proprie preoccupazioni: «L’America è un posto folle. Il fatto che Trump potrebbe essere rieletto è una cosa molto stupida, come lo è la situazione politica, con un Congresso che non riesce a fare molto e si trova in stallo. Tutto è bianco o nero, tragicamente stupido».
Forse non è così scontato, o forse è perfettamente normale, ma l’argomento su cui Kim Gordon è più loquace sono proprio i Sonic Youth, anche se quando le chiediamo qual è l’eredità più importante della sua vecchia band la risposta inizia così: «Oddio, non saprei. Onestamente è una domanda difficile». In realtà però ha le idee molto chiare: «Abbiamo davvero creato musica a partire da quattro diverse personalità che si sono trovate. Secondo me abbiamo contribuito a creare un vocabolario di suoni. Negli anni ’80, soprattutto nei primi anni ’80, la parola noise era usata in senso dispregiativo. Ora invece è diventata un genere musicale. Penso che Daydream Nation sia stato importante per molte persone. L’hanno messo nella Biblioteca del Congresso. Un disco che mi piace sempre è Washing Machine, l’abbiamo registrato a Memphis ed è stata una delle poche volte che siamo andati a registrare da qualche altra parte. È stata una bella esperienza. Ho citato questi due album anche perché contengono due canzoni, The Sprawl e Washing Machine, che sono tra le mie preferite».
I Sonic Youth, suggeriamo, hanno anche svolto la funzione di divulgatori di musica altrui. A parte i Nirvana, che firmarono con la Geffen anche grazie ai buoni uffici della band di New York, il pubblico italiano vide per la prima volta i Pavement durante il tour seguito alla pubblicazione di Dirty, che toccò il nostro Paese nell’autunno del 1992. «Ho visto tutte e due le reunion dei Pavement. La prima mi è piaciuta di più, ma amo talmente tanto le loro canzoni che vederli dal vivo è sempre divertente. Adesso per me sarebbe più dura invitare un’altra band a suonare prima di me: non sono popolare come lo erano i Sonic Youth in quel periodo. Certo avere una band che apre rende il live migliore, soprattutto quando i gruppi che suonano nella stessa sera hanno un qualche tipo di collegamento musicale».
Tra meno di un mese saranno passati trent’anni dalla morte di Kurt Cobain. Su di lui si è detto tutto, sia quando era in vita sia soprattutto dopo. Kim Gordon lo ha conosciuto bene. Qual è la cosa più preziosa che ricorda di lui? «Mi ricordo della sua risata, e che insieme ci siamo divertiti. Era un autore incredibile, e un performer che metteva tutto nella sua voce e nella sua musica. La maggior parte delle persone ha di lui una visione romantica, ma per quanti dettagli tu potessi conoscere su Kurt, non saresti mai potuto arrivare a conoscerlo veramente».
Nelle scorse settimane i Sonic Youth hanno pubblicato Walls Have Ears, un album live registrato durante il tour britannico del 1985 che rappresenta una nuova tappa del viaggio all’interno del loro materiale d’archivio. Dobbiamo aspettarci altri live in futuro? «Penso di sì, ma non sono io a occuparmene: è Steve Shelley che se ne occupa e amministra questo genere di cose. La musica è ancora lì. Solo che non c’è una formazione live e non facciamo nuove canzoni. Ma ogni tanto tiriamo fuori qualcosa dal nostro studio. Tanto tempo fa ero dal dentista e lui mi ha chiesto che musica faceva la mia band: gli ho detto che eravamo in quattro come i Beatles, solo che suonavamo un po’ diversi».