Di rap e palazzetti è un po’ che se ne parla, quindi nella loro extra straordinarietà non sarebbero un caso neanche le dieci date sold out consecutive dei Club Dogo, a nove anni dal loro ultimo live. C’è un però: ieri sera ad Assago non si è celebrato solo il più storico e influente gruppo dell’hip hop italiano, né è stata solo la festa di un genere musicale faticosamente e in ritardo arrivato al successo anche in Italia, quanto piuttosto la manifestazione – autorizzata e “pagante” – di una comunità che nei Dogo si riconosce e che è cresciuta con la loro musica come colonna sonora.
È un caso quasi unico nel genere, a parte forse quello del rap napoletano che si riverserà tra qualche mese allo stadio per Geolier, in cui non è il culto del fan per l’idolo musicale di turno o l’hype per un improvviso successo mediatico, sanremese o no, a portare la gente ai concerti. È il sentirsi parte di un movimento e di una storia, soprattutto milanese ma non solo, che mette in pausa il solito rito individualista della pop star da celebrare trasformando la serata in un evento collettivo in cui i Club Dogo sono il carro che guida il corteo, “dalla gente per la gente” – come cantano quasi a metà scaletta in Per la gente – manifesto del loro più o meno consapevole rap-pulismo.
Tra il pubblico Dogofiero c’è di tutto: Gen Z e Boomer, famiglie con i bimbi piccoli, il palestrato tatuato col borsello come nello sketch culto de I soliti idioti – «Minchia i Dogo, cazzo i Dogo!» – e il professionista borghese arrivato col suv, centro e periferia unite in un’unica grande piazza, rappresenta non solo metaforicamente a un certo punto sul palco con tanto di scooter, panchine e fontanella. Già, perché il live del gruppo è strutturato come un romanzo di formazione. L’inizio è un omaggio alla vecchia scuola, alla passione per il genere rap simboleggiata dal logo del Wu-Tang Clan sulla console: vecchie hit – tra cui Cronache di resistenza e Rap soprano dall’esordio, 20 anni fa, di Mi Fist – customizzate da palazzetto grazie al restauro dei beat di Don Joe. Jake e Gué si presentano vestiti di nero, hardcore senza bling bling, per sottolineare che “rimo da quando…” è qualcosa di più che un marchio di fabbrica. La rivendicazione della propria identità, unica e forse irripetibile visto il mutamento della scena in atto, è una questione di dettagli, distribuiti tra le loro punchline da collezione: tamarri e non maranza, Nike Silver prima e più delle Tn, “zio” e non “bro”.
La seconda parte dello show, con tanto di ballerine, è per la parte più movimentista e da stadio della discografia, quella da gridare a squarciagola immaginandosi Kanye in un angolo a registrare col boom l’audio, altro che curva dell’Inter: Vida loca, Spacco tutto, Chissenefrega, già così i titoli messi di seguito l’uno all’altro danno bene l’idea del clima che ha animato il Forum a un certo punto della serata e di quello che è, parafrasando un’altra hit acclamatissima, “il loro mondo, le loro regole”.
C’è spazio anche per i pezzi nuovi come Mafia del boom bap, Milly e Soli a Milano con Elodie sul palco a cantare, il pubblico li accoglie con lo stesso entusiasmo dei classici e Jake manifesta il suo stupore. Del resto sono Nati per questo, come sottolineano i due rapper in un “discorso! discorso!” di quel grande bar di piazza che è diventato il Forum e come cantano mentre nei video li vediamo giovani sbarbati in foto in bianco e nero, nostalgia e qualche lacrimuccia per i bei tempi andati.
Ma nello spettacolo in grande stile di ieri non c’è nulla di nostalgico (celebrativo al massimo, dicevamo prima) e anche l’ultima tranche del concerto è un back to the roots senza tempo e potente come l’urlo di Vincenzo da via Anfossi in Puro Bogotà, una delle ospitate vintage insieme a quelle di J-Ax in Brucia ancora e Giuliano Palma in P.E.S., testimoni di un tempo in cui il rap non era arrivato né in classifica né nei talk di Rete 4.
Gué e Jake rappano, incitano il pubblico, ballano pure quando parte il tunz-tunz di Fragili, e – emozione a parte – sembrano perfettamente a loro agio nel ruolo di maestri di cerimonia di questa messa laica con coro da stadio. Del resto, mi piace ricordarlo sempre, pur non arrivando dal sempre più retorico “disagio delle periferie” – Gué ha fatto il classico al Parini, anche Tupac e Snoop hanno fatto scuole “di prestigio” – non hanno bisogno di certificare la loro sincerità di strada, perché la strada l’hanno cercata, studiata e vissuta in quell’esperienza immersiva che è stato il loro viaggio nel rap. E anche la loro autenticità non è in discussione, non esiste una sindrome Ferragni che debba giustificare alcunché, anzi i Dogo sono stati influencer prima dei social. E questa è la loro festa, la loro città (il Duomo è sempre sullo sfondo nei visual), il loro mondo.