Ariana Grande ha inaugurato una nuova era, o forse sarebbe meglio dire che ne è posseduta. Il suo nuovo album Eternal Sunshine è una confessione audace che contiene le sue canzoni più originali, sofferte, riflessive. «È una specie di concept», ha detto Grande, «perché sono tutti frammenti diversi che appartengono alla stessa storia, alla stessa esperienza». E allora non deve stupire che si sia ispirata ai ragazzi che hanno inventato il concept album, i Beatles. Durante una session di ascolto di Eternal Sunshine, a New York, la popstar ha svelato di aver creato il disco ascoltando compulsivamente Rubber Soul, il classico dei Fab Four del 1965. Forse non siete pronti, ma sappiatelo: Ariana è nerd beatlesiana.
Ascolti l’album e senti il legame sottile con Rubber Soul nella combinazione tra sperimentazione sonora e pura emozione. Grande ha messo in ogni brano tanti minuscoli dettagli che al primo ascolto possono sfuggire. Il primo singolo Yes, and? contiene nel break dei flauti ispirati ai Beatles. Temendo che non venissero notati, nella versione contenuta nell’album li ha mixati a volume altissimo. È il tipo di dettaglio che Grande ama. Durante l’ascolto a New York, ha scritto su un tovagliolo “arrivano i fiati” e l’ha tenuto sollevato per assicurarsi che tutti lo vedessero (un gesto che fa molto Paul McCartney). Roba da beatlemaniaca incallita di cui tutti abbiamo bisogno e che ci meritiamo.
Due dei momenti preferiti di Ariana sono, in puro stile Rubber Soul, il bagno psichedelico di Intro (End of the World) e il mulinello di chitarra vertiginoso di Imperfect for You. Ma c’è dell’altro e ha a che fare con la verità contenuta nelle canzoni. Come Rubber Soul, anche Eternal Sunshine è fatto di storie d’amore dolorose senza lieto fine. Ariana canta ripensando ai partner e agli amici. Sono canzoni d’amore, ma ambientate in un mondo in cui l’amore purtroppo svanisce da un giorno all’altro.
Il parallelo ci sta, del resto sono 60 anni che Rubber Soul è d’ispirazione a chi vuole reinventare il pop. È più di un concept originale: è il momento in cui i Beatles hanno inventato l’idea di album così come la conosciamo oggi. John, Paul, George e Ringo hanno dimostrato al mondo fino a che punto ci si poteva spingere con una raccolta di canzoni pop, facendola diventare un’opera artistica. Erano cresciuti ed erano diventati strambi, abbandonando il sound collaudato, da band coi capelli a caschetto, per orientarsi su canzoni d’amore adulte e toste come Norwegian Wood, In My Life, Girl e I’m Looking Through You. Come ha detto Paul McCartney nel 1965: «Siamo talmente forti che possiamo ampliare i confini del pop». All’epoca poteva suonare come la vanteria arrogante di un pazzo in preda al delirio. E invece la frase costituiva una sottovalutazione della portata della loro musica.
Anche Ariana sta allargando i suoi orizzonti. È entrata nella sua era del “ritorno di Saturno” e racconta ciò che le passa per la testa dopo un grande sconvolgimento esistenziale: ha compiuto 30 anni, è uscita da un divorzio doloroso, si è presa una pausa dal ciclo del music biz per rimettere in ordine i pensieri. E così si lancia a fare la sua grande dichiarazione con l’energia di una a cui non frega più di nulla. Come Rubber Soul, il suo è un album pieno di giochi vocali complessi. Come Rubber Soul, è stato realizzato in fretta, nell’arco di tre mesi intensi passati in studio con un collaboratore fidato: nel suo caso, Max Martin (nessuna parentela con George). È il sound di un’artista spavalda e ambiziosa che si rifiuta di andare sul sicuro e crea la sua musica più coraggiosa e rischiosa di sempre. Come cantava John Lennon, “this bird has flown”.
Ariana Grande non è che l’ultima di una lunga lista di artisti che si sono ispirati a Rubber Soul. Da quando i Beatles l’hanno pubblicato, nel dicembre 1965, ha rappresentato una sfida per tanti altri musicisti. Quella che Brian Wilson ha raccolto e superato con Pet Sounds. Quella che ha spinto Bob Dylan a fare Blonde on Blonde. Quella che ha fatto impazzire Stevie Wonder, Marvin Gaye e Carole King, aprendo le porte a Music of My Mind, What’s Going On e Tapestry. Tante leggende della musica l’hanno percepito come uno stimolo, un invito, un modello per plasmare il loro futuro all’insegna di ciò che davvero volevano fare. Ha continuato a ispirare la gente a ignorare le regole per creare i loro Nevermind, Kid A, Beyoncé o Folklore. Oggi gli album pop sono più importanti che mai e rappresentano ere, e sono ancora il modo in cui gli artisti marcano la loro crescita, la loro maturazione, il loro successo, le loro ambizioni, le loro pretese. Nessun disco ha fatto più di Rubber Soul per definire cos’è un album e quel che un artista può comunicare con esso.
Ecco perché è sempre stato un faro per i visionari del pop. «Rubber Soul è il mio disco preferito dei Beatles», ha detto Harry Styles a Rolling Stone, «Girl, Michelle, The Word sono geniali». Phoebe Bridgers ha raccontato che, se fosse un’insegnante di musica, il primo album che farebbe ascoltare agli alunni sarebbe Rubber Soul. «È un buon disco di introduzione a tutto», ha detto nel 2018. «Se non si hanno idee preconcette sulla musica, probabilmente è un buon modo per iniziare». Drake si è spinto all’estremo in Certified Lover Boy: il primo suono che si sente è quel campionamento bizzarro di Michelle, con Macca che cinguetta “I love you, I love you, I love you” come uno scoiattolo sovreccitato (Drake si è anche tatuato la copertina di Abbey Road su un braccio).
Non era mai accaduto niente di simile, prima di Rubber Soul. I quattro si stavano appassionando a Bob Dylan, fumavano erba, scrivevano canzoni sulla loro vita quotidiana «Alla fine abbiamo preso il controllo dello studio», ha detto John Lennon a Rolling Stone, nel 1970. La musica era piena di esperimenti audaci: il sitar di George Harrison in Norwegian Wood, il basso fuzz di Paul in Think for Yourself, il pianoforte di In My Life accelerato da George Martin per farlo sembrare un clavicembalo. Nessuna hit, nessun singolo. Non hanno voluto nemmeno il loro nome in copertina: solo le loro facce deformate.
Erano sicuri di sé e come sempre spavaldi riguardo al nuovo sound. «Non ci conosci se non conosci Rubber Soul», diceva John a Newsweek all’epoca. «Adesso abbiamo cambiato idea su tutto». Solo un anno prima, in Beatles for Sale, i poveri ragazzi sembravano esausti e sulla copertina si notano le loro facce provate. Erano stati costretti a riempire l’album di cover di vecchi brani, all’ultimo minuto. Ma in Rubber Soul si sente che sono carichissimi.
«Se qualcuno vedesse una tua foto di due anni fa e dicesse che sei tu, ribatteresti che è una sciocchezza e gli mostreresti una foto recente», ha detto Paul. «È così che ci sentiamo riguardo ai primi lavori da una parte e a Rubber Soul dall’altra. Questo è ciò che siamo ora. La gente ha sempre voluto che restassimo uguali, ma non possiamo imprigionarci in una routine. Nessuno penserebbe mai di raggiungere l’apice a 23 anni e non evolversi più, quindi perché dovremmo farlo noi? Rubber Soul per me è l’inizio della mia vita adulta».
Era un discorso folle per il 1965. Non esisteva alcun precedente di band di grandissimo successo che buttasse via «la roba più vecchia» per ricominciare da capo. I rocker dovevano essere giovani usa e getta, non avere una vita adulta. Funzionava proprio come il produttore dice a George in A Hard Day’s Night: «Puoi essere sostituito, piccolino» (risposta: «Non mi interessa»). Eppure i Beatles raccoglievano idee nuove da ogni dove, studiavano Stockhausen, John Cage, Ravi Shankar, Otis Redding, le Marvelettes. L’innovazione era nell’aria, ma si respiravano anche altri aromi. Per dirla con George, «Rubber Soul è stato il primo disco in cui eravamo fumati di brutto».
Brian Wilson è stato uno dei tanti fan la cui vita è cambiata dopo un solo ascolto. Ha sentito il disco per la prima volta una sera, sulle colline di Hollywood, quando un amico gliel’ha portato. «Non avevo mai ascoltato canzoni altrettanto belle», ha ricordato nel 2009. «Mi ha ispirato. Mentre lo sentivamo, quella sera, mi sono detto: farò anch’io un album bello come Rubber Soul». Questo ha innescato una frenesia creativa che si è trasformata in Pet Sounds, «Mi ha ispirato a fare le mie cose e la mattina dopo mi sono seduto al pianoforte e ho scritto God Only Knows con Tony Asher».
Per artisti della Motown come Stevie Wonder e Marvin Gaye, il disco ha rappresentato un modello per esercitare il controllo creativo sulla propria musica e arrivare a utilizzare il formato dell’album per affermare la propria autonomia. Berry Gordy non voleva che le sue star alterassero la formula commerciale che aveva creato, ma loro hanno lottato per fare a modo loro, dando così vita ai loro capolavori degli anni ’70 (Stevie aveva già dichiarato apertamente la sua passione per Rubber Soul, prendendo Michelle come punto di partenza per My Cherie Amour). Ci stava, visto che i Beatles all’epoca non smettevano di parlare dei loro eroi della Motown, definendo Gaye il loro artista preferito. E si sente in un pezzo come You Won’t See Me. «Per me aveva un sapore molto Motown», ha poi detto McCartney. «Ha un’atmosfera alla James Jamerson. Era il bassista della Motown, favoloso: era lui che suonava tutte quelle grandi linee di basso melodiche».
Anche Dylan ne ha subito l’influenza. Se si ascoltano Blonde on Blonde e Highway 61 Revisted, si percepisce quanto attentamente abbia sentito i Beatles nel tempo intercorso tra i due album, in pezzi come Just Like a Woman e Visions of Johanna. Il doppio Blonde on Blonde conteneva anche una parodia esilarante di Norwegian Wood intitolata 4th Time Around che Dylan ha suonato, con una certa cattiveria, per John a Londra. John, da vero diplomatico, gli ha detto: «Non mi piace». Ma, sulla scia di Rubber Soul, nel 1966 è esplosa l’arte di fare album. I Rolling Stones hanno affrontato la sfida con Aftermath, dilettandosi con sitar e dulcimer. Lo stesso hanno fatto i Kinks, gli Who, gli Yardbirds. Nel frattempo, a Memphis, il loro idolo Otis Redding alzava il tiro con il suo Dictionary of Soul, con una cover di Day Tripper.
Quando hanno inciso Rubber Soul, i Beatles non avevano alcuna intenzione di cambiare la storia. Avevano solo bisogno di sfornare velocemente un disco, in appena quattro settimane, in tempo per la stagione degli acquisti di Natale del 1965. Così ci hanno ficcato dentro tutte le loro idee più folli, lavorando 24 ore su 24 ad Abbey Road. George voleva suonare il sitar? Un mega drone di harmonium intitolato The Word? Della poesia intimista come In My Life? Avevano troppa fretta per scartare qualcosa. Hanno scritto sette canzoni in una settimana. E, visto che erano i Beatles, non hanno mai smesso di cercare di stupirsi a vicenda: a questo punto, le uniche persone che si preoccupavano di impressionare erano loro stessi.
Il risultato ha lasciato tutti sbalorditi, soprattutto i cantanti. In Rubber Soul ci sono i Beatles che cantano al loro meglio, con le voci che s’intrecciano e si confondono l’una con l’altra. Già le voci di accompagnamento sono pazzesche: Paul supera John in Norwegian Wood, così come John lo fa con Paul in You Won’t See Me. Ma la vera svolta è rappresentata dalla scrittura delle canzoni. Parlavano di donne adulte e indipendenti, con una propria vita, una carriera, una visione filosofica. Jane Asher è troppo impegnata per richiamare Paul in You Don’t See Me; Michelle non vuole nemmeno parlargli in inglese. Il primo verso dell’album è: “Ho chiesto a una ragazza cosa volesse essere”. Non è una domanda che qualunque altro rocker avrebbe posto a una ragazza nel 1965. Ma la loro eroina di Los Angeles, in Drive My Car, ha i suoi progetti di carriera: diventerà una star, naturalmente.
Come i Beatles di Rubber Soul, l’Ariana Grande di Eternal Sunshine coniuga un rinnovamento musicale con una presa di coscienza a livello personale. Il momento del suo disco che più si avvicina a un lieto fine in cui tutto si risolve? Imperfect for You, una delle cose più toccanti e spiritose che abbia mai fatto: una jam di chitarra agrodolce in cui la coppia protagonista si accontenta di essere un “disastro felice”. Ma, come accaduto a tanti altri big prima di lei, Grande si allontana da Rubber Soul per dirigersi verso un luogo completamente nuovo. È l’ennesimo esempio di come questo album continui a cambiare la musica pop, esattamente come ha fatto fin dal giorno della sua uscita.
Qualcuno potrebbe sorprendersi per la connessione cosmica tra “it’s so fine, it’s sunshine” dei Fabs e “you are my eternal sunshine” di Grande. Ma è solo un altro colpo di scena a sorpresa nella storia lunga, folle e gloriosa di Rubber Soul, anche dopo sei decenni in cui ha ispirato altri artisti a realizzare dei capolavori. Questo è il posto unico che Rubber Soul dei Beatles occupa nella storia del pop: è l’album che non smette mai di regalare nuove sorprese al mondo.
Da Rolling Stone US.