Chiacchierare per una quarantina di minuti con Beth Ditto equivale a tuffarsi in un vortice di gag, aneddoti, perle, ruttini educati e confessioni da cui, poi, una volta scaduto il tempo a disposizione per l’intervista, è quasi doloroso uscire. La sua risata esplosiva è contagiosa, la sua schiettezza devastante. Tanto che, alla fine, ti ritrovi a sparare un sacco di minchiate dimenticando il vero motivo della chiamata su Zoom. «Questa è una cosa che mi è saltata in mente per la prima volta quando ero ventenne ed era tutto agli inizi», racconta la cantante dei Gossip in videocall dalla sua Portland, Oregon. «Facevo le interviste e pensavo: “E va bene, tu sei giornalista e io musicista. Siamo entrambi qui per lavoro, ok. Ma, che cazzo, divertiamoci anche un pochino, no?»
Ora siamo addirittura rimasti che ci dobbiamo assolutamente beccare in una delle due date italiane del tour, il 22 giugno a Villa Ada a Roma oppure il giorno dopo al Magnolia Summer Festival di Milano. Promesse e convenevoli a parte, quel che conta è che questo ritorno dei Gossip sia finalmente successo. Dopo 12 anni dall’ultimo A Joyful Noise, il 22 marzo esce Real Power, prodotto e registrato dallo sciamano Rick Rubin.
Non è la prima volta che il Dio dei produttori discografici si chiude in studio con Beth, Nathan e Hannah. Nel 2009, l’ombra della barba di Rubin aveva portato una gran fortuna a Music for Men, da cui poi sono stati tratti degli inni da dancefloor come Love Long Distance e Heavy Cross. Stavolta, però, con la consapevolezza di una quarantenne ormai amica stretta del suo guru musicale, è venuto fuori qualcosa di al contempo prevedibile ma inaspettato. Prevedibile perché è ovviamente un album dei Gossip: danzereccio, edonista, senza segreti, che si fa adorare già al primo ascolto. Inaspettato perché, dopo matrimoni, divorzi, carriere soliste e vari traumi personali, l’attivista punk con la grinta vocale di una solista della Motown ci concede di vederla anche da un lato più sussurrato, come nella Turn the Card Slowly a metà tracklist.
In più, dietro al Real Power del titolo si nascondono una quantità di aneddoti di vita quotidiana, abbinati a rimandi orwelliani, che non forse non basterebbe una vacanza di dieci giorni insieme a Beth per arrivarne a capo. Figuriamoci 40 minuti d’intervista. Questo però è quello che avevamo a disposizione, quindi ce lo siamo fatto andare più che bene.
Sembra che non sia passato manco un giorno dall’ultimo album, non trovi?
Non saprei. È buffo perché la percezione cambia da persona a persona. Alcuni lo trovano molto diverso dal resto, altri no. Per te, che sei un giornalista musicale, magari è più facile avere una visione d’insieme. Ma per me è molto difficile parlare delle canzoni dei Gossip. È come stabilire se sei una persona buona o no. Lo sono? Dovresti dirmelo tu. Lascio sempre agli altri queste decisioni.
Sicuramente possiamo stabilire che non è proprio una vera reunion. Non vi siete mai sciolti.
Neanche io sento che ci siamo sciolti. Specialmente con Nathan (Howdeshell, anche detto Brace Paine, il chitarrista, nda) abbiamo un’amicizia speciale e duratura. Ci conosciamo da 30 anni e il nostro rapporto non è mai cambiato, non si è mai interrotto. È una connessione molto profonda. Capisco che molte persone dicano: ah, si sono sciolti e ora tornano insieme. Ma per me ci abbiamo soltanto messo più tempo del solito. Quando siamo insieme noi tre, puoi sentire le stesse battute di sempre. Neanche io la considero una reunion.
Avete quel tipo di rapporto che s’instaura tra coinquilini. Non avete vissuto anche insieme?
Oh mio Dio, sì. Abbiamo vissuto insieme più di una volta. Tra l’altro è così che sono nati i Gossip nel 1999: eravamo coinquilini. Ma anche dopo di allora abbiamo vissuto insieme molte altre volte.
Vi è capitato di vivere insieme anche dopo il successo?
No, dopo il successo no. Però mi fa strano dire “successo”, perché alla fine viviamo negli Stati Uniti e qui non siamo mai diventati davvero famosi. Vivevamo questa doppia vita per cui, in Europa facevamo cose incredibili. Tornati in America era la stessa vita di sempre, perché nessuno ci cagava. Era bello proprio per questo, è un’esperienza che mi è difficile descrivere a parole. Comunque sì, almeno fino ai 28 anni ho avuto coinquilini. Quando stavamo registrando Music for Men, vivevo in una punk house occupata. Nathan è un coinquilino mega divertente, di quelli che addobbano la casa coi poster.
Ti manca avere dei coinquilini?
No, grazie. Sono a posto così (ride).
La penso come te.
Sì, dai. Quel momento in cui realizzi finalmente che non avrai più coinquilini è magico. Devo dire però che andare in tour è come tornare a vivere con altre persone. Quando sei su un bus con tutti, per mesi, è un’esperienza allucinante. È come se, una volta che torni a casa dall’ufficio, ci trovi di nuovo tutti i colleghi e dovete dormire insieme, svegliarvi insieme, mangiare insieme. È strano ma è divertente. Tu quanti anni hai? Hai coinquilini?
Ho 34 anni e non ho più coinquilini dal 2016, penso.
Voglio congratularmi con te per questo bel traguardo. Godiamocelo a pieno, come tutto il resto.
Ti ringrazio. Dovrai comunque riabituarti all’estenuante vita da tour.
Alla fine è come andare in bici. Una volta che stai pedalando, fai meno fatica di quando sei partito. Sono passati 12 anni dall’ultima volta che i Gossip sono stati in tour. Io nel frattempo mi sono tenuta occupata con altri progetti, ho fatto altre esperienze. Ma immagino che la prova del nove sarà tornare sul palco. Ops, scusa, il mio compagno ha un raffreddore e continua a tossire.
Non ti preoccupare! Siamo un po’ tutti raffreddati. Si chiama febbraio mica per altro.
No, aspetta, come?
Febbraio deriva da febbre. È il mese in cui per antonomasia ci si ammala.
Oh mio Dio. Cazzo, hai ragione! Mi è appena esploso il cervello. È vero, è il mese della febbre! Sai cosa farò oggi? Andrò da chiunque a ripetere questa cosa. Sarò una persona spiacevole che fermerà chiunque conosce per dire: ehi, la sapevi questa cosa? Come un papà che impara una cosa nuova. È una roba assurda. Però, Claudio, dovrai interrompermi tu perché altrimenti io parlo a cazzo di qualsiasi cosa.
Ma figuriamoci. Sentiti totalmente libera di parlare di ciò che ti pare, quanto ti pare.
Grazie, lo apprezzo.
Foto: Cody Critcheloe
Ora però ti chiederò del disco. Si apre con Act of God, un bell’inno Motown che usa parole molto religiose. Tu però non sei religiosa, giusto?
No, per nulla. Nathan lo è. Io sono semplicemente ok con me stessa nel non sapere e nel non avere bisogno di qualcosa che nella mia vita mi faccia sentire una persona migliore. Per quello ci sono i pareri e le opinioni delle persone vicine a me. Vivere secondo un preciso sistema di regole non ti rende necessariamente una persona migliore. Per me è molto più importante quando una persona ti dice «guarda, questa cosa che hai fatto mi ha ferito, potresti non farla più?» e io faccio in tutti i modi per rispettare questa volontà. Ecco cosa conta per davvero per me. Ma è la mia personalissima opinione e capisco anche chi ha bisogno della fede. La canzone è semplicemente venuta così. Il giorno dopo che abbiamo deciso il nome dell’album dovevamo anche “consegnarlo” ufficialmente. A me, l’idea di chiamarlo Real Power non faceva impazzire. Credevo che ci fosse sicuramente un nome più bello, più cool. Ricordo ancora che stavo pisciando sul cesso, col telefono in mano…
Come stavi pisciando?
Ti giuro, non scherzo. Non so perché sia così importante fornirti questo dettaglio. Se non esiste un act of God più alto di quello, allora non so proprio cosa sia. Insomma, mentre ero sul cesso ho scritto a Nathan: «Dovremmo chiamarlo Act of God!». E lui: «Secondo te è troppo tardi per cambiarlo?». Così ho chiesto un po’ a chi di dovere e alla fine siamo riusciti a cambiare nome all’album. Mi fa piacere che ti sia piaciuta la canzone!
Che effetto fa nascere non religiosi in un posto decisamente religioso come l’Arkansas?
Mia madre è molto religiosa. Qui non è come in Italia, dove siete principalmente cattolici. Qui ci sono talmente tante dottrine del Cristianesimo che ho incontrato una persona cattolica per la prima volta quando ero adulta. Folle, no?
Sì, ma perché tendenzialmente i cattolici sono in Europa.
Sì, oppure comunque a New York o nella East Coast. In ogni caso, senza stare a rivangare nella storia della religione cattolica, io sono cresciuta in un ambiente estremamente amorevole, che non mi ha mai ferito. Eravamo molto poveri, quindi per mia madre era fondamentale che tutti parlassimo pulito, che fossimo in ordine e presentabili. Non avevamo molti vestiti, ma quelli che avevamo erano tutti impeccabili e stirati. Molto spesso erano anche abbinati tra di noi. Un’altra cosa che mia mamma ci ha instillato è l’empatia. Per lei era importante che imparassimo bene a metterci nei panni degli altri. Ed è vitale, quando hai sette figli.
Eravate in sette?
Sì, che è anche questa una cosa molto cristiana. Ma credo che in realtà mia madre fosse annoiata, che non avesse molto altro da fare se non i figli. Sono comunque l’unica tra i miei fratelli e sorelle a non essere credente. Alcuni di noi sono più, diciamo, agnostici. La mia sorella più grande, alla quale sono molto legata, non è che non creda in Dio. Semmai, non sa cosa ci sia là fuori. Crede in qualcosa. Credo che abbiano scoperto il mio essere atea su qualche rivista. Mio zio allora è sbucato fuori dal nulla, impazzito, chiedendo a mia madre: «Hai letto questo??!» Lei non era per nulla sorpresa, né tantomeno preoccupata per le sorti della mia anima.
Sono d’accordo. Rimani umano fintanto che rimani empatico.
Esatto! Mi ricordo che da ragazzina, a scuola, questa cosa era venuta fuori, per qualche motivo. Qualcuno allora mi aveva chiesto: «Ma se non credi in Dio e la Bibbia, come sei sicura che non ammazzerai qualcuno?». E io ricordo di aver risposto tipo: «Ma che cazzo ne so? Sono abbastanza sicura che non ucciderò mai nessuno!». Quella è forse una delle domande più psicotiche che mi siano mai state fatte. Ripensandoci, adesso come allora, l’aneddoto è comico. Però quel posto era troppo religioso. Quindi, appena ho potuto, mi sono levata dal cazzo. E ti dirò, il mondo là fuori è diventato ancora più selvaggio. Vivo negli Stati Uniti e voglio andarmene davvero tanto. Non che altrove sia tanto meglio. (Sospira) Sto cercando di sopravvivere, Claudio.
Foto: Cody Critcheloe
Tieni duro. E se il Dio a cui ti riferisci nella canzone fosse il Dio dei produttori, Rick Rubin?
Questa ti è venuta davvero bene, my man. Comunque no, non è lui il Dio (ride).
Era preparata. Com’è lavorare con lui?
È una domanda che ho sempre voluto fare anche agli altri artisti che ha prodotto. Però penso siano molto più famosi di noi. Siamo probabilmente la band più sfigata con cui ha lavorato!
Tu sottostimi i Gossip.
Certo, perché mi vuoi dire che Jay-Z parlerà del nostro nuovo disco? Non succederà. Non è che ci manchiamo di stima. Se c’è però una parola chiave per i Gossip, quella è semplicità. Abbiamo bisogno di lavorare in maniera molto facile e spontanea con chi ci produce. Rick non sa leggere gli spartiti, né tantomeno scriverli. Sa suonare un po’ la chitarra. Quindi vuol dire che lavora secondo le sensazioni, le ispirazioni e le vibe del momento. È importante quindi andare d’accordo con chi hai in studio, ascoltare le rispettive idee. Una delle mie cose preferite in assoluto è parlare con Rick. Soltanto parlare, che sia di album o di quello che ci passa per la testa. Niente di profondo.
C’è una perfetta sintonia.
Totale. Ci siamo conosciuti quando avevo tipo 26 anni, quindi ero giovane. Ero anche nervosissima all’idea di lavorare con un produttore leggendario. Sai, è soltanto la persona che ha prodotto 99 Problems. Noi allora poi eravamo immersi nell’hip hop e R&B, anche perché era un po’ un’epoca d’oro. Ero intimidita. Un giorno gli ho chiesto: «Qual è il processo?”». E lui mi ha risposto: «Lo sapremo a lavoro finito». E lì ho realizzato che era esattamente il tipo di persona con cui volevo avere a che fare in studio. Mi ha rincuorato nel dirmi che non esiste un processo prestabilito, che non ha senso chiedersi certe cose e non ci frega neanche di averne uno. Poi, vabbè, quando poi ci siamo conosciuti meglio mi sono proprio affezionata. Ci raccontiamo aneddoti e ci facciamo delle sane risate. Oggi, da quarantenne, per rispondere alla tua domanda iniziale, è come come lavorare con un amico in un posto sicuro. È come tornare a casa.
Penso che questa cosa poi si rifletta anche nel disco.
Sono d’accordo. Credo di parlare a nome dei Gossip quando dico che Rick è davvero il migliore a lasciarci la libertà di fare gli stupidi. Nel senso buono del termine. Ci lascia fare ciò che più ci piace. Un’altra cosa devastante che ho imparato da lui è che non bisogna mai interrompere la registrazione. Registri tutto. Dal momento in cui metti il piede in studio al momento in cui esci. Anche se stai parlando tra una take e l’altra. Almeno così puoi tornare indietro e riascoltare, anche solo come riferimento. Questo è fondamentale per persone folli come me e Nathan. Siamo diversi, ma in sostanza lui è iperattivo e io parlo costantemente. È importante che ci sia qualcuno come Rick: che ci sappia gestire, che ci dica quali idee sono buone. Altrimenti noi siamo totalmente sconclusionati. Eppure non ha un ego per il quale ti impone le cose. Con lui è sempre un dialogo. Tira fuori il meglio dai musicisti con cui lavora. E soprattutto, fare una hit non è mai lo scopo. È bello quando succede, certo, perché almeno ti guadagni da vivere e puoi permetterti di non avere coinquilini. Però non è mai una questione di fare hit.
In più, avete registrato il disco nel suo studio alle Hawaii, che è tipo il paradiso in Terra.
Sì, è vero. Io ho un rapporto molto particolare con le Hawaii. Ho sposato una persona che era di lì e tra l’altro la cerimonia è stata proprio alle Hawaii. Poi abbiamo divorziato. In me, questa cosa ha creato un mood un po’ cupo, anche se fuori il sole splendeva in un paradiso, come dicevi tu. C’erano letteralmente spiagge bellissime e avocado da raccogliere sugli alberi, ma io ero un po’ malinconica. Penso che mi sia stato utile, perché avevo bisogno di affrontare tutte quelle emozioni che erano ancora un po’ sepolte da qualche parte. Se ripenso a tutte le interviste, a tutte le persone che mi hanno chiesto cose su specifiche canzoni, è stato difficile. Non voglio però sembrare una stronza che si lamenta del suo lavoro privilegiato. Molti amici che ho sono persone che lavorano dalle 9 alle 5 tutti i giorni nel posto in cui viviamo, Portland, Oregon. Un posto dove piove nove mesi all’anno come a Seattle. Non vedi la luce del sole. Quindi non potevo neanche chiamare i miei amici e dire: oh, sono in spiaggia oggi e sto una merda! È da stronzi.
È esattamente la definizione di empatia che dicevamo prima.
Sì, infatti. La gente a lavoro ti può tranquillamente mandare a fanculo, avendo pure ragione. Non voglio sembrare viziata. Era bellissimo essere ai tropici, ma non come puoi credere, ecco. Per me non esiste modo migliore di affrontare le cose che scrivere canzoni. All’epoca non me ne rendevo ancora conto, ma ora sì. Meno male che con me c’erano gli altri. I punk ai tropici fanno troppo ridere. Nathan con i bermuda è una cosa che non so descrivere. Poi c’è un’altra cosa che è tipica di Rick.
Quale?
La gente crede che essere alle Hawaii con Rick Rubin equivalga allo sfarzo più sfrenato. Non è così. Certo, stare in spiaggia è meglio che in città. Ma nell’isoletta minuscola dove stavamo noi l’arredamento era ridotto al minimo essenziale. Scordati proprio i resort di lusso: lì è tutto spartano. Si va per registrare la musica, non per fare villeggiatura. Avevamo bisogno di una cabina per registrare le voci: ne abbiamo costruita una con delle assi che c’erano lì. Come condizionatore avevamo uno di quelli portatili con le rotelle. O era quello o registravi, perché faceva un casino allucinante. È stato molto punk. Mentre cantavo morivo di caldo, sudavo talmente tanto che indossavo soltanto il costume da bagno. In più, tra essere così isolati da tutto e i temporali, la corrente saltava sempre. Non potevamo accendere troppe cose contemporaneamente, altrimenti rimanevamo al buio.
Foto: Cody Critcheloe
Il titolo dell’album però poi è rimasto Real Power. E se non sbaglio ha un’accezione politica.
Il titolo è arrivato in un particolare periodo: quello della pandemia. Un periodo in cui ci sentivamo tutti impotenti. In America, Portland aveva una cattiva reputazione. La gente credeva che qui le proteste fossero pericolose e violente, che si volesse bruciare tutto e non era sicuro camminare per strada. Cosa folle, se ci ripenso. In quel periodo mia zia è morta di Covid. Ricordo che ho chiamato in Arkansas per mandare dei fiori. Sai, da noi storicamente il sud è conservatore. Non so se in Italia esiste un corrispettivo.
Qui tendenzialmente sono più conservatrici certe zone del nord.
Ecco. Ho chiamato per prenotare dei fiori e inviarli a casa di mia zia. Sai, da parte di me e i miei fratelli. Quando è arrivato il momento di comunicarle i dati della mia carta di credito e il mio indirizzo a Portland, ti giuro che la tipa al telefono ha avuto un sussulto. «Oddio, stai bene?». E io: «Ehmmm, sì? E tu stai bene?». E lei: «No, perché… Voglio dire… Lassù siete messi male». E lì ho capito. Sono scoppiata a ridere. L’ho rassicurata dicendole che la città non stava andando a fuoco, che non avevano sparato a nessuno per strada. Eppure, giornali e tv stavano descrivendo la situazione a Portland come se fosse in Mad Max, coi cannibali in giro, magari. Ed è lì che ho realizzato chi ha il Real Power. C’era un’intera parte del Paese che credeva a qualcosa che non rispecchiava la realtà. La stessa scenetta mi capitava di continuo. Avevo preso un lavoro ad Atlanta, Georgia, quindi al sud. Appena veniva fuori che stavo a Portland, apriti cielo. Perché i media avevano deciso così. Portland era l’apocalisse.
Allucinante. Poi la pandemia è finita, ma la situazione non è migliorata, anzi.
Assolutamente d’accordo. Tant’è che credo che ora più che mai ci sia bisogno di scendere in strada e protestare. Però non ti ho detto tutto: l’ispirazione per scrivere quel pezzo, Real Power, è arrivata una sera, alle Hawaii. Come al solito era andata via la luce. Allora Rick è andato di sotto per cercare di ripristinarla. A un certo punto ci ha urlato: «È tornata la corrente vera?» (in inglese: «Is the real power back on?», nda) E noi: «Cosa?». E lui: «The real power!». In quel momento ho pensato che fosse un bel nome per una canzone. Così l’ho scritta ispirandomi a Portland. C’è un motivo se vivo qui: le persone scendono in strada per far sentire la propria voce.