Il 21 marzo ricorreva la Giornata Mondiale della Poesia e, almeno in un luogo – dove, peraltro, abbiamo avuto la fortuna di trovarci – l’occasione è stata celebrata in un modo meno prosaico dei consueti meme su Alda Merini che spicca il volo, tanto cari ai profili Facebook dei nostri ex compagni di scuola che, una volta all’anno, riscoprono il loro pollice lirico da Leopardi da tastiera.
Alle ore 19 il poeta Gabriele Tinti e l’attore Willem Dafoe ci aspettavano sotto la cupola di Santa Maria ad Martyres, il Pantheon di Marco Vipsanio Agrippa; l’edificio che, dopo essere stato il tempio di tutti gli dèi (nell’antichità) e la chiesa di tutti i Martiri (dall’Alto Medioevo in poi), oggi è la lounge di tutti i turisti di Roma. E mentre il resto del mondo celebrava o il rito dell’aperitivo o la preparazione ai bollettini di guerre pre-cena, non è stato poco metaforico vedere il mare di visitatori ritirarsi e lo spazio del sito museale italiano più visitato espandersi fino a recuperare, almeno in parte, l’originaria immensità, rotonda ed ecumenica, ben superiore alla somma dei suoi pur due chilometri quadrati di superficie, accogliendo un poeta italiano e un attore americano in combutta con Raffaello Sanzio e Annibale Carracci per uno strano happening medianico: una seduta spiritica all’impiedi, organizzata per ridare vita a quattro eroi cristiani, un attimo prima di celebrarne, coll’estremo sacrificio, la morte.
Di Carracci e Raffaello il Pantheon contiene, tra gli altri artisti, le tombe; l’altare maggiore ospita le ossa di numerosi Santi Martiri, tra cui Sebastiano, Lorenzo, Pietro e Paolo. Proprio qui, sul catafalco di Carracci, al momento delle esequie fu posto il suo Cristo incoronato di spine; sul letto di morte di Raffaello fu rinvenuto il suo capolavoro incompiuto: La Trasfigurazione. Incrociando le fonti estetiche e le suggestioni esistenziali fornite dalle vite e dalle opere di queste presenze-assenze, Tinti ha scritto i tredici componimenti poetici che, recitati da Dafoe, hanno dato forma alla performance intitolata: Confessions.
(Questo, va detto, con buona pace di tutte le altre sepolture illustri del Pantheon, tra cui quelle dei due re d’Italia Umberto I e Vittorio Emanuele II, chiaramente le convitate di marmo della situazione; ma è chiaro anche che il tentativo di congiungimento coll’eternità travalicava il concetto del tempo, figurarsi il nostro passato monarchico sabaudo).
Tinti è uno spilungone jesino di grande talento, unico al mondo per il fatto di essere il poeta residente del Museo Nazionale Romano. Dunque una figura professionale assai rara – se non unica – che corrisponde a una sorta di dj resident preposto ufficialmente da un Ministero a far danzare al suono dei suoi versi statue classiche e dipinti antichi (indimenticabile, nell’agosto 2019, la pubblica lettura dei suoi versi dedicati al Pugile in riposo attribuito a Lisippo, che ha costituito di fatto la decancellazione di Kevin Spacey); in un secondo, importante tentativo da parte del nostro Stato, dopo Ballando con le stelle su Rai 1, di coreografare figure originariamente statiche, come il Discobolo o Ricky Tognazzi. Spoiler: il miracolo, materialmente, non riuscirà neppure al Pantheon, ma confermerà i due meriti fondamentali di questo poeta coltissimo e gentilissimo: produrre eventi irripetibili e aver rilanciato l’ecfrasi nel mondo.
Il genere letterario in cui Gabriele si è più speso, fino a diventarne di fatto il principale esponente, è detto appunto ecfrasi dal greco ἔκϕρασις. Sono versi che evocano opere d’arte figurativa, specie se niente affatto contemporanea, ma sopita tra le coperte del tempo, sui guanciali che sono le didascalie museologiche. L’ecfrasi è il prompt della poesia che chiede all’intelligenza naturale del lettore di immaginare un dipinto o una statua decifrando delle parole invece che guardando delle foto; il che aveva un senso quando le foto non esistevano ancora, e ne ha forse uno ancora maggiore adesso che esistono pure quelle generate da Midjourney.
Nella sua lunga carriera cinematografica, Willem Dafoe è stato in grado di incarnare Van Gogh e Gesù, il Goblin di Spider-Man e il dottor God di Povere creature!, quindi non c’era da stupirsi che fosse perfettamente nella parte anche per quest’altro ruolo estremo, a metà tra il fine dicitore e il medium tra uomini e santi, pubblicità e intimità, sé stesso e Gabriele Tinti. Willem accettava così di buon grado, prima di congiungersi col poeta e col soprannaturale, davanti alla videocamera e agli occhi e alle orecchie degli astanti (anzi, forse proprio come rituale di ulteriore preparazione all’atto sublime che lo attendeva), il piccolo martirio tipico di ogni divo del cinema che, ritrovatosi in un luogo relativamente raccolto – e al cospetto di un pubblico a numero chiuso – deve subire il supplizio del selfie con ciascun presente. Tinti lo osservava comprensivo e orgoglioso, a sua volta, della gentilezza del suo ospite.
Insomma: anche se la location era a dir poco solenne, i crismi ministeriali, i versi classicissimi e la voce recitante un divo di Hollywood, l’evento è riuscito perché poco istituzionale e molto umano. Infatti, mentre il pubblico cercava disperatamente di collegare le parole lette da Dafoe alla lunga, premurosa e referenziata introduzione di Tinti (la missione impossibile di ogni poeta è cercare di circostanziare l’infinito); tentando di associare come poteva, tra le righe poetiche e le rughe espressive dell’attore, il giusto strumento di martirio al giusto Santo, il corretto simbolo alla corretta dottrina; ecco che infine un primo spettatore guardava in alto, attraverso l’oculus (“er buco”) della smisurata cupola (ancora la più grande al mondo) e si rendeva conto quanto più senso aveva guardare in basso, tra gli altri astanti e, possibilmente, dentro di sé.
Le parole di Tinti e Dafoe parlavano sì di Sebastiano trafitto dalle frecce, di Lorenzo cotto a puntino sulla graticola; ma il loro significato, amplificato dall’acustica della pianta centrale dell’edificio, inviato al cielo dal pavimento e puntualmente ritornato dal cielo verso il pavimento, erano parte di una comunicazione biunivoca. Quel segnale, generato dal centro di Roma e trasmesso nel mondo attraverso l’apertura della cupola (e anche grazie al canale YouTube del Ministero della Cultura), non riguardava solo gli uomini citati e oggetto di devozione o ammirazione, ma anche tutti noi, che santi non siamo, eppure sopportiamo, come Willem davanti agli iPhone, le afflizioni del presente.
Quella di Tinti e Dafoe è così una definizione di poesia a due vie: è sia quello che manca all’uomo per essere divino che quello a cui deve abdicare il divino per essere compreso dall’uomo. Al cospetto dell’evocazione poetica dei tormenti dei martiri del passato, diventiamo tutti potenziali perseguitati dal presente, a partire dai nostri difetti, le nostre vanità, le nostre ambizioni e i nostri piccoli, grandi atti di tormento quotidiano, fosse anche solo cercare parcheggio nei pressi del rione Pigna di Roma.