Affacciarsi al mondo di Martin Parr è come attraversare d’un fiato tutto ciò che, d’istinto, ci farebbe cambiare strada, e voltare dall’altra parte. Quello che insomma infastidisce, forse perché deprime. Ma che allo stesso tempo, per vie più sottili, provoca una risata inevitabile, e interiore. È riconoscerci, nelle forme più basse (e condivise) della nostra espressione di noi stessi. È una macro su un un mondo scialbo, che tutto sommato riconosciamo e ci appartiene. Parr lo sa, e non per nulla dichiara: «Ogni situazione è diversa. A volte si interagisce con le persone e a volte si assume un atteggiamento più discreto. Ci sono tantissimi modi diversi di fotografare le persone e li sfrutto tutti». La sua scelta lascia il segno: il brutto ma intrigante, il “particolare” che sempre attrae, e non lascia scampo.
Fotografo inglese di fama mondiale, Parr è conosciuto per il suo stile asciutto e diretto, definito spesso “sociale”, anche se, personalmente, credo gli calzi meglio la definizione di antropologo dei fenomeni sociali (e, dunque, pop). Così lo definisce Roberta Valtorta, storica e critica della fotografia, che, in occasione della mostra Martin Parr. Short & Sweet, fino al 30 giugno al MUDEC di Milano, ha curato una bella intervista inedita che si può gustare sul posto, comodamente seduti su sdraio rivestite delle immagini pop(olari) di Parr.
Il percorso offre molte tra le sue serie più conosciute.
Si comincia con Bad Weather, lavoro incentrato sull’ossessione britannica par excellence, il tempo metereologico, presentato per la prima volta nel 1982. Foto in bianco e nero catturano cittadini inglesi alle prese con le tipiche condizioni britanniche: acquazzoni, pioggia, tempeste di neve. «Di solito ti viene detto di fotografare solo quando c’è una buona luce e il sole», chiosa Parr, e invece a lui «piaceva l’idea di scattare fotografie solo in caso di maltempo, come modo di sovvertire le regole tradizionali». Mission accomplished.
Si continua con Small World (1989-2008), che indaga le mosse del turista medio. Non stupitevi, lo conosciamo tutti: è il tipo umano consacrato dai voli delle compagnie low cost, l’essere in cui anche noi, a turno, ci trasformiamo. Ed è uno dei maggiori cliché contemporanei. A essere messa sotto inchiesta è così la grande farsa del viaggio, che non conosce nessuna introspezione né presa di coscienza del luogo in cui avviene, destinata a risolversi in un incessante flusso di superficiale banalità. Tutto divoriamo e portiamo a casa come souvenir posticci, alla stregua di brutte cartoline.
Qui, la fotografia di Parr sfiora il parossistico, perché di un parossismo di moto senza direzione, alla fine, si parla in vacanza. Saturazione estrema dei colori, inquadrature vicinissime al soggetto per catturare ogni singolo dettaglio, l’utilizzo del flash anche in pieno sole per esasperare i colori e renderli accesi ai confini dell’inverosimile. Siamo allucinati, paiono dirci questi scatti, e la realtà, per citare Anna Oxa, non la vediamo proprio più. O, per parafrasare ancora con le parole dell’artista: «Ho la sensazione che a raccontare storie tristi e deprimenti nessuno ti darebbe retta. Ecco perché le mie fotografie sono allegre e colorate e, spero, accessibili, perché voglio fare partecipare lo spettatore, non voglio annoiarlo». Se Bertold Brecht avesse dovuto popolarizzare la definizione del suo straniamento, non avrebbe potuto trovare parole migliori.
Torniamo allora un attimo indietro, e soffermiamoci sul primo progetto a colori di Parr, The Last Resort (1982-1985). Un reportage dalle spiagge di Brighton, sobborgo balneare di Liverpool, in un periodo in cui il Nord-Ovest dell’Inghilterra versa in un profondo declino economico. I ritratti, qui, avvengono tutti in chiave amaramente ironica: le famiglie a basso reddito in fuga balneare sono il documento di una fine, quella dell’utopia società del benessere e del consumo.
L’installazione prosegue poi con Common Sense: trattasi di oltre 200 fotografie in formato A3 selezionate tra le 350 esposte nella mostra omonima del 1999, a offrire uno studio ravvicinato del consumo di massa e della cultura dello spreco, in particolare occidentale ed europea.
Perché alla fine, la ricerca visiva, e ossessiva, dell’artista, ormai si sarà capito, gira tutto intorno a questo: le cose volgari, assurde, stonate. È in questo milieu esistenziale che si inserisce Life’s a Beach (gli scatti presentati in mostra vanno dal 1986 al 2018), con spaccati di vita da spiaggia provenienti da tutto il mondo a creare un caleidoscopio di immaginari del corpo svestito e del suo mostrarsi in pubblico – prima di Ken in Barbie, insomma, qualcuno ci aveva già pensato.
Si passa poi al tema del ballo, e in pista scendono Everybody Dance Now (1986–2018) ed Establishment (2010–2016). Il progetto è fotografare la classe politica britannica, le élite che governano il Paese e i loro rituali, e la loro sorprendente ripetizione attraverso il tempo, che si tratti dei personaggi della politica, delle sedi del potere, o delle università più famose.
La mostra si conclude con Fashion, che raccoglie immagini prodotte tra il 1999 e il 2019 per riviste di moda e in occasione di varie sfilate. L’occhio del fotografo diventa cinico e beffardo, dissacratore di donne, e uomini, che tutto vogliono fuorché lasciar andare la loro idea di giovinezza. Ma anche, qualche volta fan capolino, giovani che tutto esibiscono in mancanza di un’essenza più profonda.
Si parla, in tutto, di 60 fotografie selezionate direttamente da Parr insieme a Magnum Photos, prestigiosa agenzia di cui è membro dal 1994, e a cui venne presentato da Henri Cartier-Bresson, maestro a cui ispirò specie agli inizi della propria carriera, con la stagione in bianco e nero.
Che siate estimatori di lungo corso di Parr o che abbiate voglia di un viaggio nel kitsch, nel cattivo gusto, nelle debolezze sociali, e nei vizi della società capitalistica matura, la destinazione è perfetta per sostituire qualsiasi gita al mare, o picnic fuori porta. Specie se vorrete guardarvi per un po’ dall’esterno, e pensarci due volte prima di portare con voi quel panino bruttissimo e pieno di insalata triste, la prossima volta che vi fate una scampagnata. O anche solo per godere del lavoro di qualcuno che, finalmente, ha il coraggio di mostrarci senza i veli di decoro di cui ci piace ricoprirci.