Diamine, ma perché non lo scrivono mai da qualche parte? Cosa ci vuole? Una bella scritta, a caratteri cubitali, che recita: “Astenersi maggiorenni. Grazie”. Anche noi adulti, in fondo, avremmo bisogno dei nostri bollini rossi: si chiama parità dei diritti. E, credetemi, dopo aver visto Fabbricante di lacrime smanetterete anche voi su Change.org per lanciare una petizione rivolta a Netflix. Il film – attesissimo da tutto il gigantesco stuolo di fan della scrittrice Erin Doom – è appena arrivato su Netflix (il 4 aprile), e io non riesco a fare a meno di pensare se c’è un modo di morire prima che i pischelli di oggi diventino i dottori che mi cureranno domani. A occhio, tra guerre, cataclismi ecologici e flagelli vari dovrei avere buone chance, ma gradirei qualche certezza maggiore. Di questi figlioli non mi fido più. Perché va bene tutto il discorso del “tu, cara mia, non sei il target a cui si rivolge la storia” (me lo sono ripetuto duecento volte, come un mantra), e la storia del gap generazionale, dell’incomprensibilità reciproca, e via dicendo. Ma qui mancano proprio le basi per l’evoluzione della specie umana.
Partiamo dalla storia. I primi 10 minuti sono buoni. Molto buoni. C’è questa pischella, di nome Nica, che è in macchina insieme ai suoi genitori. Ha la fissa dei cerotti. Le piace curare le persone perché, come le ha insegnato mamma, “con la delicatezza si cura ogni cosa”. E tu pensi: “Ora fanno un incidente”. E infatti. Mentre parlano del fatto che “i lupi sono belli, molti pensano che sono cattivi solo perché qualcuno ha deciso che nelle favole sono così, ma non è vero”, il padre perde il controllo dell’auto. Segue schianto, causato da attraversamento di lupo (guarda un po’!) sulle strisce pedonali, con annesso sbalzamento di infante dall’auto e morte dei genitori. Il lupo di cui sopra passa di lì, ma non sbrana nessuno: che bravo ragazzo.
Stacco. Ci troviamo davanti a un castello infestato, che invece è un orfanotrofio, dove – così spiega la voce fuori campo – la protagonista incontrerà personalmente “il fabbricante di lacrime”: una creatura delle fiabe che vive in un Paese dove le persone non piangono mai. Per provare delle emozioni vanno da lui, che sa forgiare lacrime di cristallo, e solo così riescono a esprimere i propri sentimenti. Rabbia, tristezza, disperazione. E tu pensi: notevole. Pillole di educazione sentimentale, quella tanto invocata da Stato, famiglie e scuole. Immagini pure uno scenario fantasy, con questo fabbricante che minaccia gli orfani, e poi epiche battaglie al chiaro di luna. Magari pure qualche lupo mannaro. Invece quello che vedremo saranno tanti, tantissimi pettorali: quelli dell’altro orfano, Rigel, qui interpretato dal rapper Biondo (aka Simone Baldasseroni). Invece di volare verso territori goth, il film imbocca infatti la strada del mélo, schiacciando il pedale dell’acceleratore a velocità massima. Scodella la storia di questi due ragazzini, ormai adolescenti, che si odiano e si amano, e la cui passione esplode irrefrenabile quando vengono adottati entrambi dalla famiglia Milligan.
Il che, per carità, non è sbagliato di per sé. Solo pochi giorni fa Gabriel Garko non macinava forse alti ascolti su Canale 5 con l’inguardabile Se potessi dirti addio? Non possiamo certo essere noi a dare lezioni di qualità tv, se poi ci beviamo certe robe. Ma c’è un ma. Prima di tutto, se decidi di fare un mélo, viaggi poi a quella velocità di crociera: non cerchi di essere anche alto e impegnato, alla stregua di uno Shakespeare young adult. Garko non si mette a filosofeggiare, tra un’inquadratura di addominali e l’altra. Qui invece sì. Si cerca l’aulicità prêt-à-porter senza rendersi conto che, se vuoi essere profondo, non puoi restare piantato per terra, nella banalità. Risultato: abbiamo dialoghi come “Per dare amore non devi avere paura, ma solo tanto coraggio”; “Noi siamo rotti, Falena, certe cose non si possono riparare”; “Rigel, forse ci siamo spaccati in pezzi per incastrarci meglio”; “Tu sei il lupo e io non riesco a immaginare una favola senza di te”. E tu pensi: davvero questi ragazzini si accontentano di ’sta roba qua? Di così poco? Una parte di te spera che l’adattamento sia a firma di ChatGPT e che i fan, intuendolo, si ribelleranno in massa. Ma non succede. A loro la storia piace così.
E questo è parte del problema. Una grossissima parte. Perché mentre noi siamo qui a scendere in piazza con le scarpette rosse, a sensibilizzare contro il femminicidio, c’è evidentemente tutta una schiera di ragazze e ragazzi che ancora pensa che trattare male la persona amata sia romantico. Attrattivo. Magnetico. Questo è infatti il messaggio che di fatto passa. Il film porta in scena il disagio esistenziale, ma lì lo lascia: non lo elabora, non lo fa evolvere in altro. I protagonisti sono spezzati, punto. Come se la rivoluzione fosse semplicemente dire che stanno male. “Ogni personaggio rappresenta un concetto”, ha spiegato in una recente intervista la scrittrice Erin Doom, “Rigel è abituato a ottenere quello che vuole e quando, per la prima volta, non ci riesce ha un atteggiamento immaturo e vendicativo”. Infatti, in più di una scena, non sai mai se Rigel sia sul punto di baciare Nica o di gonfiarla di botte.
Certo, in parte siamo influenzati da lei che continua a ripetere “lui è il fabbricante di lacrime, lui è cattivo, lui è il lupo” e altre amenità infondate. Però, insomma, non è che Rigel sia un tipo rassicurante. Lo sguardo un tantino folle è alleviato solo dal fisico scultoreo. Di nuovo: è l’attrazione sessuale a far chiudere gli occhi a Nica e soprassedere sulle più o meno velate minacce? Ne citiamo una a caso: lei a un certo punto lo sfiora. “Non toccarmi mai più con questa casualità”, ringhia Rigel. “Altrimenti?”. Risposta: “Altrimenti non mi fermo”, e si avvicina non si sa bene come.
Poi certo, alla fine apprendiamo che Rigel ha fatto anche cose buone, è malato, fragile, ed è pronto a dare la vita per salvare Nica. Ma lei gli perdona tutto già molto prima: il cambiamento di Rigel è del tutto ininfluente, nell’economia della loro relazione. Lei lo ama già. Accetta il lupo, poi cara grazia che la belva si riveli invece un agnellino. Per farla breve, qui si rischia di riabilitare la sindrome della crocerossina che vuole salvare l’amato contro tutto e tutti, e che da anni invece noi cerchiamo di smontare. Così la tanto sospirata educazione sentimentale, che consiste nell’accettazione e gestione delle emozioni negative, si ferma solo al primo step: quello del “va bene così, le accetto”. O, detto alla romana, “stacce“. Non ultimo, lasciateci dire una cosa. Probabilmente – anzi, sicuramente – siamo noi adulti a non cogliere l’altezza dell’opera. La tv (o chi per lei) è figlia del proprio tempo, e ognuno intercetta il suo. Però, oggi come ieri, vale una regola aurea: se sei un attore, devi sapere recitare. Qui – sorry guys – il livello è decisamente basso. Ma del tipo che, al confronto, Garko merita un David di Donatello.