Quando The Last of Us ha debuttato all’inizio del 2023, ho iniziato la mia recensione (entusiastica) scrivendo: “Tra i tanti complimenti che posso fare a The Last of Us c’è che alla fine mi ha fatto dimenticare che è basato su un videogioco”. Alcuni gamer lo hanno preso come un ambiguo complimento per la serie e come un totale rifiuto di quella che è l’arte dei videogame. Ma il punto che sostenevo allora, e che sosterrei adesso, è che le esigenze di un gioco interattivo sono fondamentalmente diverse da quelle di una narrazione controllata solo dagli storyteller, e che quasi tutte le traduzioni di videogiochi precedenti a The Last of Us hanno faticato moltissimo a far sì che le cose funzionassero.
Dopo l’enorme successo di Pedro Pascal e soci presso spettatori, critici ed Emmy, l’asticella ora si è alzata, soprattutto per qualsiasi adattamento che spera di attrarre chi non conosce o ama già un gioco in particolare. Se il titolo non cammina con le sue gambe come serie senza una fedeltà preesistente a un marchio, bisogna sedersi di nuovo e ricominciare da capo. O forse trovare un gioco più “adattabile”.
Se non altro, la versione ad alto budget by Prime Video del popolare franchise Fallout funziona come serie Tv. Ci sono tre (o quattro, a seconda del punto di vista) personaggi principali distinti, tutti impegnati in storie chiaramente delineate durante una prima stagione di otto episodi, il tutto all’interno di un mondo post-apocalittico pienamente realizzato. Premettendo che ho una conoscenza minima del gioco, i creatori della serie, Geneva Robertson-Dworet e Graham Wagner, hanno preso alcuni elementi dal materiale originale, ma hanno anche aggiunto molte delle loro idee, in particolare per quanto riguarda la trama e gli archi dei personaggi. E il co-creatore di Westworld Jonathan Nolan dà uno stile evidente alla storia in qualità di regista della puntata pilota, nonché come produttore esecutivo. Ci sono stati pochissimi momenti durante il binge-watching degli episodi in cui l’unico modo in cui potevo spiegare una decisione creativa era alzare le spalle e presumere che qualcosa di simile fosse accaduto nel gioco.
Ma se una cosa è funzionare come serie tv, un’altra è farlo molto bene, e questo standard si rivela più difficile da raggiungere per Fallout. Ha alcuni componenti divertenti e il grande Walton Goggins (Justified, The Righteous Gemstones) recita come al solito in un ruolo pieno di sfaccettature. Sembra però che la serie si stia sforzando troppo di attirare la nostra attenzione, il tutto mentre molti dei suoi spunti vengono riciclati non dai videogiochi, ma da altri film e serie post-apocalittici più interessanti.
La serie in realtà si apre in un modo che suggerisce qualcosa sulla falsariga di The Last of Us. Siamo in una versione retro-futuristica della California, dove tutte le mode risalgono agli anni Cinquanta, mentre la tecnologia è al di là di qualsiasi cosa possediamo oggi. La star dei B-movie western Cooper Howard (Goggins) sta intrattenendo i bambini a una festa di compleanno, mentre tutti gli adulti sono nel panico per le notizie di un’imminente guerra nucleare. Quando un fungo atomico si alza in lontananza, Cooper afferra sua figlia e insieme corrono in groppa al suo cavallo, alla ricerca di un posto sicuro dove nascondersi.
Ma Fallout non è la storia di un padre e una figlia che vagano nel periodo immediatamente successivo a una catastrofe globale. L’azione fa un salto in avanti di 200 anni, alle società che sono sorte sulla scia di un olocausto nucleare. Lucy (la Ella Purnell di Yellowjackets) è cresciuta all’interno di uno dei tanti depositi sotterranei costruiti ai tempi di Cooper Howard, ogni piccola comunità faceva del suo meglio per rimanere sana e in salute lontano dal sole. (Mentre Lucy si prepara per il suo matrimonio combinato con un uomo proveniente da un caveau vicino, ammette di essere sollevata di aver ottenuto qualcosa di reale «dopo 10 anni di “cose da cugini”».) Lucy è fondamentalmente allegra come una principessa Disney, anche se un po’ più arrapata e più abile con le armi quando se ne presenta la necessità. Ma quando la tragedia colpisce la sua camera blindata, si ritrova in superficie a lottare per dare un senso al mondo che ha cercato di continuare ad andare avanti mentre la sua gente si nascondeva.
Tra questi gruppi c’è la Confraternita d’Acciaio, un esercito religioso che prende a modello i cavalieri delle Crociate, solo che qui indossano tute meccaniche, mentre gli scudieri – incluso Maximus (Aaron Moten) – lottano per tenere il passo portando borsini di armi pesanti. E poi ci sono i ghoul, che stanno da qualche parte nel continuum tra umani e zombie, a seconda di quanto tempo è passato da quando l’ambiente avvelenato li ha resi così e di quante medicine sono riusciti a rimediare. In effetti, Cooper Howard è ancora vivo due secoli dopo, più o meno. Ora è vestito e si comporta come uno degli spietati banditi che i suoi alter ego cinematografici erano soliti combattere, ed è semplicemente conosciuto come “il Ghoul”.
Ci sono abitanti dei caveau, demoni e cavalieri nei videogiochi, ma questi tre personaggi – oltre a figure secondarie come il padre di Lucy Hank (Kyle MacLachlan), il rivale di Maximus Thaddeus (Johnny Pemberton) e la misteriosa Moldaver (Sarita Choudhury) – sono in gran parte invenzioni della serie e non tutti funzionano allo stesso modo.
Goggins è perfetto nei panni del Ghoul, si mangia lo schermo e sguazza in battute del tipo: «Bene, bene, bene. Questa è una produzione Amish del Conte di Montecristo o il circolo di stronzi più strano a cui sia mai stato invitato?». E nei panni di Cooper aggiunge alcune emozioni necessarie ai flashback che altrimenti avrebbero soltanto riempito le backstory. Maximus invece è abbastanza insipido e dimenticabile, almeno fino a quando un paio di episodi a fine stagione spingono sulla commedia con lui. Molti degli attori che appaiono nei cameo, come Michael Emerson, Chris Parnell o Matt Berry (che dà voce a un robot come in The Book of Boba Fett, ma questa volta con battute vere e proprie) restano impressi più di molti personaggi regular più importanti.
Ella Purnell ha il difficile compito di fungere da fulcro emotivo della serie, mentre Lucy si trova a cavallo tra l’innocenza della vita nel caveau e il sangue e l’amoralità di ciò che accade nel mondo reale. È all’altezza del ruolo, anche se il suo materiale tende ad essere più forte ogni volta che Lucy, con riluttanza, mette da parte la fiducia da Pollyanna nella bontà delle persone e fa semplicemente ciò che deve essere fatto.
E, a proposito di quello scontro di visioni del mondo, trovate qualcuno che vi ama come questa serie ama giustapporre ironicamente scene di disperazione o violenza stilizzatissima e cruenta con canzoni pop allegre o malinconiche degli anni Quaranta e Cinquanta. La grande sequenza d’azione del pilota si svolge sulle note di Some Enchanted Evening, mentre un episodio successivo presenta Sixteen Tons di Tennessee Ernie Ford, Only You dei Platters e What a Diff’rence a Day Makes! – tutte grandi canzoni, ma probabilmente destinate al ritiro da tutte le colonne sonore, e in particolare da questo tipo di utilizzo. I pezzi e molte delle performance sottolineano che la serie vuole essere un’avventura satirica; il più delle volte, però, è come se il team creativo fosse riuscito a trovare un tono comico senza inventare però abbastanza battute di livello.
Almeno la maggior parte di Fallout è piena di energia, a parte una sottotrama sul fratello di Lucy Norm (Moises Arias) che indaga sulla struttura di leadership del vault. E la costruzione del mondo raccontato risalta davvero. Ma, come la colonna sonora, ci sono parti di così tanti altri film e serie – Silo di Apple TV+ lo ha battuto sul mercato di almeno un anno con il suo ritratto (anche se più drammatico) della vita sotterranea post-apocalittica – che sembra un po’ tutto copiato da altri, anche se i giochi esistono in varie forme dalla fine degli anni Novanta.
Avremmo potuto muovere la stessa critica a The Last of Us, ovviamente, visto che gran parte del suo mondo riecheggia The Walking Dead, ma quella serie è stato realizzata con una maestria tale che le somiglianze non avevano importanza. Non è giusto paragonare Fallout a quello standard più di quanto lo sia paragonare ogni nuovo dramma poliziesco, per esempio, a The Wire. Ma anche se The Last of Us non esistesse, Fallout sembrerebbe comunque una serie furbetta e già vista, con performance e dettagli sullo sfondo abbastanza interessanti da impedirgli di essere una perdita di tempo, ma non quella scintilla che gli consentirebbe di brillare davvero. Anche se forse i fan del gioco la penseranno diversamente.