Magari non sarà così proprio per tutti-tutti, ma se si pensa al giovane Silvio Berlusconi una delle prime immagini che vengono in mente è quella in bianco e nero del 1977 in cui lui, già imprenditore molto rampante di una Milano invece non ancora così tanto da bere, famoso più che altro per aver costruito Milano 2 con la Edilnord, siede sulla poltrona del suo ufficio con aria meno piaciona e più antagonista di quella a cui diventerà abbonato, mentre sulla scrivania lì di fianco spunta… una pistola. L’arma è inquadrata di striscio, perfino con un mago-della-comunicazione come lui è lecito credere sia entrata in camera per sbaglio, o che comunque lo scatto non fosse così gradito (e infatti recupererà L’Espresso nel 2010, e se non vi viene in mente subito è perché è stato insabbiato bene). Tant’è: nessuno dice che fosse Scarface, era un’epoca difficile e ok, in tempi di lotta armata sarà stato pure lecito difendersi; ma se uno pensa a Berlusconi giovane, ecco, può pensare a questo, e lì si apre un mondo. Senza malafede.
Pensa, poi, agli inizi controversi, perché delle storie straordinarie come la sua è interessante capire lo start, specie in un momento come questo, in cui si riflette su imprenditorialità, privilegi e tutto il resto. Pensa, giustamente, a quanto fosse o meno essere figlio delle (non) regole del dopoguerra. Ancora: pensa ai possibili agganci con la mafia ventilati ma respinti con perdite al mittente, alla favola di lui che parte dalle navi da crociera e arriva a fare il Presidente del Consiglio, restando che fu il padre – piccolo borghese, impiegato in banca, antifascista – un giorno a prenderlo per un orecchio e riportarlo all’ovile. Pensa, di nuovo, a una vita straordinaria, per fatti e intensità. «Se c’è una pistola in scena, prima o poi sparerà», diceva Čechov. Magari non qui, ma teniamola dentro. Poi invece uno guarda Il giovane Berlusconi e puff, non c’è (quasi) niente di tutto ciò.
Veronica Lario diceva che suo marito fosse «tanto», che straripasse. Sicuro non ci sta tutto dentro i tre episodi da un’ora scarsa l’uno di questa breve docuserie Netflix che tanto parlare sta facendo, con la regia, questa sì, efficace ed essenziale di Simone Manetti, e che dal titolo mette un cartello d’avviso grosso così all’ingresso – quello, cioè, con cui avvisa che non si parlerà del Berlusconi politico, per evitare bagni di sangue – e si concentra su ciò che è successo prima della nascita di Forza Italia. Che, appunto, è comunque tantissimo, e non c’entra tutto.
Non è tanto il cliché di «e però, signora mia, che grande imprenditore che è stato, quanti posti di lavoro ha dato», così com’è corretto l’aver trovato un taglio preciso, quello della gioventù rampante; è che proprio il racconto è poco incisivo. Dai filmati di repertorio più o meno inediti e dalle testimonianze prese soprattutto dal cerchio magico – Galliani, Dell’Utri, Confalonieri, poi anche volti storici di Mediaset: gente amica, diciamo, se non devota – esce fuori una narrazione che ha il problema non tanto di essere indulgente (lo è), ma di lasciare poco. C’è il minimo sindacale del Berlusconi drago dell’edilizia, tanto (quasi tutto) del Berlusconi demiurgo della tv commerciale che mette spot ovunque e ci costruisce un impero fino a forzare le leggi, quasi niente del Berlusconi sportivo, abbastanza di quello che nel 1994 dà l’ultima picconata alla vecchia politica e la trasforma nel Far West dei partiti azienda che scontiamo oggi. Chiaro, nessuno s’aspettava in stile Travaglio e Santoro, ma un SanPa o un Wanna – una roba, cioè, con il suo lato oscuro, che pure aiuta la trama da thrillerone true crime – sarebbe stato cosa buona e giusta. E invece tutto fila asettico, rapido, e alla fine innocuo. Non fa cambiare idea su di lui, ma nemmeno fa scoprire lati inediti. La storia di Berlusconi, ecco, come fosse una storia eccezionale tra le tante, quando invece non lo è affatto.
Che Berlusconi è, insomma, quello di Il giovane Berlusconi? Un imprenditore non ancora politico visionario (e ci mancherebbe), che difficilmente sbaglia intuizione, spregiudicato, con un sistema di valori più in anticipo sui tempi che sbagliato, con poche macchie, che sa sedurre chiunque come il grande venditore che è e che, su questa cosa del vendere, costruisce tutto. Nessuno, viene fuori a un certo punto, si era preoccupato di cosa pensassero davvero i candidati di Forza Italia scelti dopo lunghi casting nel 1994: contava che fossero brillanti come i rappresentanti pubblicitari di Fininvest e Publitalia, che avessero l’alito profumato e le cravatte giuste, mica che sposassero davvero quel programma di liberalismo all’acqua di rose che, dopo qualche lezione privata di Marco Pannella, Berlusconi aveva messo in piedi con il suo ufficio marketing per scongiurare la «minaccia dei comunisti» e, in verità, liberarsi dei creditori che lo assediavano. Se non altro, almeno la storia dei debiti non viene taciuta. Solo che per il resto gli avversari sono pochi, da una breve retrospettiva sulla guerra della Francia alla sua tv commerciale, quando prova ad esportarla lì, all’immancabile Occhetto, avversario alle elezioni del 1994 – alla vigilia delle quali, giustamente, si chiude la serie – che ha già raccontato tutto più volte, e non si esime dal ripetere ancora di come perse le elezioni politiche per una questione di look la sera del grande confronto elettorale in tv.
Poi, certo, più che come un Berlusconi for dummies, Il giovane Berlusconi funziona – e anche parecchio bene – quando diventa un piccolo trattato di sociologia su cos’eravamo al suo cospetto, come sia stato sempre un passo avanti nel plasmare i nostri gusti in termini d’intrattenimento prima e politica poi, su com’eravamo, forse, ingenui. La scena con le mamme in rivolta perché lo Stato aveva oscurato le sue reti, e i loro figli non potevano più vedere I Puffi, è emblematica. E la sua tv, va detto, è raccontata davvero bene. Non fosse che la storia di Berlusconi non è solo quella di Sua Emittenza, dei rapporti con Maurizio Costanzo e Mike Bongiorno, né quella di un imprenditore illuminato che poi si è preso tutto. È semmai una vicenda umana e individuale pazzesca in cui però passano cinquant’anni di Storia italiana, e di cui sarebbe stato bello sapere meglio quanto ha rivoluzionato il linguaggio politico (leggi: impoverito, commercializzato) e il nostro Paese dai programmi tv, gli amori, il rapporto con i soldi e il potere, i tic nervosi, l’ansia di piacere a tutti. Tutti elementi, cioè, che da questa docuserie un po’ asettica, e troppo lineare, restano fuori.
Prima di ciascun episodio c’è una scritta, dice che Il giovane Berlusconi è stata realizzato prima della sua morte – solo un pessimo tempismo. Ci sta anche questo, com’è prevedibile che ci sia stato bisogno di tenersi in equilibrio tra la nostalgia precoce (anche Santoro, ebbene sì, ora lo rimpiange, figuriamoci), la santificazione esagerata, l’onestà intellettuale e il parlar male dei morti. Viene molto più facile credere a questo che alla malafede. Ma a tratti, ed è questo il problema, sembra più un modo innocente di Netflix per fare-qualcosa-su-Berlusconi perché è lui, ma aggiungendo di fatto pochino. Che poi forse è la testimonianza miglior del suo lascito sulla cultura popolare: là dove anche grandi opere di finzione come Il caimano e Loro hanno fatica a imporsi, forse l’Italia semplicemente non è ancora pronta a una grande docuserie su Berlusconi che lo guardi in maniera equilibrata e complessiva, tenendo dentro tutto, contraddizioni comprese, senza eccessi dall’una e dall’altra parte. In questo senso, Il giovane Berlusconi è più legato al presente e al passato che al futuro. E a proposito: ma che ci faceva una pistola sulla sua scrivania?