Coincidenza delle coincidenze: nel Giovane Berlusconi, la docuserie Netflix appena uscita e che racconta l’ascesa di Berlusconi prima della politica, si vede come lui negli anni Ottanta sia riuscito a portare sui propri canali – che erano quasi clandestini, trasmettevano «in contemporanea» su antenne locali ma mai «in diretta», per aggirare una legge che impediva la nascita di una rete nazionale alternativa a quelle di Stato – alcuni pezzi grossi della Rai, su tutti Mike Bongiorno. Come? Strappandolo alla concorrenza istituzionale con la promessa di realizzare programmi diversi (leggi: commerciali) e di essere valorizzato, ma anche con contratti inimmaginabili per i dirigenti di Viale Mazzini. Soldi, cioè. Tanti soldi. Sappiamo com’è finita: il monopolio della Rai fu messo in discussione, fino a non uscirne vivo.
Ecco, adesso sembra d’essere tornati indietro di quarant’anni dopo un periodo di relativa calma, con la Rai non più al centro assoluto ma tornata in prima linea per titoli, appeal e ascolti (la rinascita di Sanremo e la scommessa di Mare fuori sono state, tra i tanti, due colpacci). La geografia della tv sta di nuovo cambiando e quella di Stato – da sempre, per natura, vulnerabile, attaccabile – arranca ora come allora. Certo, non c’è più Mediaset a diffondere il panico: «Una volta ci prendevamo noi la concorrenza…», ha sospirato, con un po’ di malinconia, una talpa al Foglio nei giorni scorsi. Però c’è il Nove, il canale di proprietà di Discovery Italia, gruppo Warner Bros., che si è aggiudicato il volto e le prestazioni di Amadeus per i prossimi anni, e che ora punta, tra gli altri, a Fiorello.
Mediaset, al netto dei piani di rilancio di Pier Silvio Berlusconi, che vorrebbe una rete meno trash e più giovane, non ha il potere di fuoco che fu, mentre i saccheggi di La7 – negli anni sono arrivati Mentana, Gruber, Diego Bianchi, adesso Augias – sono limitati più che altro alla sola informazione. Invece il Nove pare capace sia di dare soldi sia di garantire libertà politica. Vuole fare, insomma, le cose in grande. Il precedente d’oro è quello di Che tempo che fa di Fazio, una macchina d’ascolti che la scorsa estate la Rai di marca Meloni ha lasciato partire senza rimpianti per motivi politici, finendo per pentirsene presto. Da lì, la certezza che si può fare. Come ha scherzato in un monologo Maurizio Crozza, ormai acclamato volto storico della rete perché pioniere proprio della svolta, «siamo partiti che eravamo lo sgabuzzino della tv italiana, ora siamo Lampedusa». Nel senso che adesso arrivano da tutte le direzioni.
Amadeus appunto, ma anche Fiorello. Lui ci ride su: «Io e lui abbiamo vite diverse, non siamo la stessa persona». Ma il prossimo 10 maggio il programma che conduce tutte le mattine su Rai 2, Viva Rai 2!, si chiuderà, e lui non intende riprenderlo: «Per ora ho un contratto con il mio divano». Il Nove ci pensa, non per forza affidandogli una striscia quotidiana, ma sarebbe un peccato, credono, dividerlo da Amadeus. Anche perché i soldi ci sono. E non solo: in stile “giovane Berlusconi”, secondo fonti stanno valutando i nomi di Belén Rodriguez e Barbara d’Urso, disoccupate di lusso fuoriuscite da Mediaset – la prima, dice, per scelta sua, la seconda tagliata via dal repulisti di Pier Silvio, e non è un mistero. Sono suggestioni, ma neanche troppo: se il Nove vuole fare concorrenza davvero alle reti principali, non può puntare solo su Amadeus, Crozza e Fazio, ma deve rimpolpare in tutte le salse un palinsesto ancora povero, in modo che i vari programmi si diano forza l’uno con l’altro grazie a volti già popolari che lo rendano più familiare. Si sa quanto siamo abitudinari davanti alla tv.
Vedremo se, con Amadeus nella stanza dei bottoni e i soldi di Warner Bros., il Nove garantirà una rivoluzione nella tv e nell’intrattenimento come quella che Fininvest scatenò negli anni Ottanta. Certo è che la Rai è in crisi come allora, con i dirigenti voluti da Meloni incapaci di fermare l’emorragia di volti, ascolti e programmi di queste settimane, con un danno d’immagine enorme. È già una brutta botta doversi preoccupare della conduzione del prossimo Sanremo e di quella di Affari tuoi; ma ieri la stessa premier pare abbia addirittura telefonato a Fiorello, per convincerlo a restare. Lui non smentisce, il suo addio sarebbe una pietra tombale su un nuovo corso già parecchio controverso.
Sì, perché è sempre di questi giorni l’indiscrezione per cui potrebbero lasciare anche i giornalisti Federica Sciarelli e soprattutto Sigfrido Ranucci, conduttore di Report notoriamente indigesto ai dirigenti in quota Fratelli d’Italia. Viale Mazzini rischia di perdere lui e il suo storico programma, e stavolta la mancanza di prospettive c’entra fino a un certo punto: i motivi sono prettamente politici. Anche per questo, il sindacato dei giornalisti Rai ieri se n’è uscito con un ennesimo comunicato stampa durissimo, tra un «ci chiediamo se il mandato di questo vertice sia quello di distruggere la Rai» e accuse varie («si fanno investimenti fallimentari, si chiedono sacrifici ai dipendenti, si taglia il budget delle redazioni con ripercussioni inevitabili sulla qualità del prodotto e al contempo si perdono pezzi importanti dell’identità Rai, con gravi danni per gli ascolti e il bilancio»). L’annuncio fa il paio con quello dei giorni scorsi, in cui accusavano Meloni di istituire un nuovo Minculpop con la tv di Stato. A godere, ovviamente, è la concorrenza. Specie quella rampante, che sta sul nono canale.