L’America sta vivendo un momento difficile, forse ne avete sentito parlare. Destra contro sinistra, conservatori contro liberal, fede cieca contro verità di parte. Quello che una volta era un divario ideologico ora sembra un abisso incolmabile. Nessuno sembra essere d’accordo su concetti semplici come, ad esempio, “fatti” o “realtà”. Gli storici amano indicare gli anni Sessanta dell’Ottocento, quando il futuro volto della nostra banconota da 5 dollari (il presidente Abraham Lincoln, ndt) tentava di preservare la nostra Unione mentre i fratelli combattevano contro i fratelli, o anche più recentemente il 1968, quell’annus horriblis di rivolte, assassinii e cadute morali, come il punto più basso della nazione. Considerato l’anno elettorale in cui ci troviamo e la sensazione che stiamo per riprendere una competizione davvero conflittuale per scegliere la più alta carica del Paese, tuttavia, è difficile non pensare che siamo sull’orlo di un secondo conflitto tra cittadini sul nostro stesso suolo. Può accadere qui. Può accadere di nuovo. Del resto, i sequel ci piacciono moltissimo.
Civil War di Alex Garland, nelle sale dal 18 aprile, affronta di petto questo “what if?” immaginando un futuro così poco lontano da poter essere accidentalmente scambiato per il presente, in cui gli Stati Uniti sono di nuovo in guerra contro sé stessi. La premessa è un’occasione perfetta per gettare uno sguardo freddo, duro e orrorifico sull’esperimento americano che si sta avviando verso l’autodistruzione. L’unica domanda è se lo scatenato lavoro di Garland voglia esplorare o sfruttare il nostro stato della nazione, e su questo la giuria non è ancora pronta. Oltre a essere uno dei registi più interessanti e genuinamente coraggiosi in circolazioni, lo scrittore e regista britannico dietro Ex Machina (2014), Annientamento (2018) e il sottovalutatissimo Men (2022) non è mai stato uno che si tira indietro di fronte a ferite sociologiche e point break esistenziali (lo stesso vale per la sua brillante serie tv Devs). Non è mai meno che al cento per cento stimolante e provocatorio. Questa volta, però, è difficile non avere la sensazione che il secondo aggettivo venga privilegiato a scapito del primo.
Siamo già nel new normal fin dall’inizio, calati in medias res in attacchi violentissimi tra il governo degli Stati Uniti e varie fazioni di secessionisti, che vanno dalla “Alleanza della Florida” alle “forze occidentali del Texas e della California”. A quanto pare, nemmeno gli Stati che condividono orientamenti politici simili e un nemico comune possono rimanere uniti quando la situazione precipita. Il Presidente (Nick Offerman, che ha stravolto il suo amabile personaggio di Parks & Recreation) si rivolge al Paese, annunciando le vittorie contro le varie fazioni ribelli. Garland mantiene volutamente le spiegazioni al minimo, per evitare che la gente si attacchi subito a dettagli di parte e a facili versioni binarie di buoni e cattivi. Ma è chiaro che dietro il podio con il sigillo del Presidente della Repubblica si nasconde un tizio molto autoritario; anche prima di scoprire che ha lanciato attacchi aerei contro dei cittadini americani, ha sciolto l’FBI e sta cercando di ottenere o sta già scontando il suo terzo mandato consecutivo, ci si rende conto che stiamo ascoltando un dittatore esperto di media. Il film presuppone che si vedano immediatamente i collegamenti con la realtà, che si riempiano da soli gli spazi vuoti e che non si abbia bisogno di spiegazioni. E insieme, però, suggerisce: il problema non è più grande di un solo politico?
Be’, sì, certo che lo è. Ma, ancora una volta, Civil War non cerca di fare paralleli specifici con la situazione attuale. Quello che vuole fare è mostrare a tutti gli spettatori come potrebbero essere le cose nel caso in cui il domino che ci amministra dovesse cadere tessera per tessera, e il governo decidesse di trattare questi Stati divisi come una potenza ostile. Non è una coincidenza che le nuove “guide turistiche” siano dei fotografi di guerra e giornalisti, gli esemplari di quell’obiettività che sembra dimenticata, due categorie entrambe considerate nemiche dell’amministrazione per il ruolo di testimoni della verità che hanno deciso di incarnare. Lee (Kirsten Dunst) è una leggenda tra i suoi colleghi fotografi nelle zone di guerra e, insieme al suo partner nonché giornalista di lunga data Joel (Wagner Moura), ha raccontato atrocità accadute in tutto il mondo. Dover documentare scontri a fuoco e respingimenti militari nel suo stesso cortile di casa, tuttavia, l’ha resa non solo stanca, ma anche tormentata.
Quando un attentatore suicida attacca la Guardia Nazionale durante una protesta, Lee finisce per fare da scudo a una giovane donna che si trova vicina all’esplosione. Si tratta di Jesse (la Cailee Spaeny di Priscilla). Si scopre che anche lei è un’aspirante fotografa di guerra, e che è ovviamente entusiasta di incontrare Lee. Forse questa veterana potrebbe darle qualche consiglio? Lee gentilmente rifiuta. Come noi, non sa se questa ventenne dagli occhi vispi sia una fan o la seconda venuta di Eve Harrington (il personaggio di Anne Baxter in Eva contro Eva, ndt). Tuttavia, la mattina dopo, Jesse si è ormai insinuata nel loro gruppo, che comprende Sammy (il grande Stephen McKinley Henderson), un giornalista che lavora per “ciò che resta del New York Times“. Si dirigono a Washington, nella speranza che uno di loro riesca in qualche modo a ottenere la prima intervista con il Presidente dopo 14 mesi. Si vocifera anche di una grande spinta della resistenza verso il Campidoglio. Si suppone che avrà luogo, ça va sans dire, il 4 luglio.
Da lì, Civil War ci porta in un veloce e durissimo tour nella vita americana in tempo di guerra, non coast-to-coast, ma attraverso la terra bruciata che si trova in mezzo. Le varie soste lungo il percorso vanno dall’inquietante (una stazione di servizio rurale che funge da camera di tortura per prigionieri di guerra) al rincuorante (un’enclave tipo Hooverville dove la gente cerca di creare una parvenza di comunità). Una deviazione in particolare, che coinvolge l’inquietante soldato interpretato da Jesse Plemons e una fossa comune, è ammantata da una tensione quasi insopportabile: immaginate la sequenza dell’orso che urla di Annientamento con un bravo ragazzo a sostituire la bestia, e avrete capito tutto. A volte si imbattono in caricature di politici locali e in mercenari che brandiscono mitragliatrici. Di tanto in tanto, trovano l’equivalente umano degli struzzi con la testa nella sabbia: “Cerchiamo solo di starne fuori”, dice la proprietaria di un negozio, prima di cercare di vendere a Joel un cappello.
Queste persone – quelle che si comportano come se la politica non fosse un fatto personale, che possono permettersi il lusso di non sentire i colpi d’artiglieria e di ignorare le file di famiglie sfollate sul ciglio della strada, che hanno l’aspetto e il comportamento di me e di voi – sono il bersaglio della rabbia di Garland tanto quanto i leader fascisti e gli aspiranti Rambo troppo gasati. Se siete venuti a vedere Civil War in cerca di sciovinismo di sinistra e/o paranoia da alt-right, vi auguriamo buona fortuna e buon viaggio. Idem per il conforto, la catarsi e/o il brivido a buon mercato. Se invece siete in vena di schernire con forza il vostro stesso autocompiacimento, benvenuti. Questo, e alcune immagini fatalistiche e da incubo in perfetto stile “Desolation Row”, sono ciò che vale il prezzo del biglietto. Il film è impostato in modo tale da poter sfociare nella satira alla Dottor Stranamore o in un thriller cospirazionista semi-vérité, ma quello che Garland e il suo cast indubbiamente stellare (in particolare Kirsten Dunst) hanno realizzato è un film dell’orrore inquietante e insieme seducente. E sì: vedere gli Stati Uniti così simili a quelli attuali ridotti a brandelli e in rovina, per non parlare di un carro armato che si aggira minaccioso su Park Avenue, vi agghiaccerà fino alle ossa.
Ma a quale scopo? Civil War offre in superficie molti spunti di riflessione, ma non si è mai sicuri di cosa si stia sperimentando o esattamente perché lo stiamo facendo. Il film non vuole puntare il dito in modo troppo facile, così come l’opera precedente di Garland, Men, il più snervante e nauseante film sulla mascolinità tossica che vi sia mai capitato di vedere, non voleva semplicemente gridare: “Harvey Weinstein!”. E il fatto che si possa leggere il finale di Civil War sotto una certa luce di speranza suggerisce che sì, questo Paese ha affrontato innumerevoli terremoti, ma resistiamo ancora, con l’idea di poter costruire un’Unione migliore. Tuttavia, durante le quasi due ore di durata di un film che alimenta una visione distopica già così presente nelle nostre teste, ci troviamo a chiederci molto spesso: perché Civil War sembra solo un’altra parte dello stesso rumore bianco che sentiamo da anni, solo con una frequenza leggermente più alta?