A ventitré anni ha lanciato la Pc Music, etichetta e collettivo indipendente che ha contaminato il pop portandoci all’interno ogni qualsivoglia tipo di estremo. Ora, che di anni ne ha trentatré, A. G. Cook è ancora uno dei producer e artisti più interessanti del panorama e il suo nuovo (triplo!) album Britpop è qui a confermarlo.
Partito da Londra radunando attorno a sé una serie di outsider della scena (quali Sophie, Hannah Diamond, Danny L Harle), A. G. ha da sempre sperimentato con il pop spingendone le estremità, pur sempre con una dose di dichiarato umorismo. Tra voci pitchate in stile cartoon e elettronica futurista, citazioni della pop culture di fine anni ’90 e inizio 2000 e un’estetica digitale abrasiva, sempre in bilico tra serietà accademica e LOL (sia che fosse autoironia che presa in giro dell’industria musicale, come dimostra il progetto QT), A. G. e la Pc Music hanno incarnato nella loro produzione lo spirito accelerazionista, portando con i propri laptop la musica verso una dimensione ultra-umana. Tanto che per descrivere il movimento di produttori sparsi per il mondo che hanno iniziato a riverberare questa rivoluzione sonora è stato necessario coniare un termine – hyper-pop – che la Pc Music ha subito voluto rigettare per mantenere una propria libertà espressiva.
Nel 2016 questa specie di sottocultura nerd incontra Charli XCX folgorata al punto di abbandonare le vesti di popstar canonica per diventare la paladina di questo strambo movimento. Dopo un EP decisivo prodotto da Sophie (Vroom Vroom), A.G. diventa la firma principale delle produzioni di Charli per due mixtape (Number 1 Angel e Pop 2) e due album (Charli e How I’m Feeling Now) portando la Pc Music definitivamente dentro il mainstream pop. Nel mentre, dopo aver pubblicato una miriade di singoli a proprio nome o con moniker più o meno fittizi, arriva finalmente al suo primo album, 7G (7 dischi tematici per un totale di 49 brani e 2 ore e 39 minuti di musica), a cui dopo poco più di un mese fa seguito un album di canzoni Apple, che svela il producer nella nuova veste di frontman (qui la recensione). Oltre che con Charli, il genietto della musica da computer ha firmato produzioni per Tommy Cash, Hannah Diamond, Troye Sivan, Jónsi dei Sigur Ros, Caroline Polachek e – guarda un po’ – Beyoncé, venendo chiamato a lavorare al brano portante dell’ultimo film dell’anime cult Evangelion. La sua dichiarazione preferita? «Il computer è l’unico strumento folk di questa generazione». O anche: «La gente non sa nemmeno decidere cos’è pop o cos’è il mainstream». Perché, come dice lui, è sempre «la musica a rovinare la musica».
Lo raggiungo in videochiamata a pochi giorni dall’uscita di Britpop (prevista per venerdì 10 maggio), il triplo album in cui prova a raccontare il passato, presente e futuro della (sua) musica, promosso con il lancio di tre siti fittizi (Witchfork, Wandcamp & Wheatport). Lui, di passaggio nella sua Londra, coi capelli lunghi e gli occhiali da vista mi guarda sorridente, così come l’ho sempre visto in ogni esibizione, online e offline (in Italia lo vedremo in esclusiva nazionale al prossimo C2C Festival). Il risultato è un’ampia conversazione – la sua prima con un magazine italiano – sul pop, il concetto di canzone, e il rapporto con Charli XCX e Sophie (a cui ha dedicato un brano, Without, a tre anni dalla scomparsa). E per la prima volta anche la risposta definitiva sul futuro della Pc Music, di cui A. G. Cook, a sorpresa, ha annunciato la fine.
Manca poco all’uscita del tuo disco, come la stai vivendo? Non mi sembri una persona che si stressa.
No infatti, ma questo perché sto realmente producendo cose che, secondo me, sono divertenti. Per me la musica deve guardare agli estremi e alle ambiguità: se non ha questo e non ha un po’ di senso dell’umorismo e di gioia allora non m’interessa. E spero che questo si rifletta un po’ in ciò che pubblico.
Penso sia proprio un punto cardine del tuo progetto, nonché della filosofia dietro Pc Music.
La chiamerei libertà. Ho sempre pensato che la mia musica fosse più in relazione con l’attitudine che ci metto piuttosto che legato ad un genere o a un suono caratteristico. È l’attitudine che ti porta a immaginare che potrebbe accadere qualcosa cosa. Ci deve essere libertà per far musica.
Considerando che Britpop è formato da 3 dischi per un totale di 24 canzoni, e che nel 2020 hai pubblicato 7G, che invece era formato da 7 dischi da 7 pezzi per un totale di 49 brani, la libertà mi sembra la base del tuo lavoro, anche a livello commerciale. Mi immagino che nel tuo hard disk ci siano centinaia di canzoni. Come gestisci tutta questa mole di lavoro senza perderti?
Mi viene più facile lavorare con questo sistema piuttosto che pubblicare un singolo ogni tanto. È veramente difficile per me mettermi lì a pensare a come dovrebbe suonare il disco perfetto di A. G. Cook, o anche solo a pensare a fare un disco in sé. Quindi mi creo dei giochi, come in questo caso: il disco uno di Britpop rappresenta il passato, che è più elettronico, il due il presente, dove ci sono più testi, più parole, e infine nel terzo, il più sconosciuto e ambiguo, c’è il futuro. Anche se parlare di futuro è sempre un po’ sciocco, ma è il modo di ragionare per non ripetersi. Comunque non ho centinaia di tracce pronte da cui scegliere, quanto piuttosto centinaia di semi da far germogliare: alcuni potrebbero già essere cose complete altri magari partono come un edit per un dj set e poi si evolvono in una traccia a sé per un disco. Poi magari un testo funziona meglio da un’altra parte, tutto può diventare qualcos’altro. Questo metodo mi rende più concentrato: crearmi dei giochini, darmi piccoli obiettivi. Far tutto questo toglie le pressioni di fare un album. Una canzone può fallire in qualcosa, ma evolversi in qualcos’altro.
Spesso la tua musica nasce come una traccia e poi viene recuperata altrove in qualche altro modo. Penso ad esempio a I.D.L. di Life Sim (uno dei tanti side project di A. G. Cook, ndr) – uscita nel 2015 – che diventa Track 10 di Charli XCX (da Pop 2, 2017). E la melodia e il testo di Track 10 che diventano Blame It On Your Love, di Charli e Lizzo (da Charli, 2019). Mi viene in mente anche Life of Pablo di Kanye West per cui Ye pubblica una prima versione online, per poi sostituirla con le stesse canzone a cui sono state fatte delle modifiche. La canzone così non è più cosa statica, ma un flusso. Cos’è per te una canzone?
Quello che mi piace della musica è che è sempre pronta a diventare qualcos’altro. Quando la ascoltiamo non vogliamo solo categorizzarla per genere o per aspettative, ma la stiamo costantemente confrontando con cosa ha significato per noi, con la biblioteca di tutto ciò che abbiamo sentito nella nostra vita. Ora che la musica non ha più la stessa finalità di quando veniva pubblicata su CD o vinile, ma è diventata qualcosa più simile ad un allegato di una mail, la canzone entra in una sorta di stato di flusso che, a suo modo, è un lusso perché possiamo continuare a modificarlo, come fosse un testo. La musica e la tecnologia sono interconnesse proprio perché interagiscono.
In Britpop possiamo sempre parlare di canzoni?
A volte per descrivere certe produzioni uso la parola canzone, altre la parola traccia (quando mi riferiscono alle strumentali). Sono consapevole di questo, soprattutto nella divisione dell’album: nel disco uno ci sono tracce di musica elettronica e nel due ci sono le canzoni con i testi. Mi piace possa essere una distinzione ma naturalmente questi confini non sono sempre così precisi. La prima traccia del disco due si chiama Serenade e passa da essere una canzone ad essere una traccia. E poi ci sono alcune delle tracce che tendono ad essere canzoni.
Tipo la title track con Charli XCX.
Sì, lì Charli ripete in loop la parola Britpop come una specie di un mantra. Non è né un campione vocale né un hook, per questo penso che sia cruciale che la voce sia quella di Charlie perché, sai, siamo così abituati ad ascoltarla in questi hook che anche solo sentirla ripetere la stessa parola ha la qualità epica di un ritornello pop.
Tu e Charli state portando avanti una lunga collaborazione che continuerà anche quest’anno nei vostri rispettivi album (Brat di Charli è previsto per 7 giugno). Poche settimane fa inoltre ti ha ospitato nella sua Boiler Room (oltre a citarti nel singolo Club Classics che hai co-prodotto). Come è il vostro rapporto?
Charlie è unica, un’autrice pazzesca, sia a livello melodico che testuale, un’artigiana del songwriting. È una che scrive e nel mentre pensa a come dovrebbe essere il video. È una nerd. Ama esibirsi, fare concerti, ma ha qualcosa dentro che la spinge sempre ad andare avanti, una sorta di voce interna, un’ossessiva voglia di mettere tutto in discussione. E questo ci accomuna. Insieme siamo passati attraverso una serie di ere, di cicli di suoi album; è stato come un viaggio nella sua personalità artistica e in tutto l’interesse che circonda il suo mondo che è quasi una sottocultura, mi verrebbe da dire. Abbiamo differenti fan base, ma che si intersecano molto spesso. Insieme abbiamo fatto una marea di cose, in modo naturale, senza pensarci troppo. Spesso con molta ironia. Assieme siamo nel nostro elemento. Non sono molti gli artisti che possono considerarsi popstar e allo stesso tempo avere un interesse così profondo per certe cose.
A tal proposito mi ricordo una tua vecchia intervista in cui dicevi che quelli del pop ti consideravano troppo sperimentale e quelli della musica sperimentale troppo pop. È ancora così?
Sì, ma mi trovo molto bene in quella posizione, penso sia perfetta per me. Mi piace poter essere potenzialmente catchy mentre faccio qualcosa di più legato al sound design e trovo interessante poter essere potenzialmente sperimentale ma comunque accessibile mentre faccio pop.
Cosa ti affascina nella produzione o nella scrittura di un brano?
Sono interessato alle aree grigie delle canzoni perché credo sia molto più semplice giocare con certe ambiguità piuttosto che ignorarle.
Ritornando all’ironia, anche il titolo del tuo disco, Britpop, mi pare vada in quella direzione visto che – chiaramente – non parliamo di un album britpop. E tu stesso hai detto: «I miei ricordi dell’era del Britpop sono mischiati con altre cose piuttosto britanniche in una linea ideale che unisce Geri Halliwell vestita con la Union Jack a Tony Blair e ai Teletubbies». Aggiungiamoci che, inoltri, ora vivi negli States, ben lontano dalla cool Britannia.
Nella realtà alternativa in cui vivo ancora in Regno Unito non avrai mai chiamato un album Britpop. Ma ora posso perché c’è questa distanza che mi permette di mettere in prospettiva certi nostri lati culturali, questa eccentricità britannica, vera o performativa che sia. Inoltre è anche una citazione di Damon Albarn che ha iniziato davvero a pensare al britpop in risposta ad un tour negli Stati Uniti nel ‘92 in cui si sentiva alienato. E se ci pensi è piuttosto divertente che la mia citazione arrivi dopo l’ultimo Coachella in cui lo stesso Albarn si è incazzato con il pubblico che non cantava Girls & Boys.
Ci vedi tanta differenza tra fare musica a Los Angeles o a Londra?
L.A. per chi fa musica è un posto con una mentalità davvero aperta. C’è proprio la sensazione che generi diversi possano mescolarsi, che tutto possa accadere. Ci sono artisti underground che fanno robe mainstream e viceversa. La mentalità inglese in cui sono cresciuto è molto differente. C’è sicuramente una mentalità aperta, ma alla fine ognuno sta nel proprio percorso, nella propria scatola. C’è una sorta di blando conservatorismo, ma credo sia una mentalità diffusa in tutta Europa proprio a casa della sua storia, dei suoi confini. Quindi volevo prendere tutto il genio e l’inventiva inglese ma applicarla negli States dove non ci sono confini sul tema, su mainstream o non mainstream. Non è un caso, credo, che io e Charli ci siamo ritrovati qui.
L’anno scorso, a sorpresa, hai annunciato la fine della Pc Music, la tua etichetta e collettivo che negli ultimi 10 anni ha davvero rivoluzionato il pop (pensiamo a te e Charlie, a Sophie, a Danny L Harle che ha appena finito di produrre il nuovo di Dua Lipa dopo aver curato l’album di Caroline Polachek). Perché questo annuncio, perché ora?
Mi sento ancora molto nel modo di pensare della PC Music, non è che ho improvvisamente iniziato a fare musica diversa. Ma sai, un’etichetta di solito non ha vera e propria fine, un momento specifico nel tempo dove poter fare una dichiarazione. Solitamente vengono vendute, accorpate, o semplicemente dimenticate fino a che il loro sito non viene più rinnovato dal provider e i loro vinili non costano una fortuna su eBay. Penso che la cultura attorno alla Pc Music invece sia ancora molto viva e che tanti artisti stiano facendo lavori e collaborazioni interessanti. Dandole una forma, o riconoscendo questo decennio dicendo “guarda, non stiamo facendo nuova musica, ma altre cose, come pubblicare materiale d’archivio”, penso che questo faccia sì che il pubblico possa pensare “hanno fatto cose all’avanguardia per 10 anni, è pazzesco” piuttosto che “erano davvero avanti poi non più”. Ammetto che mentre ci avvicinavamo all’anniversario dei 10 anni (lo scorso autunno, ndr) ero abbastanza sorpreso che la Pc Music fosse ancora così rilevante.
E quindi niente più nuova musica, ma piuttosto pubblicazioni di materiale d’archivio. Come ci spieghi questa scelta invece?
Volevo prendermi la responsabilità dei primi lavori dell’etichetta, alcuni dei quali pubblicati solo so SoundCloud o YouTube nell’era pre e post-streaming, e ripubblicarli. PC Music è sempre stata molto nel presente e le canzoni pubblicate sono molto definite da tutti i cambiamenti e da come è cambiato il nostro uso di internet. Quindi penso che pubblicare questo materiale d’archivio abbia più significato rispetto a far continuare la label all’infinito. E comunque io sto continuando a lavorare con le stesse persone di quei tempi, e sto pubblicando un album che onora quel periodo. Non è che non volevo parlarne. Mi sento ancora il custode di questa specie di collettivo e penso che avere un momento in cui poter fare questo genere di dichiarazione dia un certo potere.
Con PC Music avete creato una sorta di libreria di suoni, file, stems comuni tra voi artisti, ma spesso anche aperta anche alla vostra community, sempre molto presente, soprattutto online. Non è poi un caso che molti vostri fan siano diventati negli anni degli artisti della label.
Mi piace che sia stato molto facile per noi coinvolgere il nostro pubblico a partecipare a cose divertenti o a perdersi in qualche rabbit hole online e penso che la musica stessa, sia che si tratti di collaborator, artisti affiliati o semplicemente altre persone che fanno parte di questa sorta di sottocultura estesa, sia una musica molto artigianale. Puoi sempre sentire l’impronta dell’artista o del produttore, qualcosa che faccia pensare “questa persona ha chiaramente fatto uno sforzo per arrivare a questo punto nella traccia affinché accada questa cosa”. Ci sono elementi che come ascoltatore ti fanno sentire compreso. È come trovare un segnale alieno e dire “qualcuno mi sta parlando”.
Mi fai un esempio di una volta che ti è successo?
Quando ho sentito per la prima volta alcuni estratti di Sophie su SoundCloud, prima che ci conoscessimo. C’era così tanta attenzione nella produzione ed era qualcosa di così diverso ma così accessibile per me che sembrava che i testi fossero rivolti a me parola per parola. Questo non capita però nella musica che si suona come sottofondo di un ristorante, giusto per fare un esempio, ma si tratta di musica che vuole essere in dialogo, che vuole essere ascoltata, che sta comunicando.
In Britpop c’è un brano dedicato a Sophie, Without. Sarà una delle tre canzoni dedicate a lei che usciranno quest’anno, dopo Sweetest Fruit di St. Vincent e quella attesa nel nuovo album di Charli (ma eseguita live qui). È una particolare coincidenza che arrivino tutte a tre anni dalla sua morte.
Naturalmente non posso parlare per Charli o St. Vincent, ma posso dirti che Without è specificatamente dedicata al processare la perdita di Sophie. Ero in Montana quando scrissi un epitaffio molto lungo per Sophie (ai tempi mi sembrò di metterci una vita per scriverlo). Quando accadono certe cose se ne parla molto, ma per me è stato difficile comprendere, mi sembrava ci fossero troppi layer da gestire. Volevo far qualcosa che le rendesse giustizia. Without non è una canzone che descrive Sophie, quello sarebbe stato troppo complesso. Ho scritto questa canzone molto velocemente qualche anno fa, era un tentativo di trovare una risposta ad una domanda immensa in un momento della vita dove avevo bisogno di quella risposta in modo immediato.
Tra l’altro in Without c’è una citazione diretta a Bip, uno dei primi lavori di Sophie, probabilmente tra quelli che citavi prima.
Non è stato intenzionale. Ma quando mi sono reso conto che Without aveva la stessa progressione armonica ho deciso di metterci un omaggio nell’outro. Bip, come avevi intuito, è la sua prima traccia che ho ascoltato. Credo che molte canzoni più elettroniche del mio album debbano molto a lei, ne sono a loro modo connesse. È come se fossi ancora in un continuo dialogo musicale con lei. Ha avuto un impatto così grande, non solo in quel brano, non solo nella mia musica, ma nel mio modo di pensare.
Ti chiedo un’ultima cosa. Ho letto che tu e il tuo compagno di venture Finn Keane aka Easyfun (membro di Pc Music che con A. G. condivide il gruppo Thy Slaughter, ndr) state pensando di scrivere una specie di saggio intitolato “Come la musica ha rovinato la musica”. Mi spieghi di che tratta?
Sì, è un progetto di me e Finn. Siamo entrambi laureati in musica, seppur con studi molto diversi e ci ha sempre fatto ridere che ogni innovazione tecnologica arrivata nella musica sia sempre stata seguita da frasi catastrofiche tipo ‘questo rovinerà la musica’. Possiamo addirittura partire dal teatro greco, in cui si lamentava ci fossero troppi intervalli, per dire. O il temperamento, la musica sacra verso quella laica, la scala a 12 toni, ma anche le colonne sonore, Napster, lo streaming. La musica pop. Ogni innovazione porta un disagio quando viene adottata. Oggi si potrebbe citare il discorso attorno all’autotune o alla AI, sarebbero ottimi esempi. E a me e a Finn ci fa ridere l’idea di scrivere un compendio, con molti esempi e solo una breve analisi di tutto questo, di come la musica rovini la musica. E di tutti quelli che continuano a ripetere: “Questi innovazione ucciderà la musica”.