“A cosa stai pensando?”. A niente, giuro. O, forse, a tutto quello che resta. E a lei, sì, a chi altro? A una ragazza che guarda l’orizzonte e che ha sempre la risposta pronta. “Bella e indimenticabile” come una città dove è “impossibile essere felici”. Come un film dove puoi sentire l’odore del mare ma anche quello degli amori morti, attraversare gli anni, tra una fuga e un ritorno, senza tradire te stesso, toccare con mano le meraviglie e gli orrori e lasciarti abbracciare, cingere, accarezzare, da loro.
È un bellissimo film sulla bellezza, Parthenope. E sul desiderio, sul dolore. E sul mistero. Quello che, inevitabilmente, siamo. E quello che ci portiamo dentro e nemmeno noi sappiamo decifrare. Un grande racconto antinarrativo che parte dal 1950 e arriva fino ai giorni nostri lasciando però la Storia sullo sfondo, in attesa, e procede invece per suggestioni, per idee, per momenti di straziante, abbagliante poesia, il nuovo film di Paolo Sorrentino: che va molto al di là dell’appassionato ritratto di una donna libera per farne invece (dopo È stata la mano di Dio, di cui questo potrebbe anche considerarsi una sorta di, “fiabesco”, controcampo femminile) un affresco sulla giovinezza, l’età del corpo e degli ideali, quell’illusoria eternità che non puoi dimenticare, in qualche modo, in qualche posto, di avere vissuto.
Affascinante spesso in modo irresistibile, Parthenope, unico italiano in concorso a Cannes salutato da una standing ovation di dieci minuti ieri notte e già venduto in tutto il mondo. Più che la falsa biografia, sposa il racconto “magico” nel seguire le orme, inconfondibili, di una ragazza che come la sua Napoli, la città dove l’irrilevante e il decisivo si confondono, non si vergogna di nulla e vive di emozioni, di passioni forti, di scelte e di rinunce che costano tutte, le une come le altre, qualcosa.
L’armatore Achille Lauro, il colera, la camorra, San Gennaro, il Napoli campione: con i suoi ralenti morbidissimi, i suoi lenti, “affettuosi” movimenti di macchina che creano un incantamento, i primissimi piani che spaccano il cuore, Sorrentino (benissimo coadiuvato come al solito dal montaggio “sentimentale” di Cristiano Travaglioli) si tuffa all’indietro sulle note del Bolero nella nostalgia (anzi, nel sogno) di un momento magnifico, terribile e perduto, espandendo la sua idea di cinema e di “grazia” agli amori e agli incontri di una protagonista che sopravvive alla sua stessa (grande) bellezza (l’absolute beginner Celeste Dalla Porta, milanese, nipote del fotografo Ugo Mulas: una scoperta assoluta), in un implacabile processo di seduzione a cui lecito, oltre che giusto e necessario, abbandonarsi.
Poi è vero, il regista delle Conseguenze dell’amore a volte si specchia un po’ troppo, rischia che qualcuno scambi il coraggio della sua vertigine per un manifesto estetizzante, qualcosina, nella seconda parte, risulta stonato o superfluo. Eppure, complice anche un cast che aderisce completamente alle intenzioni dell’autore (da un misurato, calibratissimo Silvio Orlando a una malinconica Stefania Sandrelli, da un intenso Dario Aita a un decadente Gary Oldman), Sorrentino riesce a restituire il senso di un viaggio (dall’adolescenza all’età adulta) che ci appartiene all’interno di una città che è tutto e il suo contrario, legandoci a un avventuroso e struggente percorso per immagini che ci fa sentire meno soli, meno sconfitti. A cosa stai pensando? Alla vita, che è immensa, sconfinata, enorme. “Ti ci perdi dappertutto”.