È successo venerdì scorso: tutte le date, una trentina circa, della parte nordamericana dell’International Players Tour dei Black Keys sono sparite senza alcuna spiegazione dalla pagina ufficiale, dai social del gruppo, dalla piattaforma del colosso del ticketing Ticketmaster. Si trattava di un tour nei palazzetti, con partenza il 17 settembre da Tulsa, Oklahoma. La band è reduce dalla pubblicazione dell’album Ohio Players e da una tournée di dimensioni più ridotte in Europa.
Una prima spiegazione, benché vaga, è stata fornita da Dan Auerbach e Patrick Carney dopo due giorni di congetture. «La band vuole rassicurare tutti quanti che Dan e Pat stanno bene», si legge in un post Instagram pubblicato ieri sera.
«Dopo la recente serie di concerti nel Regno Unito e in Europa, che hanno incluso tappe in luoghi iconici come la Brixton Academy e lo Zenith di Parigi, abbiamo deciso di apportare alcune modifiche alla parte nordamericana dell’International Players Tour. Ci permetteranno di offrire un’esperienza altrettanto emozionante e intima sia per i fan che per la band. Annunceremo a breve una nuova serie di date».
Seguono la rassicurazione che «tutti saranno completamente rimborsati», il ringraziamento «per la comprensione» e le scuse per il cambiamento a sorpresa. «Siamo sicuri che saranno tutti entusiasti di vedere quel che abbiamo in mente, e ci auguriamo di vedervi presto».
In altre parole: abbiamo fatto concerti in posti piccoli in Europa, e non nelle grandi arene, e ci è piaciuto a tal punto da voler ripetere l’esperienza negli Stati Uniti, vedrete che spasso sarà.
Non tutti però l’hanno interpretata in questo modo. Per alcuni, i Black Keys sarebbero un gruppo in crisi e non più in grado di riempire i palazzetti. Ohio Players è stato accolto da recensioni per lo più positive, ma per usare un eufemismo non è uno dei casi commerciali dell’anno. Negli Stati Uniti è entrato al numero 26 della classifica degli album ed è sparito dalla top 200 già la settimana seguente. Ai tempi d’oro, Brothers del 2010 era rimasto 145 settimane in classifica, El Camino 100 settimane. Turn Blue di dieci anni fa “solo” 31 settimane, che sono comunque quasi otto mesi, ma era arrivato al numero uno. L’album precedente del gruppo è Dropout Boogie ed è rimasto solo due settimane in classifica, arrivando però alla posizione numero 8.
Prima che le date venissero cancellate, un utente di X ha screenshottato la mappa della CFG Bank Arena di Baltimora presente sul sito di Ticketmaster che mostra gran parte dei biglietti invenduti.
Tutte le band vivono cicli che comprendono alti e bassi. Quella dei Black Keys sarebbe perciò una storia comune a molti gruppi un tempo popolari che non incontrano più il gusto del grande pubblico e tornano sui proprio passi dopo avere organizzato per azzardo un tour nei palazzetti.
Per alcuni, però, i Black Keys potrebbero essere vittime della corsa al rialzo dei prezzi dei biglietti a cui si è assistito negli ultimi anni, specialmente negli Stati Uniti. Gruppi di media grandezza faticherebbero a riempire i palasport a prezzi che prevedono per 100 e passa dollari per i posti nelle sezioni più alte dei palazzetti e degli stadi che in America chiamano nosebleed. La cosa ovviamente si farebbe sentire di più nei concerti di band non più di moda per i quali, come scrive un utente su Reddit, «nessuno ha più voglia di spendere 250 dollari per un biglietto, 15 dollari per una birra e magari 70 per una maglietta». E parcheggiare sborsando 80 dollari.
È vero che le grandi star come Taylor Swift, Beyoncé e altre non hanno alcun problema a riempire gli stadi a prezzi anche incredibilmente alti, ma il loro successo oscurerebbe il reale stato del mercato diviso drammaticamente in due: da una parte le superstar per le quali il pubblico è disposto a spendere centinaia se non migliaia di euro per un singolo concerto, o un’esperienza come si usa dire oggi, dall’altra i musicisti meno di moda per i quali ci si pensa due volte ad acquistare un biglietto a 200 o a 100 dollari.
La propensione alla spesa dei cosiddetti superfan ha contribuito secondo alcuni alla corsa al rialzo dei prezzi dei biglietti, oltre a far prosperare le esperienze vip, con gente che sborsa 2000 dollari per una foto col proprio idolo, ma non ne spenderebbe mai 50 per andare a vedere una nuova band. Negli Stati Uniti c’è poi il dynamic pricing che permette di aggiustare i prezzi in corso di vendita in base alla domanda. I meccanismi di prevendita in cui i fan sono chiamati a reagire con prontezza e in massa al lancio di tour che si terranno dopo un anno servono anche a misurare l’interesse e quindi a modulare i prezzi. Senza dimenticare l’esistenza di piattaforme di secondary ticketing che secondo alcuni hanno “educato” gli utenti a considerare normali cifre esorbitanti.
I prezzi che una volta praticavano i bagarini prima di concerti attesissimi e sold out sono diventati in alcuni casi la norma. Il ragionamento di molti artisti e promoter è: perché se un fan è disposto a pagare un biglietto 400 euro deve guadagnarci un bagarino e non noi che il concerto lo facciamo e lo organizziamo? Questa pratica ha diviso il pubblico tra chi pensa che sia una cosa scandalosa, una minoranza che la vede come un’opportunità per tornare a vedere gruppi più piccoli a prezzi contenuti (cosa che volenti o nolenti probabilmente succederà coi Black Keys) e chi vorrebbe lasciare la definizione del prezzo al mercato: se c’è qualcuno disposto a spendere 300 euro per un biglietto su un prato, significa che il prezzo non è troppo alto, ma è giusto.
Live Nation-Ticketmaster has illegally monopolized markets across the live concert industry in the U.S. for far too long.
Today’s announcement makes clear it is time to break it up. pic.twitter.com/2zLUKVeLYK
— U.S. Department of Justice (@TheJusticeDept) May 23, 2024
Intanto, negli Stati Uniti dopo un’indagine durata due anni, il Dipartimento di Giustizia ha chiesto che il colosso dei concerti Live Nation, il più grande al mondo, si divida da Ticketmaster, il servizio di ticketing col quale si è fuso nel 2010. Motivo della causa: Live Nation controlla l’80% del mercato americano. Tramite accordi di vario tipo, che vanno dalla vendita del merchandise ai parcheggi, le venue non avrebbero di fatto accesso ad alternative più economiche e sarebbero legate loro malgrado a Live Nation e Ticketmaster.
Secondo l’attorney general Merrick Garland è una «condotta anti-competitiva e illegale». Il suo vice Jonathan Kanter afferma che «il mercato della musica dal vivo in America non funziona a causa del monopolio illegale di Live Nation-Ticketmaster». La causa in corso mira a spezzare tale monopolio, «ripristinando la concorrenza a vantaggio di fan e artisti».
Potrebbe aprirsi ora una disputa legale lunga anni. Live Nation ribatte che la fusione con Ticketmaster non ha avuto effetti sulla concorrenza, che sarebbe più viva che mai, e che il prezzo dei biglietti non viene stabilito da loro, ma dagli artisti a fronte di una domanda molto alta da parte dei consumatori che sono disposti a spendere cifre notevoli sul mercato secondario, oltre che dall’aumento dei costi di produzione.
Del ruolo degli artisti si è molto parlato dopo che le polemiche per il meccanismo di dynamic pricing usato per vendere i biglietti di Bruce Springsteen negli Stati Uniti e dopo le dichiarazioni rilasciate dal musicista a Rolling Stone. «Io, molto semplicemente, dico al mio staff: “Andate a vedere cosa fanno tutti gli altri. Noi faremo pagare un po’ meno”. Di solito è questa la linea. Si informano e fissano il prezzo», ha detto Springsteen. «Negli ultimi 49 anni o quasi abbiamo girato sottocosto e mi è piaciuto farlo. È stato bellissimo per i fan. Ma questa volta ho detto ai miei: “Ehi, ho 73 anni. Stavolta voglio fare come gli altri, i miei pari”. Ed ecco come è andata: mi hanno dato ascolto (ride)».
«Oggi il mercato dei biglietti è complesso non solo per i fan ma anche per gli artisti», ha detto ancora Springsteen, spiegando il suo punto di vista. «Il discorso di base è che la maggior parte dei nostri biglietti sono abbordabilissimi. Poi, però, ce ne sono altri che raggiungono comunque prezzi altissimi. E quei soldi finiscono nelle mani di rivenditori e intermediari. E allora mi domando: “Perché quel denaro non va a chi sarà sul palco a sudare per tre ore a sera?”». E ancora: «Non è bello essere criticati e di sicuro non è bello diventare il simbolo del fenomeno dei prezzi alti dei biglietti. È l’ultima cosa che vorrei, ma è andata così. Devi prenderti la responsabilità delle tue scelte e continuare a fare del tuo meglio. È così che la prendo. E penso che chi verrà ai concerti si divertirà».
Uno dei punti dolenti negli Stati Uniti è quello delle commissioni altissime. Secondo Live Nation, le fees che hanno scatenato l’ira dei fan non vengono trattenute dalla multinazionale. Secondo l’indagine, invece, il colosso ha interessi economici anche nei soggetti beneficiari delle commissioni.
In un altro punto dell’indagine si parla del patto che Live Nation avrebbe stretto con Oak View Group, la società dell’ex capo di Live Nation Irving Azoff che gestisce impianti dove si svolgono i concerti. Scopo dell’accordo: avere meno concorrenza nell’uso delle arene per gli spettacoli. Non solo, Live Nation avrebbe messo in atto ritorsioni nei confronti dei palazzetti che intendevano usare altri sistemi di ticketing al posto di Ticketmaster, legandoli inoltre con contratti a lunga scadenza per evitare la concorrenza.
In pratica, con la loro forza congiunta e con le acquisizioni fatte negli anni, Live Nation e Ticketmaster avrebbero creato un sistema chiuso in cui altri soggetti sono esclusi. A farne le spese per il Dipartimento di Giustizia è la concorrenza e quindi i promoter più piccoli, i locali e gli spettatori che dovrebbero essere messi nelle condizioni di fare scelte migliori a prezzi più bassi.