Nell’estate del 2005 Steve DiStanislao credeva d’aver raggiunto il picco della carriera. Dopo anni passati a cercare di vivere del mestiere di batterista, aveva finalmente un ingaggio stabile con David Crosby ed era nel bel mezzo di un tour con Loggins and Messina. È stato allora che gli hanno detto che lo stava cercando David Gilmour per il suo primo tour post Pink Floyd e che l’avrebbe preso senza neanche fare un provino.
E così il batterista s’è trovato a girare il mondo con Gilmour, Richard Wright e altri musicisti del giro dei Pink Floyd. Quella band era in poche parole una versione dei Pink Floyd dell’epoca di A Momentary Lapse of Reason/Division Bell con DiStanislao al posto di Nick Mason. Ha poi suonato con Crosby, Stills & Nash nell’ultimo tour prima della separazione del 2015, con Don Felder, ancora in maniera stabile con Crosby. Ed è nell’album che Gilmour pubblicherà a settembre Luck and Strange (l’intervista è stata condotta prima che si sapesse del disco e che alla batteria in tour ci sarà Adam Betts, ndr).
«È pazzesco», dice Steve. «Mai nella vita avrei pensato di suonare con gente del genere. Sono fuori scala rispetto a me. Sono un uomo fortunato».
Negli anni ’70 seguivi i Pink Floyd?
Li conoscevo, forse il primo loro singolo che ho sentito è stato Money, un amico aveva il 45 giri. E quando alle elementari stavo in una band, un altro amico aveva Animals. L’ho sentito e onestamente non l’ho capito. Lo trovavo strano.
Com’è che hai incontrato David Gimour e hai avuto il posto di batterista?
Per puro caso. Suonavo con Crosby & Nash alla Royal Festival Hall di Londra, un gran bel concerto. David Gilmour era lì, e pure John Paul Jones che ho conosciuto quel giorno. Ho incontrato David nel backstage, è stato molto gentile, ma per me era finita lì. E invece quand’ero in tour con Loggins and Messina mi chiama Crosby e mi dice che Gilmour mi sta cercando. Cosa?! Lo sento e mi dice che mi vuole in tour.
Senza neanche fare un provino?
Senza.
Che hai pensato?
Non sapevo che pensare, onestamente. All’inizio l’ho trovata una cosa folle, ma ero euforico, elettrizzato.
Immagino tu abbia dovuto studiare un bel po’ di materiale prima delle prove.
Eh sì. Stranamente non mi hanno dato una set list o qualcosa del genere e io non volevo far la figura di quello che chiede: «Ehi, cosa facciamo?». Lui aveva un disco nuovo in uscita, On an Island, avevo sentito solo il singolo in radio. Ci cantavano Crosby e Nash, insomma, c’era una sorta di famigliarità. Ero al posto giusto al momento giusto.
Ho preso un po’ di pezzi di David, li ho messi su un CD e me lo sono sentito andando in giro in auto, per assorbire la sua musica. Teoricamente dovevano mandarmi l’album che sarebbe uscito, ma non l’hanno fatto anche se avremmo suonato un po’ di pezzi tratti dal disco. Ho preso appunti e ho cercato di prepararmi al meglio alle prove che abbiamo fatto in campagna. Non conoscevo nessuno. Continuavo a pensare che mi avrebbero rispedito a casa nel giro di una settimana e invece è andata alla grande. E quando finalmente m’hanno dato l’album me lo sono studiato e ho imparato le mie parti.
In quella band si conoscevano tutti. In alcuni casi, suonavano assieme da decenni. Un po’ di paura devi averla avuta entrando lì e trovandoti di fronte a leggende come Phil Manzanera.
Come no, ma sono stati molto accoglienti.
Mentre imparavi le parti, hai apprezzato di più l’apporto di Nick Mason nei Pink Floyd?
Assolutamente sì. Il risultato finale è la somma delle parti: elimina uno di loro dall’equazione e la musica sarà diversa. In ogni caso, non volevo imitarlo, non potevo imitarlo, potevo però rendere onore al suo lavoro.
Com’era Richard Wright? Molti fan dei Pink Floyd lo considerano un tipo misterioso…
Molto dolce. E credo anche sottovalutato alla luce del talento che ha e del suo background jazz, che è poi la cosa grazie alla quale abbiamo legato. Alle prove era un po’ distante e sulle sue, forse perché era un bel pezzo che non suonava. Dopo tre cene con lui, abbiamo rotto il ghiaccio parlando di Miles Davis e Thelonious Monk. Quando ne parlava gli si illuminava il viso. Andavamo d’accordo. L’ho visto uscire dal suo guscio, in un certo senso. Mi manca. Era un bel tipo. A un certo punto si è pure parlato di registrare qualcosa assieme.
Dov’è che avete fatto il primo concerto? Al Mermaid Theater, in Inghilterra?
Era un evento privato per il sessantesimo compleanno di Dave. I concerti sono andati bene fin dal principio, ma andando avanti sono migliorati. Stavo ancora cercando di trovare la mia collocazione.
E quando Dave ha chiamato Crosby e Nash per Shine on You Crazy Diamond e On an Island, in un certo senso è stata l’unione dei tuoi due mondi…
Mi ha dato un senso di conforto, come se ci fosse stato mio padre lì con me o qualcosa del genere. È stato rassicurante avere David e Graham lì con noi.
Raccontami del giorno in cui David Bowie ha cantato con voi Arnold Layne e Comfortably Numb. È stata una delle sue ultime esibizioni in pubblico.
Eh beh, ricordo che quand’è arrivato è stato come se l’aria fosse stata risucchiata via. C’erano Graham, David Gilmour e Robert Wyatt, tutti i grandi. E poi è arrivato Bowie ed è stato come l’avvento di un messia. È stato surreale, eravamo tutti euforici. E lui è stato dolce, ha fatto un gran lavoro. Quando ha aperto bocca e ha iniziato a cantare “Hello, is there anybody in there…”, ho pensato: wow, eccola, ecco quella voce.
Richard Wright aveva interpretato quella parte per tutto il tour. Guy Pratt m’ha detto che era un po’ riluttante a cederla a Bowie.
Vero. Diceva cose tipo: «No, aspetta un attimo, quella parte è mia». È stato divertente.
Possiamo dire che quella sera ha completato la trilogia dei tre David.
Sì, ho fatto il 3D.
L’ultimo concerto è stato a Danzica, in Polonia. Richard Wright non ha più suonato fino all’anno successivo, al tributo a Syd Barrett. Com’è andata in Polonia?
È stato incredibile. La cosa migliore è stata sentire l’emozione del pubblico. C’era un mare di gente. Per permettere a tutti di vedere il concerto c’erano gru giganti da cui pendevano schermi altrettanto enormi. La foto di copertina del disco dal vivo rende l’idea.
Dopo il tour di On an Island Gilmour è scomparso, sembrava che avesse chiuso con la musica. Mi dici cos’è successo quando ti ha richiamato per Rattle That Lock?
Non molto tempo dopo il tour di On an Island, David mi chiama e mi chiede se mi va di andare da lui, nel suo barn, a fare una piccola jam. Credo che l’intenzione fosse quella di scrivere ancora più musica con Rick, che però è morto nel 2008 e quindi non ce n’è stata l’occasione. È stato comunque registrato un po’ di materiale, il che è fantastico. Suppergiù nel 2013 sono tornato da David per registrare qualcosa con lui ed è così che è ripartito tutto. Abbiamo fatto un paio di giorni di registrazioni e poi lui ha messo assieme l’album.
Il tour del 2015/16 dev’essere stato diverso per te, non eri più l’ultimo arrivato.
Esatto. Ma anche la band era diversa. Nel primo tour c’erano Rick e il sassofonista Dick Parry, era un po’ come suonare coi Pink Floyd. In quest’altro tour i musicisti erano diversi, il che è stato bello, ma non era la stessa cosa. Abbiamo fatto Money e altri pezzi che non avevamo fatto prima. David suonava l’album nuovo da cima a fondo e nella seconda metà vari successi.
Suonare a Pompei dev’essere stata una grande esperienza. È stato come fare un salto indietro nel tempo, tornare a quel film…
È stato incredibile, pensa anche solo al luogo di per sé, le rovine, la storia. Il palco era più spoglio del solito per questione di spazio. Il teatro è più piccolo di quanto si pensa, non è un posto gigantesco anche se sembra tale. Se vedi il DVD pare ci siano, non so, 200 mila persone, ma erano solo 1500. È sempre difficile capire quanta gente c’è giudicando dalle riprese.
Prima delle ultime due sezioni del tour, la band è cambiata di nuovo. Sono stati sostituiti quasi tutti i musicisti tratte te e Guy Pratt. Cos’è successo?
Onestamente non lo so. Credo che David volesse cambiare, che ci fossero altri musicisti con cui voleva lavorare. Non credo che dietro ci sia altro, comunque non gliel’ho chiesto. È uno a cui piace cambiare, mi pare.
È un bel segno di fiducia il fatto che ti abbia tenuto dopo aver liquidato quasi tutta la band.
Già. Mi sono detto: ok, cerca di non rovinare tutto. Sono grato per tutte queste opportunità. Mio padre era solito sparare un detto dietro l’altro. Uno era: il successo non è quando ti chiamano, è quando ti richiamano.
A un paio di quei concerti ha partecipato anche Nick Mason. Com’è stato?
Favoloso. Quando si è messo lì a suonare Comfortably Numb ho pensato: ok, ora sì che sono i Pink Floyd. È una questione di tocco, disensibilità. È stato come sentire Ringo o Bonham, capisci no cosa intendo?
Da Rolling Stone US.