Non c’è settimana in cui chicchessia non mi dica: “Ho visto il film della Cortellesi”. C’è ancora domani è uscito trentadue settimane fa, in qualche sala o rassegna si trova ancora, sta girando il mondo, ha fatto una vagonata di soldi, insomma sapete com’è andata. È uscito trentadue settimane fa e ancora se ne parla, la gente che l’ha perso lo vede adesso che è su Netflix e Sky/NOW, e il più delle volte la cosa si chiude con un: “Bah, mi aspettavo chissà che, e invece”. Perché così funziona sempre: a) tutti sanno fabbricare successi di questo tipo (successi d’immaginario ancor prima che di botteghino) più e meglio di chi li ha fatti per davvero; b) tutti vogliono stare nella famigerata conversazione, e se arrivi tardi – anche se di quel successo ancora si parla – be’, il momento è passato, e allora a che serve vedere le cose.
Il punto è questo: di che cinema si parla adesso? Cinema inteso come film e serie, perché se mo stiamo pure a fare le distinzioni, allora forse davvero non esiste più niente, non c’è domani per niente. Ogni tanto spunta un Baby Reindeer a rinvigorire il dibattito, ma anche lì diventa subito materia social, chi è la vera stalker e chi il molestatore, ma lo sai che la psicologa assomiglia tanto a quella là, eccetera. Lungi da me sperare in un mondo che discute dello specifico filmico (lo spauracchio mio e di Paolo Virzì) di qualsivoglia film o telefilm, ma mi pare che nulla attacchi più, non ragioniam di loro, ma guarda e passa.
Pure noi che di mestiere facciamo questo ormai guardiamo e passiamo, perché tutto da un pezzo s’è incasinato. So che questa è la stagione in cui nessuno o quasi al cinema ci va più, ma in cui, è il paradosso di ogni primavera/estate, in giro è pieno di bei film che, per ragioni di listini o di sa il diavolo cosa, nessuno vedrà. Mi vengono in mente un sacco di francesi, il bellissimo Chien de la casse di Jean-Baptiste Durand (a patto di trovarlo ancora), e Vincent deve morire di Stéphan Castang, Rosalie di Stéphanie Di Giusto, Il caso Goldman di Cédric Kahn, e poi I dannati di Minervini, Troppo azzurro di Filippo Barbagallo, Quell’estate con Irène di Carlo Sironi, e L’arte della gioia di Valeria Golino arrivato ora in sala prima di andare su Sky/NOW in autunno. Tutte cose molto belle che chissà chi sta vedendo, e scrivo da Milano, dove esce tutto e dove anche però il pubblico s’è assottigliato.
Poi vedo anche gli studenti di un’università di provincia che mi dicono “Noi volevamo vedere La chimera, e però non è uscito”, e alle presentazioni con gli autori le sale si riempiono per ragioni che non sono miracolose, e poi faccio le chiacchierate coi registi su Zoom prima del film che ti scrive la gente da Grosseto e da Pordenone perché da quelle parti i registi non ci passano mai; e tutto questo è perché quando una cosa succede lì è diverso, al di là di ogni retorica sull’esperienza della sala (altro spauracchio mio) non è il divano, che poi anche del divano ci siamo stufati, persino a Milano dove piove da quattro mesi, persino adesso che tesoro, mi si sono ristrette le serie!, ed era ora, ci sono sempre più prodotti da sei-sette puntate contro le dieci (e a volte anche più) di prima, e però non basta, è tutto troppo, e non ti ricordi niente. Una coppia di amici ogni maledetta domenica mi chiede “Cosa possiamo guardare stasera?”, e io puntualmente non so cosa consigliare, dimentico all’istante tutte le cose anche belle che ho appena visto.
Si spera in qualche titolo estivo (ma, almeno noi milanesi, anche nel sole, che lascerà la città desolata e figuriamoci le sale), anche perché gli analisti di settore sono preoccupatissimi, maggio è stato una tragedia, il peggiore post Covid, è andato male The Fall Guy e ora sta andando male Furiosa. E poi per fortuna arriverà Venezia, e in autunno usciranno i vari Joker e compagnia sbigliettante. E però credo anche che il cinema esisterà sempre, per chi aspetta le Cortellesi che verranno (spero saranno sempre di più) e per chi come noi si gode le Cortellesi e insieme continua quell’esercizio sempre più pazzo e segaiolo che è il cinema. L’altra sera ero con un gruppo di amici, insieme selezioniamo i titoli di un festivalino di corti (parlandone da vivi: dei festivalini e dei corti), e ci dicevamo quant’è bello Los colonos, una specie di Killers of the Flower Moon argentino che da noi sta su MUBI, e sembravamo dei carbonari, o dei tossici, e però Los colonos è bello davvero, se vi capita vedetelo, o se vi ricordate, tra le centomila cose che bisognerebbe vedere – io intanto mi ricorderò di dirlo agli amici della domenica.