In Palestina, ogni ricetta vuol dire “casa” | Rolling Stone Italia
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In Palestina, ogni ricetta vuol dire “casa”

Pubblichiamo un estratto di 'Pop Palestine. Viaggio nella cucina popolare palestinese', di Fidaa I A Abuhamdiya e Silvia Chiarantini, edito da Meltemi. Tra dolci al semolino, non-cous cous e melagrana, il cibo, a Gaza e oltre, racconta l'identità di un popolo e la sua voglia di futuro

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Foto: Alessandra Cinquemani

Le ricette di Majd
Sono nata nel 1989 a Jabalia, uno dei campi profughi più densamente popolati della Striscia di Gaza. Mio padre, che adesso è in pensione, ha lavorato come guardia per una scuola dell’UNRWA. Mia madre ha lavorato come infermiera in una clinica per più di 20 anni. Sono la maggiore di cinque fratelli, ho due sorelle e due fratelli. Essendo la più grande, ho sempre avuto un ruolo importante in famiglia e, per i miei genitori, sono stata anche un’amica, oltre che una figlia.

 

Avere una madre che lavora in infermieristica e un padre che è appassionato di sport, soprattutto jogging e nuoto, è stata una benedizione. Siamo cresciuti con buone abitudini, mangiando cibi sani e tanto pesce.

 

Mio padre ha sempre sostenuto che il pesce faccia bene ma, quando ero piccola, non l’apprezzavo del tutto e mi lamentavo perché lo si mangiava troppo spesso. È stato grazie a lui che ho imparato tutte le ricette di pesce della tradizione palestinese.

 

Ricordo che, quando ero bambina, sentivo mio padre alzarsi all’alba per andare a correre sulla spiaggia. Se la giornata era calda e il mare non troppo agitato, si buttava a fare una nuotata e, quando usciva dall’acqua, camminava sulla spiaggia per andare a guardare i pescatori che tiravano su le reti. Non riusciva mai a resistere alla vista di quel pesce fresco e ne acquistava sempre un po’. Quando rientrava a casa lo puliva e lo metteva a marinare con aglio schiacciato, peperoncino e limone per tutta la mattinata, così che fosse pronto per essere cucinato fritto o alla griglia per il pranzo, quando la mamma tornava dal lavoro. Era lei a occuparsi della spesa, perché la clinica in cui lavorava era vicino al mercato centrale del campo profughi, e se mancava qualcosa si fermava lei a prendere il necessario mentre tornava a casa per la pausa pranzo.

 

Quando arrivava, trovava già tutto pronto e ci potevamo sedere a tavola per rilassarci e mangiare tutti insieme.

 

I miei genitori hanno sempre condiviso tutti i lavori di casa e questo è un fatto abbastanza particolare in una società conservatrice come la nostra, che ha ruoli di genere molto ben definiti. Anche i miei fratelli maschi hanno preso esempio da loro e sono sempre stati molto collaborativi in famiglia.

 

La cena a casa mia è sempre stata un po’ diversa da quella che si fa nelle altre famiglie di Gaza che, tradizionalmente, mangiano falafel, hummus, foul e pane con olio d’oliva e za’atar. A casa mia si è sempre cercato di mangiare qualcosa di leggero, di solito ci riunivamo tutti intorno a un grande piatto di frutta e verdura, per non andare a letto appesantiti.

 

Adesso che sono sposata e che vivo con mio marito cerco comunque di mantenere le buone abitudini e le tradizioni della mia famiglia.

 

Il pasto più importante per noi palestinesi è quello del venerdì. È un pasto speciale, perché il venerdì è giorno di festa in Palestina, è il nostro weekend, un giorno bello perché ci ritroviamo tutti insieme a casa dei genitori e, finalmente, possiamo trascorrere del tempo con la famiglia e gli amici che ci fanno visita. Il venerdì comincia con un’abbondante colazione. Si mangiano pita, falafel, hummus e insalata, di quella che si usa fare con pomodori e cetrioli tagliati a quadratini piccoli. Il pollo e la carne sono ingredienti importanti per festeggiare il venerdì. Di solito, io e le mie sorelle prepariamo le insalate, mentre mia madre si occupa del piatto principale, che può essere riso con pollo oppure maftoul, musakhan o fatta. Il maftoul è il cous cous palestinese, cotto nel brodo di pollo e mangiato con zucca gialla, ceci e cipolla. Il musakhan è un piatto unico fatto con uno strato di pane sul quale si dispone del pollo arrostito e, a coprire tutto, cipolle caramellate e sommacco. Il fatta è un piatto tipico di Gaza a base di pane fritto, riso con burro chiarificato, carne arrostita e guarnito con pinoli tostati.

 

Nelle famiglie palestinesi, i momenti felici e di festa sono contraddistinti da alcuni piatti speciali e si seguono usanze tradizionali.

 

Ad esempio, quando mi sono sposata, lo scorso anno, ho trascorso il giorno prima del matrimonio a decorare mani e piedi con l’hennè, e dopo il tramonto abbiamo ricevuto a casa amici e parenti per aspettare insieme il giorno del felice evento. Mia madre aveva chiesto ai nostri parenti di preparare grandi quantità di summaghiya, un piatto a base di sommacco, bietole e carne, da servire agli ospiti durante la serata. La summaghiya si prepara in occasione di matrimoni e per la festa di fine Ramadan. La preparano tutte le famiglie palestinesi, dentro e fuori dalla Palestina. La tradizione vuole che il giorno del matrimonio uomini e donne festeggino separatamente. È compito della famiglia dello sposo occuparsi di organizzare il pranzo per la famiglia della sposa. Il giorno del mio matrimonio, la famiglia di mio marito ha ordinato decine di vassoi di riso e di carne e li ha fatti recapitare a casa nostra. Abbiamo cenato e poi cantato, suonato le percussioni e ballato fino a notte.

 

Nelle occasioni tristi, come ad esempio un funerale, è il profumo del caffè a segnare l’atmosfera. Alle persone che si recano alla casa del defunto, o come è tipico a Gaza, alla tenda del lutto, dove ci si riunisce in cerchio per ricordare e salutare i propri cari, viene solitamente offerto caffè amaro e qualche dattero secco.

 

Nella Striscia di Gaza si cucinano soprattutto i prodotti della nostra terra e del nostro mare, anche se l’assedio e le restrizioni ai valichi ci rendono sempre meno autosufficienti e sempre più dipendenti dai prodotti israeliani, che riempiono i nostri mercati. Viste le nostre precarie condizioni, può sembrare quasi ironico da dire, ma la terra di Gaza è fertile, il clima è adatto all’agricoltura e il mare è generoso di pesce. Quello che manca è il diritto e la libertà di sfruttare tutte queste risorse. L’embargo, i confini spesso inibiti al passaggio di merci e persone e le incursioni militari israeliane per mare e per terra non permettono alcuno sviluppo. Nonostante questo assedio soffocante e le sue conseguenze, il nostro popolo cerca sempre di sfidare e superare gli ostacoli imposti e di condurre una vita normale.

 

La zona intorno a Beit-Lahia è molto conosciuta per la coltivazione delle fragole. Un frutto che qui cresce bene, ha un sapore delizioso, ed è apprezzato dai Paesi arabi vicini e, apertura dei valichi permettendo, gli agricoltori riescono anche a fare delle piccole esportazioni. Il 45% dei terreni coltivabili è coperto da oliveti: l’olivo è il re della nostra terra. A fine ottobre, quando comincia la stagione della raccolta delle olive, la maggior parte delle famiglie si dedica a questa attività. Quasi tutti i palestinesi hanno almeno un albero di olivo piantato intorno alla loro casa. La mia famiglia ha raccolto una gran quantità di olive quest’anno. I miei genitori ne conservano la metà in salamoia nei barattoli, mentre il resto viene spremuto per fare l’olio d’oliva, che a Gaza è buonissimo. Molti terreni agricoli, anche nella buffer zone, la zona cuscinetto in prossimità del confine, sono coltivati a grano, che è fondamentale, non solo per la farina, ma anche per freekeh, burgul e duqqa, alimenti importanti nella nostra gastronomia. Anche la frutta cresce bene a Gaza: di guava, uva e datteri ce ne sono in quantità. Quando è stagione, le famiglie usano la frutta per fare composte e marmellate per l’inverno. Altri componenti fondamentali della cucina palestinese sono le foglie di vite, la mulukhiya e il pepe rosso. A Gaza ci sono anche allevamenti e riusciamo a produrre latte e yogurt.

 

Molti palestinesi di Gaza dipendono dal mare per il loro sostentamento, ma pescare è diventato sempre più difficile e pericoloso: si può morire andando a pescare. Secondo gli ultimi accordi tra Gaza e Israele, i pescatori sarebbero autorizzati a pescare entro sei miglia nautiche dalla costa, tuttavia, anche quando si trovano all’interno di questo limite, vengono spesso attaccati, arrestati e le loro barche confiscate. Questa quotidiana sfida di sopravvivenza ha spinto molti pescatori ad abbandonare la professione, con gravi conseguenze per le famiglie che si sostentavano grazie a quest’attività.

 

Anche gli agricoltori sono limitati nel loro lavoro dal controllo israeliano dei confini. Israele ha imposto una zona cuscinetto lungo il confine con la Striscia. Si tratta di una zona particolarmente fertile e profonda 300 metri che corre lungo il confine. Dal 2000, in questa zona non si può più coltivare e gli agricoltori hanno perso oltre 2.000 ettari di terreno. Dopo il cessate il fuoco del novembre 2012, Israele ha permesso ad alcuni agricoltori di tornare a lavorare le loro terre in quella zona, ma è sempre un’attività pericolosa e spesso ci sono attacchi e tragedie.

 

Nonostante tutto, a Gaza si vive e si cucina, ecco qua le mie ricette.
Sahtein, buon appetito, e benvenuti a Gaza!

*Majd è oggi una stimata giornalista e non abita più a Gaza. Nel novembre 2023 ha perso familiari, amici, vicini di casa e compagni di scuola. Le bombe lanciate su Jabalia hanno distrutto edifici che erano le abitazioni di centinaia di persone. Oggi, il quartiere dove è cresciuta Majd è un cumulo di macerie e crateri.

 

Maftoul, cous cous palestinese con verdure
Il maftoul, conosciuto anche come “cous cous palestinese”, si cucina con le verdure o con carne di pollo o di manzo. È un piatto che contraddistingue i momenti conviviali tra amici e parenti: a Gaza si prepara nei giorni di festa, come per il pranzo del venerdì, dopo la preghiera, ma anche in occasione di un lutto.

 

Si usa servire il maftoul su un grande vassoio, da cui i commensali, seduti intorno in cerchio, attingono con le mani, oppure aiutandosi con il pane pita, ma comunque senza utiizzare posate. La tradizione vuole che, per non disturbare gli altri, si attinga dalla parte più vicina a sé del vassoio, e che l’ospite abbia meticolosamente lavato le mani e tenga unghie corte e ben curate. Nel Corano e nella sunna – la raccolta degli hadit, ovvero “i detti e i fatti del profeta Muhammad” – si fanno anche riferimenti al comportamento da tenere durante un pasto: «Narrò Umar bin Abi Salama – sia soddisfatto Dio di Lui: ero ragazzo sotto la protezione del Profeta – Dio Lo benedica e Gli dia eterna salute – ed ero abituato a infilare la mia mano in tutte le parti del piatto mentre mangiavo. Così il Profeta – Dio Lo benedica e Gli dia eterna salute – mi disse: ‘Oh Ragazzo! Menziona il nome di Dio e mangia con la destra, oltre a mangiare ciò che vedi di fronte a te».

 

Il termine maftoul, in arabo, rimanda alla forma rotonda dei granelli e al movimento rotatorio della mano che si fa per formarli. Il maftoul non va confuso con il cous cous, da cui si differenzia per ingrediente base, forma e procedimento di lavorazione. Il cous cous è prodotto dalla lavorazione della semola, mentre il maftoul deriva dal grano spezzettato, il burgul. Si ottiene lavorando burgul, farina integrale e acqua, fino a ottenere dei granelli che, cotti a vapore, hanno una consistenza morbida e un sapore simile a quello della pasta. È un prodotto artigianale e pregiato. In Palestina esistono diverse cooperative di donne che producono maftoul. In Italia, lo si può acquistare nei negozi biologici o in quelli del commercio equo e solidale.

 

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Credits: Alessandra Cinquemani

Rummaniya, stufato di lenticchie e melanzane
La ricetta della rummaniya e quella della summaghiya sono particolarmente antiche, addirittura citate in quello che è considerato il primo testo di cucina araba: un manoscritto di poco più di cinquanta pagine, redatto a metà del 1200, ritrovato nel secolo scorso nella biblioteca di Aya Sofya a Istanbul e divenuto testo fondamentale della cucina araba del Medioevo. Dell’autore, Muhammad Al Baghdadi, si conosce ben poco, a parte il fatto che si dedicava alla scrittura e alla copiatura nella Bagdad del 1200, allora splendida città e luogo di ambientazione di tanti racconti de Le mille e una notte. Vi sono raccolte le indicazioni per preparare più di 150 piatti e, tra questi, c’è anche la rummaniya che, a parte la zucca e l’aggiunta della tahine, forse non diffusa nella Bagdad del 1200, è rimasta invariata e la sua caratteristica acidula data dalla melagrana sembra si sia conservata nei secoli. Per Majd la rummaniya è il piatto che segna la fine dell’estate, da preparare con ingredienti di stagione.

 

Per questa ricetta andrebbe usato un tipo di melagrana piccola, aspra e acidula, tipica della zona di Jaffa, ormai non più accessibile, ma i profughi hanno portato con sé l’abitudine di coltivarla.

 

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Credits: Alessandra Cinquemani

Summaghiya, bietole e carne stufate con sommacco
Il nome di questa ricetta deriva dall’ingrediente principale, il sommacco, un arbusto che cresce in tutto il Mediterraneo e i cui frutti vengono utilizzati in diverse ricette. Può essere adoperato fresco, come per la summaghiya, o come spezia che si ottiene essiccando e tritando i frutti. È di colore rosso scuro e di sapore intenso e acidulo.

 

La summaghiya viene preparata anche in occasione della festa di fine Ramadan, nei tre giorni di Eid al-Fitr, oppure in occasione della “festa del sacrificio”, l’Eil al-Adha. Ogni anno, nel mese di Thū I-hijja, dedicato al pellegrinaggio alla Mecca, i musulmani ricordano il giorno in cui Abramo ha sacrificato il montone. Il Signore gli aveva chiesto, come prova della sua fede, di uccidere il figlio Ismaele. Abramo, seppur con immenso dolore, aveva acconsentito, ma mentre stava per sferzare il colpo, al posto del figlio comparve un montone.

 

Per ricordare il sacrificio di Abramo, Ibrahim in arabo, in occasione dell’Eid al-Adha, i musulmani cucinano montone o pecora; a Gaza si accompagna la summaghiya, se possibile, con carne di montone, altrimenti con agnello o pollo. La summaghiya andrebbe preparata con un infuso di bacche intere di sommacco, ma se non si riescono a trovare, si potrà utilizzare sommacco in polvere.

 

Dagga gazawiyya, insalata di Gaza 
Questa insalata, che dal nome non lascia equivoci per la sua origine, è particolarmente piccante, profumata e condita con abbondante olio d’oliva. Si accompagna bene con quasi tutto: riso, carne e pesce. Ai gazawi piace il cibo piccante: il peperoncino viene conservato in salamoia e anche tritato e messo sott’olio, e si chiama shatta. Oltre al peperoncino, nelle cucine di Gaza non manca mai un mortaio di terra cotta. Ogni famiglia prepara questa ricetta a suo gusto.

 

Basbousa, dolce di semolino e cocco
Come molti dolci della cucina palestinese, anche la basbousa viene preparata utilizzando una gran quantità di zucchero che, si dice, sarebbe prova dell’antichità della ricetta. Un tempo, infatti, quando non esistevano frigoriferi, l’unico modo per conservare alcuni cibi in Paesi caratterizzati da un’inclemente calura era cucinarli utilizzando molto zucchero. Conosciuta in quasi tutto il mondo arabo, la basbousa è molto facile da preparare e, nonostante la quantità di zucchero dello sciroppo, non risulterà affatto stucchevole.

 

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Credits: Alessandra Cinquemani

Ruz bi haleeb, budino di riso e latte
Esistono diverse ricette arabe per preparare budini a base di latte. Hanno nomi diversi a seconda della consistenza o dell’aggiunta di riso o di particolari spezie. Ad esempio, il muhallabieh è fatto solo con il latte, ha una consistenza compatta e viene aromatizzato con acqua di fiori d’arancio o di rosa; il salep o saleb è una bevanda calda preparata, oltre che con il latte, con una particolare farina ottenuta dalla macinatura dei tuberi di orchidea, e guarnita con cannella, uvetta, pinoli o cocco. Quello che piace a Majd è il ruz bi haleeb, che qualcuno chiama anche helatiyyé, sempre a base di latte, ma con l’aggiunta di riso e frutta secca per guarnire.

 

Per preparare questi budini si utilizza, come addensante, la gomma arabica, una resina che si estrae dal tronco dell’acacia o dal gambo e dalle foglie del lentisco (in questo caso si trova con il nome di “lentisco” o mastice, e ha l’aspetto di piccoli sassolini lattiginosi). Questa interessante alternativa, completamente vegetale, alla più diffusa colla di pesce, non è facile da reperire nei negozi, ma è possibile acquistarla on-line. In alternativa, si può sostituire con l’amido di mais.

 

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Credits: Alessandra Cinquemani