Quando i fan del cinema di una volta lamentano la mancanza, oggi, di quei film a medio budget fatti per un pubblico adulto, Presunto innocente è un ovvio esempio di ciò che hanno in mente. L’adattamento uscito nel 1990 del bestseller di Scott Turow, con Harrison Ford nei panni di un procuratore accusato di aver ucciso la sua amante, non voleva essere un film d’autore, ma era comunque fatto da e per gli adulti. Lo sceneggiatore/regista Alan J. Pakula aveva già diretto Tutti gli uomini del presidente, La scelta di Sophie, Una squillo per l’ispettore Klute e Perché un assassinio, tra gli altri titoli diventati dei classici. Ford era (ed è ancora) una delle più grandi star del cinema, e il cast di contorno era ricco di grandi caratteristi come Brian Dennehy, Raúl Juliá, John Spencer e Bonnie Bedelia. L’anno prossimo Ford entrerà a far parte del Marvel Cinematic Universe con il quarto film di Captain America, ma negli anni Novanta esisteva un Legal Cinematic Universe non ufficiale in cui star come lui, Tom Cruise, Julia Roberts e Denzel Washington si precipitavano a interpretare film basati su romanzi di autori come Turow e John Grisham. (Pakula ha diretto un altro di questi film, collaborando proprio con Roberts e Washington per la trasposizione del Rapporto Pelican di Grisham.)
Tra i radicali cambiamenti economici nell’industria cinematografica e l’ascesa delle serie tv e in streaming, questo tipo di storie – non franchise formato blockbuster, ma nemmeno delle produzioni palesemente da Oscar – ora finiscono quasi esclusivamente sul piccolo schermo. E poiché il concetto di “film tv” è praticamente estinto, si assiste a un aumento esponenziale di miniserie di alta qualità in cui le grandi star hanno a disposizione dalle sei alle dieci ore per entrare davvero in connessione con un personaggio e una storia. A volte, questo approccio “allungato” può dare grandi frutti, come abbiamo visto all’inizio di quest’anno: su Netflix, Ripley ha brillantemente adottato un approccio classicamente “procedurale” in una storia che era già stata raccontata in modo più compatto. Il più delle volte, però, queste miniserie non riescono a mascherare la loro natura di film dalla durata eccessiva, e s’impantanano in quest’altro formato.
Il reboot prodotto da Apple TV+ di Presunto innocente ne è purtroppo l’esempio lampante. Si tratta di un adattamento molto curato, che affianca lo star power di Jake Gyllenhaal a un ensemble d’attori impressionante. Tuttavia, nonostante sia più di tre volte più lunga del film originale, la storia sembra molto più semplice e i suoi personaggi decisamente meno complessi. Chiunque abbia un ricordo anche solo vago del film anni ’90 si stuferà molto presto, mentre gli spettatori nuovi a questa storia si chiederanno come mai tanti tanti abbiano prodotto uno risultato così mediocre.
Gyllenhaal interpreta Rozat “Rusty” Sabich, il fidato numero due del procuratore distrettuale di Chicago in carica Raymond Horgan (Bill Camp). Rusty sta ancora cercando di ricostruire il suo matrimonio con Barbara (Ruth Negga), compromesso dalla relazione dell’uomo con la collega Carolyn Polhemus (Renate Reinsve), quando la stessa Carolyn viene uccisa in modo macabro. Raymond, ignaro della liaison e dunque dell’enorme conflitto di interessi, assegna a Rusty il caso. Ma quando Raymond perde la rielezione a favore di Nico Della Guardia (O-T Fagbenie), quest’ultimo sostituisce Rusty con il suo scagnozzo Tommy Molto (Peter Sarsgaard), che è allo stesso tempo vendicativo e abbastanza intelligente da riconoscere che Rusty dovrebbe essere il principale sospettato.
Questa volta la storia di Turow è affidata alla leggenda della serialità David E. Kelley. All’epoca in cui uscì il film, Kelley era nel bel mezzo di un’acclamata carriera come showrunner di L.A. Law, e avrebbe continuato a dominare il panorama televisivo per i successivi vent’anni con serie come The Practice – Professione avvocati, Ally McBeal e Boston Legal. Ultimamente, si è reinventato come nome di riferimento per questo tipo di adattamenti di romanzi di successo, come Big Little Lies o Un uomo vero, vista su Netflix all’inizio di quest’anno. A volte quelle “traduzioni” diventano dei grandi successi anche sul piccolo schermo, altre volte diventano The Undoing.
Con Presunto innocente, Kelley ha fatto la strana scelta di riempire più tempo semplificando la storia. Diversi personaggi di rilievo sono stati eliminati del tutto o uniti ad altri. Nel libro e nel film, ad esempio, Rusty assume l’eccentrico avvocato difensore Sandy Stern (meravigliosamente interpretato da Raúl Juliá) quando Tommy e Nico lo mettono sotto processo per l’omicidio di Carolyn. Qui, invece, si limita a convincere Raymond a cambiare squadra. Sebbene Nico e Tommy siano in varia misura corrotti, questa volta il senso di corruzione istituzionale è decisamente inferiore rispetto al libro e al film. Nelle versioni precedenti, Carolyn aveva alle spalle una lunga serie di rapporti con i colleghi maschi per fare carriera, il che complicava sia il mistero che la nostra comprensione del personaggio; qui, Rusty è il suo unico amante, almeno negli episodi che abbiamo visto finora. Non ho ancora visto l’ultima puntata, quindi non so se Kelley abbia mantenuto il famoso finale originale o abbia cambiato l’identità di chi ha ucciso Carolyn – e, nel caso, perché.
Ma questi cambiamenti tolgono molte delle sfumature presenti sulla pagina e nel film con Harrison Ford. L’unica parte in cui la serie sembra trarre vantaggio dal tempo aggiuntivo a disposizione è quella dedicata a Barbara e alla complessità dei suoi sentimenti nei confronti del marito, della sua relazione con Carolyn e del duro riflettore che il processo ha puntato su di lei e sui loro figli.
Ruth Negga è molto brava, ma d’altronde lo è praticamente tutto il cast, a prescindere da quanto gli attori siano impiegati. Bill Camp prova un evidente piacere nell’interpretare un personaggio senza filtri come Raymond, che a un certo punto si vanta: “Niente è al di sotto di me. Una volta mi sono scopato un’ottomana”. James Hiroyuki Liao spicca nel ruolo dell’irascibile medico legale Herbert “Painless” Kumagai. E se Tommy è il tipo di personaggio viscido che Sarsgaard ha interpretato spesso in passato, va ammesso che anche qui lo fa da dio.
Gyllenhaal, nel corso della sua carriera, ha fatto del suo meglio per evitare il typecasting, interpretando personaggi con un’ampia gamma di sentimenti in fatto di moralità e temperamento, dall’integerrimo rockettaro Homer di Cielo d’ottobre al mostruoso cameraman Louis dello Sciacallo – Nightcrawler. Kelley e i registi Anne Sewitsky e Greg Yaitanes approfittano di questa sua versatilità – e di questa storia – per lasciare aperta la possibilità molto reale che il nostro eroe sia in realtà l’autore del crimine per cui è sotto processo.
Come molte di queste miniserie, Presunto innocente ha a disposizione così tanti talenti che in più di un momento risulta molto avvicente. Ma a meno che Kelley non abbia in mente un finale sorprendente – che sia una nuova versione di quello di Turow o una sua completa invenzione – c’è ben poco che giustifichi la quantità di tempo che gli spettatori dovrebbero spendere per arrivarci, rispetto a quello che risparmierebbero noleggiando il film.