Green Day, la recensione del concerto agli I-Days Milano 2024 | Rolling Stone Italia
Mamma mia!

I Green Day agli I-Days di Milano, dicervellati dalla parte giusta della storia

Schiacchiarsi lattine sulla fronte con ‘Dookie’, mandare affanculo la destra con ‘American Idiot’. Il rock come vibrazione demente e lo sberleffo al potere fatto da una nazione di alienati. L’essenza del rock’n’roll in due ore e un quarto di show

I Green Day agli I-Days di Milano, dicervellati dalla parte giusta della storia

Billie Joe Armstrong e i Green Day a Milano, 16 giugno 2024

Foto: Enzo Mazzeo

Avreste dovuto vedere gli occhi di Billie Joe Armstrong ingigantiti dagli schemi. Spalancati, dilatati dall’eccitazione, allucinanti ma presenti. E poi le canzoni: quelle di Dookie che fan venir voglia di schiacciarsi una lattina di birra sulla fronte e quelle di American Idiot che incitano alla rivolta. I Green Day stanno girando l’Europa con una doppia celebrazione, i 30 anni del disco da scapestrati del punk-pop appena usciti dalle case occupate e i 20 dell’album da Who della periferia americana. Facendo in qualche modo dialogare i due dischi, hanno dimostrato che i dicervellati crescono, checché ne dica Burnout, e stanno dalla parte giusta della storia. E naturalmente si divertono di più degli altri.

Pare ci  fossero 78.500 persone ieri sera all’Ippodromo La Maura di Milano per le due ore e 15 minuti fra le più divertenti della stagione concertistica, senza pause, né grandi cali di energia. Delle scalette che stanno facendo, agli I-Days è toccata una delle migliori: il manifesto iniziale The American Dream Is Killing Me, tutto Dookie, sei pezzi come intermezzo, tutto American Idiot, il finale acustico con Good Riddance (prima di quest’ultima erano previste anche Minority e Bobby Sox, ma non sono state suonate, amen).

È stata «una celebrazione», come ha urlato Armstrong. Una celebrazione senza nostalgia, anche se a Berlino il cantante ha tirato fuori la cravatta rossa col punto interrogativo che indossava a Woodstock ’94, e la dimostrazione che ha ancora un senso questo strano incrocio tra la rabbia dei tempi di Gilman Street, la magniloquenza del rock da stadio, la teenage lobotomy dei Ramones, l’ambizione di Pete Townshend, ma senza intellettualismi. È il richiamo elettrico degli stanchi, dei poveri, delle masse infreddolite desiderose di respirare la libertà, dei rifiuti miserabili della società. Alla Maura i tre hanno tenuto assieme le due cose: il rock come vibrazione demente, “guarda mamma, senza cervello!”, e lo sberleffo al potere fatto da una nazione di alienati.

“Signore e signori, ecco Dookie!”, annuncia Armstrong dopo The American Dream Is Killing Me. Grossi palloni bianchi si gonfiano sopra le teste dei musicisti per riprodurre in 3D la copertina del 1994. Ci sono pro e contro quando una band rifà per intero un vecchio album: alcuni apprezzano perché è come riabbracciare un vecchio amico, altri invece mugugnano, meglio una selezione di hit perché quasi tutti gli album hanno alti e bassi. Ma di concerti greatest hits ne abbiamo sentiti fin troppi, questi due sono disconi e i Green Day tengono alta la tensione facendosi accompagnare da musicisti aggiunti (i chitarristi Jason White e Kevin Preston e il tastierista Coley O’Toole al posto di Jason Freese) che rendono la musica ferocemente spettacolare, serrata, mai fiacca, tra staccati hardcore e accelerazioni punk-rock, per non dire di pezzi costruiti per sfidare l’ADHD come Jesus of Suburbia. Detto in breve, ci si diverte da matti.

Billie Joe e il bassista Mike Dirnt sembrano usciti dal tour di Combat Rock dei Clash, senza però le facce brutte da manifestazione, Tré Cool ha una completino nero con finiture rosa e una faccia da schiaffi. Sanno come dare spettacolo. «Mamma mia!», urla il cantante di fonte alla massa di gente, dicono sia un record per il gruppo in Europa. Ci sono più assoli di smorfie che di chitarra. Basket Case è ovviamente da delirio, durante She il cantante si mette addosso il tricolore (non siamo alla Camera, nessuno cerca di menarlo), quasi tutti i pezzi sono accompagnati da fiammate e botti, le immagini sugli schermi somigliano a vecchie fanzine pasticciate e ricolorate, ogni due per tre Billie Joe incita il pubblico a scatenarsi: «Let’s go crazy!». Un’allucinazione: un aereo gonfiabile sorvola il pit sganciando bombe, ma non è un drone tipo quelli di Roger Waters, è portato in giro a mo’ di enorme palloncino da due tizi dentro costumi da pupazzi che si fanno strada fra la gente. Il segmento dedicato a Dookie finisce con un «siamo ancora vivi» in italiano, proprio come due anni fa a Firenze, e col batterista che canta All by Myself ciondolando sul palco in vestaglia animalier. È un’America che amiamo, idiota ma col cuore della parte giusta.

L’esecuzione dei sei pezzi che fanno da intermezzo fra i due album non è da meno, con una fan che come da copione sale sul palco a cantare Know Your Enemy e pare non voglia più staccarsi dalle braccia del cantante. Prende forma sul palco un’enorme mano che stringe un cuore-bomba, è il momento di American Idiot, il ritratto sballato dell’America post 11 settembre pieno di personaggi cresciuti a Coca-Cola e Ritalin, ma accomunati ai loro fratelli maggiori di Dookie da un sentimento di alterità. È roba ancora attuale, la “subliminal mindfuck America” è sempre quella lì, basta sostituire i riferimenti alla tv con quelli a internet, via Bush dentro Trump. “No war” dice la scritta sul palco per Holiday, al tempo era l’Iraq, oggi potrebbero essere l’Ucraina o Gaza, “the representative from Milan has the floor” canta Billie. Un’esplosione di stelle filanti (vere) e una pioggia di siringhe (sullo schermo) accompagnano St. Jimmy. I pezzi meno tirati di American Idiot servono anche a rifiatare, le strutture mosse a rendere vario il concerto. E quando Billie Joe dice di alzare le mani, tutti obbediscono.

Wake Me Up When September Ends la canta pure la pattuglia dei ragazzi cui toccherà pulire, maglietta verde e sacchi della spazzatura gialli attaccati ai pantaloni. Billie Joe congeda tutti con un «grazie mille» in italiano, un «questo è il nostro posto preferito al mondo» (ci vogliamo credere), Good Riddance alla chitarra acustica con la bandiera italiana di nuovo sulle spalle, fuori d’artificio in cielo. “We’re coming home”, cantava pochi minuti prima in modo sgraziato Mike Dirnt. Concerti del genere spiegano meglio di molti saggi cos’è questa musica assieme sconsiderata e giusta, demente e politica: per un bel po’ di gente è casa.

Set list:

The American Dream Is Killing Me

Burnout
Having a Blast
Basket Case
Chump
Longview
Welcome to Paradise
Pulling Teeth
Basket Case
She
Sassafras Roots
When I Come Around
Coming Clean
Eminus Sleepus
In the End
F.O.D.
All By Myself

Know Your Enemy
Look Ma, No Brains!
One Eyed Bastard
Hitchin’ a Ride
Dilemma
Brain Stew

American Idiot
Jesus of Suburbia
Holiday
Boulevard of Broken Dreams
Are We the Waiting
St. Jimmy
Give Me Novocaine
She’s a Rebel
Extraordinary Girl
Letterbomb
Wake Me Up When September Ends
Homecoming
Whatshername

Good Riddance (Time of Your Life)