Dietro una pesante porta d’acciaio, all’interno del quartier generale losangelino della sesta azienda più grande del mondo, il cattivo più terrificante della televisione sussulta e si sposta sulla sedia. Gli fa male il culo. Durante un viaggio in Messico la scorsa settimana, Antony Starr, l’attore neozelandese che interpreta Patriota in The Boys (su Prime Video), si è seduto su una scatola che si è rivelata essere un sottile pezzo di cartone che copriva un generatore portatile. «La maniglia mi è andata su per il sedere fino al coccige», dice, aggiustando di nuovo la sua posizione. «Quindi sto cercando di sedermi un po’ di lato sulle chiappe», ride. «Sì, è molto più di quanto dovresti sapere».
Starr tende a offendersi un pochino quando le persone pensano che assomigli al suo personaggio, una sorta di Superman malvagio, un sadico sorridente e volubile con un potere illimitato, profondi traumi emotivi e uno strano feticcio per il latte materno, il tutto avvolto in un mantello con la bandiera americana. Sul set, le comparse e i nuovi membri della troupe lo trattano come se fosse davvero Patriota, sfuggendogli per impauriti mentre passa indossando il suo costume di scena. Fuori dal set, cerca di creare la massima distanza fisica possibile dal personaggio, fino al punto di radersi la testa alla fine della stagione. Al momento si è fatto crescere una barba ispida, con i capelli tornati al loro castano naturale invece del biondo ariano del personaggio; i suoi occhiali colorati smorzano l’impatto degli occhi blu ghiaccio. «La gente è sorpresa, mi dice: “Oh, in realtà non sei come lui”», spiega Starr, un 48enne fan sfegatato dei Queens of the Stone Age. «E io dico: “Be’, è un narcisista psicopatico. Quindi sì, meno male, grazie”». Sorride all’idea che l’incidente del coccige offra una prova oggettiva di quella realtà. «In realtà non ho superpoteri», afferma. «Ho un didietro molto sensibile».
Chace Crawford (alias Abisso) e Anthony Starr (Patriota). Foto: Amazon Studios
Nel mondo di The Boys, basata sull’omonima serie di fumetti indipendenti degli anni 2000 scritta da Garth Ennis e illustrata da Darick Robertson, i supereroi sono reali, dominano la cultura pop e, con rare eccezioni, di eroico hanno ben poco. Sono tutte creazioni della Vought International, una società tentacolare che probabilmente offre la spedizione gratuita in due giorni quando non sta illudendo il pubblico nell’adorare i “super” come celebrità e, sempre più, come figure politiche al centro di una vera e propria guerra culturale. Nella quarta stagione della serie (dal 13 giugno su Prime Video), Patriota, sempre più evidente analogo di Trump, inizia a tramare un vero e proprio dominio fascista degli Stati Uniti, con l’assistenza di un nuovo personaggio che cita in maniera martellante la Bibbia e vende cospirazioni, Firecracker (Valorie Curry), esplicitamente modellata su tizie come Marjorie Taylor Greene.
Con le sue palesi analogie politiche, per non parlare dell’ossessione quasi adolescenziale per le eviscerazioni splatter e le nuove pratiche grottesche sessuali – che si estendono, nella quarta stagione, fino allo scorcio di un supereroe autoreplicante impegnato in un’orgia a catena umana da solo – The Boys non avrebbe mai potuto essere accusata di andare per il sottile. Ma in qualche modo, la rappresentazione della serie di un’America post-MAGA come un carnevale di bugie tragicomico e intriso di sangue risulta più realistica di qualsiasi altra. Quando le sue provocazioni colpiscono nel modo giusto, sembra che sia segretamente la migliore serie in circolazione sul piccolo schermo e, senza dubbio, la più divertente. Basta chiedere a Barack Obama, che ha stupito i creatori quando ha inserito la serie in una delle sue liste di fine anno, cosa che ha poi portato gli showrunner a chiedersi cosa ne pensasse dell’episodio con un gigantesco pene finto che esplode.
«Non avevo idea che fosse basata su un fumetto, quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta», dice uno dei protagonisti, Jack Quaid, che interpreta Hughie Campbell, un fan di Billy Joel dal cuore gentile che è la recluta più improbabile tra i Boys del titolo, un gruppo di ribelli anti-supereroi che vìola la legge guidato dall’amorale Billy Butcher (Karl Urban), fissato con la cattura di Patriota. Da alcuni punti di vista, Jack assomiglia molto a suo padre, Dennis Quaid, ma la sua vibe è quella di un giovane Tom Hanks. «Pensavo che qualcuno avesse appena fatto una serie sull’America. E ci avesse messo dentro i supereroi».
Jack Quaid (Hughie Campbell) ed Erin Moriarty (Annie January). Foto: Amazon Studios
Questo è più o meno il modo in cui la pensa il creatore della serie. «Quello del supereroe è letteralmente l’abito che indossa», afferma lo showrunner Eric Kripke, precedentemente noto per Supernatural. «Parla di politica, autoritarismo e media, e di un desiderio quasi in stile Simpson o South Park di parodiare l’attualità. E poi c’è l’ultraviolenza di Sam Raimi. Il motivo per cui lavoro con il genere è perché con i mostri, i demoni o i supereroi sei in grado di dire davvero roba sovversiva, mentre tutte le persone che scrivono roba più “di prestigio” e “di classe” non riuscirebbero a farla franca. E questo, per me, è il bello».
Il cinismo estremo del suo sguardo dietro le quinte del potere sociopolitico finisce per far sì che The Boys ricordi stranamente una delle migliori produzioni più “di prestigio” e “di classe” della Tv. «Approfondisce davvero le dinamiche del potere, del dolore, della speranza e del tradimento, il tutto racchiuso in una storia che parla anche di cazzi che esplodono», afferma Claudia Doumit, che interpreta Victoria Neuman, una politica carismatica vagamente simile a Alexandria Ocasio-Cortez, che segretamente può far esplodere la testa delle persone con la sua mente. «È Succession… con peni che esplodono».
Il momentum narrativo di The Boys è spietato. Nel finale cliffhanger della scorsa stagione, Patriota commette un omicidio con gli occhi laser in pieno giorno, ma viene assolto così rapidamente all’inizio della quarta stagione che non vediamo un secondo del processo vero e proprio. «C’era solo un modo in cui il processo poteva finire», dice Kripke, seduto nel suo ufficio di produzione di West L.A. Nelle vicinanze c’è una writers’ room in cui non posso entrare perché ci sono già idee per la quinta stagione scritte sulle lavagne, anche se manca ancora una settimana al rinnovo ufficiale della serie. «Se fosse colpevole e andasse in prigione, primo, non ci resterebbe, e secondo, sarebbe un criminale in fuga, e questo non è proprio la serie che vogliamo fare. Quindi non può che essere innocente. E quando c’è un finale che è un fatto compiuto, dico subito ai miei collaboratori: “Superiamolo il più velocemente possibile”». L’omicidio è stato, ovviamente, un cenno al commento di Trump su come avrebbe potuto sparare a qualcuno “nel mezzo della Quinta Strada” senza perdere il sostegno, e, in effetti, vediamo i fan di Patriota esultare per lo spargimento di sangue. Nella nuova stagione, quando scoppia il caos dopo il verdetto, Patriota dice al pubblico: “Siete tutti persone molto speciali”, un altro cenno a quello che ha detto Trump il 6 gennaio.
Quando Kripke ha iniziato a sviluppare la versione televisiva di The Boys nel 2015, quattro anni prima del suo debutto, pensava di lavorare su una parodia della cultura delle celebrità e degli stessi supereroi. «È stato solo quando sono entrato sempre di più nella testa di Patriota che abbiamo pensato: “Aspetta, usano la loro celebrità per fini autoritari”», ricorda. «Che è un fenomeno che riemerge di tanto in tanto nella storia ma, all’inizio, non era nella mente di tutti. E poi all’improvviso è successo. E ci siamo guardati l’un l’altro tipo: “Siamo incappati nella metafora che meglio descrive il momento in cui stiamo vivendo?”. Lì è diventato tutto davvero emozionante».
Man mano Kripke ha cominciato a vedere Patriota sempre più come Donald Trump. «Non è spaventoso perché è potente», dice. «Fa paura perché è debole. La nostra interpretazione era che, se avessi così tanto potere, ti sentiresti inevitabilmente disconnesso e superiore all’umanità. Ma più ti disconnetti dall’umanità, più odi le parti umane di te stesso. Se combini tutto questo, avrai in cambio un narcisismo particolarmente maligno».
Alcuni fan di destra di The Boys erano insoddisfatti, e lo gridavano a gran voce online, quando Kripke ha reso esplicito il collegamento – già ovvio alla maggior parte delle persone – con Trump in un’intervista del 2022 sempre con Rolling Stone. A quanto pare, anche lo stesso Starr non ne è sempre entusiasta. «Per me è un po’ una falsa pista», dice, «perché se fossimo rimasti rigorosamente su quella strada, il personaggio sarebbe stato mono o bidimensionale, e invece volevamo creare qualcosa di più stratificato. Qualunque parallelo ci sia con il mondo reale, dev’essere guidato dai nostri personaggi».
I memo di Starr in questo senso hanno contribuito a spingere la serie a rimanere concentrata sulle caratteristiche decisamente non trumpiane di Patriota, come il fatto che sia cresciuto, non amato e senza genitori, in un laboratorio (di cui apprendiamo di più in un ritorno raccapricciante e carico di vendetta a quell’ambientazione nella quarta stagione). «Darò credito ad Ant», dice Kripke. «Parlerà e dirà: “Eric, sono persone diverse”. È facile cadere nella trappola della parodia à la Saturday Night Live, ma in realtà devo pensare prima di tutto alla verità psicologica del personaggio».
Gran parte della performance sempre ferita e mortale di Starr era già nel suo self-tape per la parte. «Sembrava così vero, il patriottismo e l’ottimismo americano che incontrano American Psycho», dice Kripke. «Perché era affascinante, ma poi il suo sorriso diventava un po’ troppo esagerato. Oppure non c’era niente dietro i suoi occhi». Ma è stato solo in una scena del secondo episodio, in cui Patriota viene accusato di aver abbattuto un aereo, che Kripke ha davvero visto fino a che punto Starr poteva spingersi. «Ha questa ripresa per cui, in 20 secondi appena, ci sono otto diverse espressioni sul suo viso, da “Mi dispiace, mamma” a “Sì, l’ho fatto io”», dice. «Pensavo: “Questo tizio ha catturato così bene quel nido di serpenti fatto di insicurezza, vittimizzazione e potere che è Patriota”».
Billy Butcher (Karl Urban). Illustrazione: David Foldvari per RS US
Per Starr quello che rende Patriota tanto terrificante è la sua imprevedibilità, l’incombente sensazione che potrebbe improvvisamente uccidere chiunque si trovi nelle vicinanze. Lavora per calarsi nel personaggio così pienamente che non è mai sicuro di come affronterà ogni momento sul set. «Cerchiamo di impostarlo in modo tale che nelle scene, ad esempio, non so cosa succederà», dice Starr. «Non sono mai sicuro di cosa farò».
Naturalmente tutto questo sforzo attoriale si accompagna al fingere spesso di sparare laser mortali dagli occhi: «Devo letteralmente stare lì a fare questo piccolo movimento della testa e sembrare molto serio», dice Starr. Dopo che la scorsa stagione anche il Butcher di Karl Urban ha avuto i suoi superpoteri, il collega ha detto a Starr: «Cazzo, non avevo idea di quanto mi sarei sentito stupido a fare gli occhi laser». «Benvenuto nel mio mondo, fratello», ricorda Starr.
Starr è sfuggente quando deve dire se e quanto Patriota possa riflettere i suoi lati oscuri, ma suggerisce che sia fin troppo facile trovare prove nella rissa in un bar in cui è stato coinvolto nel 2022, in Spagna, di cui si è scritto parecchio e in cui ha preso a pugni due volte un uomo di 21 anni e lo ha colpito con un bicchiere, con conseguenti accuse di aggressione prima della sospensione della pena. «Viviamo in un’epoca di slogan», dice in modo ellittico, «dove le persone leggono un titolo e poi prendono una decisione, che si riflette molto concretamente sui protagonisti e in qualche modo li definisce. Preferirei stare zitto anziché parlare a sproposito di qualcosa di così complicato».
Se ha qualcosa in comune con Patriota, è «la vulnerabilità», dice Starr, che non può fare a meno di vedere il personaggio come una vittima, un «povero ragazzino che è stato distrutto e usato per tutta la sua vita. È un malato di mente. Ne ha passate davvero tante. Tutto si ricollega a qualcosa a cui tengo personalmente e che volevo cercare di onorare il più possibile: i danni e i problemi di salute mentale che emergono dal tipo di trattamento che ha ricevuto. Tutti soffriamo e lottiamo, tutti. Penso che questo sia probabilmente il motivo per cui le persone stranamente si immedesimano nel personaggio. Alcuni a un certo punto hanno preso un granchio e lo hanno difeso come se fosse l’eroe, ed è stato brutto! Era sbagliato. Ma tante persone dicono di provare sentimenti molto contrastanti nei suoi confronti».
La saga a fumetti di The Boys era in gran parte un prodotto della cultura di punta dell’era di George W. Bush. Tutto è iniziato nell’agosto del 2006, dopo che gli elettori si erano rifiutati di votare per il cambiamento, con la guerra in Iraq che infuriava e l’uragano Katrina ancora vivo nella mente dei suoi creatori. La classe dirigente era indifferente, se non addirittura maligna: perché i supereroi dovrebbero essere diversi? Darick Robertson, artista e co-creatore della serie, trova deprimente il modo in cui la serie tv sia riuscita ad adattarsi a una nuova era. «Sembra proprio che siamo in un circolo vizioso, da un punto di vista culturale», dice, «perché tutto ciò che è accaduto durante gli anni di Bush ha gettato le basi per quello che sta succedendo adesso con Trump».
La prima idea per The Boys di Garth Ennis, uno scrittore irlandese pronto ad andare oltre i confini già tracciati, era audace ma del tutto irrealizzabile, ricorda Robertson: immaginava i Boys come una squadra di investigatori anti-supereroi nell’attuale universo DC Comics, dove le storie avrebbero implicato i personaggi originali, anche se senza mai affermare apertamente che eroi come Superman e Batman fossero segretamente malvagi e perversi.
Robertson dice di aver suggerito di creare invece degli analoghi dei personaggi della DC Comics, con Superman che diventa Patriota, Aquaman che diventa il personaggio anfibio di Abisso e così via. Patriota era originariamente Liberator, e il suo costume aveva «un simbolismo nazionalista molto evidente, con riferimenti nazisti», dice Robertson. «Mentre si evolveva, gli ho messo il mantello americano, perché adoro quella frase su come l’ultimo rifugio di un mascalzone sia il patriottismo».
Seth Rogen e il suo partner produttivo, Evan Goldberg, erano già fan di Ennis e acquistarono il primo numero da Golden Apple, un negozio di fumetti in Melrose Avenue a Los Angeles, il giorno in cui uscì. «Abbiamo pensato: “Porca miseria, è una cosa da pazzi”», ricorda Rogen. «Quella stessa settimana siamo andati alla Sony e abbiamo detto: “Ragazzi, dovreste farlo”. E loro hanno risposto: “Dovremmo… con qualcun altro”», racconta Goldberg.
Sony acquistò i diritti di proprietà intellettuale, che passò attraverso diverse mani nel corso di un decennio prima di finire nelle mani di Rogen, Goldberg e Kripke. Per un po’, il regista Adam McKay ha cercato di trasformare The Boys in una trilogia di film – il primo è arrivato addirittura a una sceneggiatura finita e persino a demo animate di alcune scene – ma non è riuscito a ottenere il via libera nella Hollywood pre-MCU. «Non cambierei nulla», afferma Robertson, «perché la serie è fantastica. Ma stavano venendo fuori cose davvero interessanti. Il problema è che era il 2008, non il 2018. Semplicemente non penso che fossero ancora pronti per tutto questo».
Usher nei panni di A-Train. Foto: JAN THIJS/AMAZON STUDIOS
Al cast della serie The Boys offre la possibilità sia di lavorare su personaggi parecchio sostanziosi che su umiliazioni uniche. Nel primo episodio, nell’incidente che dà il via all’intera storia, il personaggio in stile Flash di nome A-Train (Jessie T. Usher) corre accidentalmente a super velocità attraverso il corpo di un civile, con conseguenze prevedibilmente orribili. Il civile in questione si rivela essere la fidanzata di Hughie Campbell, e lui la tiene per mano al momento della collisione. «Hanno caricato quegli enormi cannoni ad aria compressa pieni di sangue, budella e roba del genere», dice Usher. «E mi dicevano: “Quando scappi, spareremo a Jack in faccia con questo. È stato in quel momento che io e Jack, sul set da 12 ore completamente coperti di sangue, ci siamo detti: “Wow, questa roba è davvero diversa”».
Il personaggio di Usher ha trascorso la serie tra la dannazione e la redenzione per i suoi numerosi peccati. All’inizio, ha modellato l’indifferenza di A-Train verso l’umanità alla parabola dei giovani atleti professionisti. «Nell’NBA, mostrano i giocatori che camminano attraverso il tunnel che porta alla partita», dice, «ed è come se non vedessero nemmeno le persone. Sono appena al di sopra del mondo. È più o meno quello che penso du A-Train». I fan della serie sfidano costantemente Usher a correre, e lui esita sempre. «Odio correre», dice. «Sono veloce solo sullo schermo. Non corro nemmeno sul tapis roulant. Farei qualsiasi cosa tranne che correre per fare cardio».
Non c’è personaggio più assurdo in The Boys, o forse in qualsiasi altra serie di sempre, dell’analogo di Aquaman, Abisso. È interpretato (in maniera esilarante) da Chace Crawford, l’ex Nate di Gossip Girl, che ha immediatamente riconosciuto il tipo di mascolinità ultratossica da ragazzo carino e non troppo brillante del personaggio, in parte per il suo milieu da vecchia star teen. «Agli occhi delle persone del settore vieni messo in una specie di scatola», afferma Crawford. «È stato molto “meta” per me prendere in giro quel tipo di personaggio».
Nel primo episodio della serie, Abisso costringe uno dei pochi personaggi moralmente integri di questa storia, Starlight (Erin Moriarty), a un rapporto sessuale in stile “divano del produttore”. Mentre Starlight deve fare i conti con quel trauma, Abisso si tuffa in una serie infinita di meritate umiliazioni, inclusa una scena in cui viene sorpreso in un esplicito rapporto sessuale con un polipo. «Ero in completa negazione di quella scena», dice Crawford. «Mancavano 24 ore alle riprese e ho quasi avuto un attacco di panico. Ho chiamato Kripke e gli ho detto: “Quali saranno le inquadrature? Quanto devo essere nudo?”». La serie ovviamente ha un intimacy coordinator, «ma non per il polpo», dice Crawford.
Starr nella seconda stagione. Foto: AMAZON STUDIOS
Per Moriarty interpretare Starlight – probabilmente l’unica vera supereroina della serie – è un impegno molto serio. «Con questo personaggio sto provando qualcosa che non avevo mai sperimentato prima, ovvero che sono molto protettiva nei suoi confronti», afferma Moriarty. «So che questa è una giovane donna che sta attraversando cose che altre giovani donne hanno provato. Quindi sento che è mio dovere renderle giustizia nel miglior modo possibile. Nel momento in cui non comprendo la posta in gioco emotiva in una scena che implica una situazione orribile e traumatizzante, è come se non avessi fatto il mio lavoro».
Dovendo affrontare giornate di 16 ore con materiale a volte emotivamente brutale, in particolare nella nuova stagione, Moriarty è disposta a tutto pur di farlo funzionare. «Ho finito per comprare sali profumati su Amazon», dice, «perché stavo ascoltando un podcast in cui alcuni ragazzi parlavano di come li faccio sentire tipo Hulk. E dovevo sentirmi Hulk in certi momenti della prossima stagione», ride. «Annusavo i sali, gridavo “Aaaah”, e andavo a girare la scena. Ho sicuramente ucciso dei neuroni. Divento pazza quando devo prepararmi un ruolo».
Una costante fin dalla prima stagione è la storia d’amore tra Starlight e Hughie, che riesce a fornire alcuni rari momenti di dolcezza nella follia della serie. Gli attori dicono che quella parte non è difficile. «Penso che molte persone ci guardino e pensino: “Si frequentano?”», dice Moriarty. «Perché la chimica è perfetta. Ma succede perché è uno dei miei migliori amici, gli voglio così tanto bene e farei qualsiasi cosa per lui. È il fratello che non ho mai avuto».
«Sono d’accordo», dice Quaid (che in realtà ha una relazione con un’altra attrice della serie, Claudia Doumit), «ma a volte non lo dico quando vengo intervistato perché penso: “È strano però, perché ci baciamo spesso davanti alla telecamera”». La coppia fa del suo meglio per evitare che la relazione Hughie-Starlight risulti sdolcinata. «Volevamo assicurarci che non sembrassero leziosi o troppo perfetti», aggiunge Quaid. «Devono essere i buoni, ma non possono essere persone troppo perbene e noiose. Mi piace ogni volta che diamo loro una marcia in più, un po’ di pepe. In questa stagione sicuramente succede».
Moriarty riesce a irradiare una bontà pura degna di Christopher Reeve nei panni di Starlight, ma è grata che il personaggio sia lontano dall’essere perfetto. «Il fatto che possa essere così inequivocabilmente buona e al tempo stesso commettere degli errori rende questo ruolo per me curativo». Karen Fukuhara, che incarna Kimiko, muta, forzuta e un tempo selvaggia, trova una bella catarsi nella follia omicida del suo personaggio. «Forse deriva dall’essere donna, e forse dall’essere giapponese, ma molte volte dobbiamo filtrare le nostre emozioni», dice Fukuhara. «E Kimiko non ha niente di tutto ciò. Non è realmente cresciuta all’interno del patriarcato o, in verità, in nessun tipo di costrutto sociale. E quindi non ha filtri. Ammiro questo di lei: combatte costantemente per la sua vita e a volte è necessario che un po’ di rabbia venga fuori. E, nel suo caso, volte corrisponde a decapitare qualche testa».
Nessuno in The Boys è un attore di Metodo, nemmeno Starr, nonostante tutta la sua intensità. E a detta di tutti, il cast se la cava molto bene. «C’è sempre qualcuno che è uno stronzo», dice Starr, facendo una pausa prima di far esplodere la stanza con la sua battuta finale: «In questo caso, almeno sono io».
«Mi preoccupo molto», dice Kripke, «del rischio di diventare esattamente ciò su cui stiamo facendo satira. Mi succede ogni giorno». È seduto nell’ufficio di produzione di The Boys, una suite di vetro in un edificio di West L.A. non lontano dal famoso e assurdo negozio di alimentari Erewhon. A cinquant’anni, si comporta ancora più come un apprendista sceneggiatore televisivo invece che come il mini magnate che è diventato, e continua a vestirsi con una maglietta grigia ampia, jeans e le New Balance ai piedi. Sugli scaffali ci sono romanzi di Stephen King e James Ellroy (quest’ultimo ha avuto una grande influenza su Ellis per The Boys), una collezione completa della serie di fumetti di The Boys, vari premi ricevuti e una replica del blaster di Han Solo: Kripke è un fan di Star Wars da sempre e intende assolutamente fare qualcosa in quell’universo un giorno.
Quello che lo preoccupa, soprattutto, è l’espansione del franchise di The Boys oltre la serie originale, e il modo in cui riecheggia il Vought Cinematic Universe. «Lo dico sempre alle persone che mi chiamano: il nostro marchio è punk rock», dice. «Ci meriteremmo il disprezzo se ci mettessimo in vendita». Oltre all’antologia animata Diabolical, la serie ha già generato uno spin-off live-action di successo, Gen-V, ambientato in un college per superstiti nell’universo di The Boys. Secondo Kripke, quest’ultima serie è a pochi giorni dall’inizio della produzione della sua seconda stagione, ma una tragedia inaspettata l’ha irrevocabilmente alterata: uno dei protagonisti, Chance Perdomo, è morto in un incidente motociclistico alla fine di marzo. «Prima di tutto, è una tragedia incredibile, è tutto orribile», afferma Kripke. «E il mio pensiero è rivolto alla sua famiglia. Era un ragazzo di 27 anni… è terribile. Questo ha la precedenza su tutto. Perdere qualcuno è davvero difficile. Quello che facciamo noi è scrivere su carta. Quello è facile». Gli sceneggiatori hanno deciso di non fare un nuovo casting per il ruolo. «Chance non può essere sostituito. Avevamo scritto le prime quattro sceneggiature, quindi le stiamo rivedendo furiosamente per assicurarci che la nuova trama onori davvero il personaggio. Ma come puoi immaginare, si tratta di cambiamenti importanti».
Ci sono molti altri possibili spin-off in lavorazione, incluso uno del titolo The Boys Mexico. «Nessuno ci spinge a realizzare queste serie», sottolinea Kripke. «Ci stiamo spingendo oltre perché amiamo quel mondo. È così divertente continuare a giocare con questo universo. Quindi inevitabilmente parliamo di quali angoli del mondo sarebbero interessanti. E lasciamo che le cose si evolvano».
The Boys finirà con la quinta stagione, e Kripke sembra sapere dove andrà a parare. «Ti dico questo: ho un finale in mente e voglio che sia soddisfacente per tutti, giusto? Cioè, si possono contare i grandi finali della serialità sulle dita di una mano. Quindi è un obiettivo davvero difficile. E vorrei che fosse emotivamente soddisfacente ma anche sorprendente, per come lo scriveremo e lo metteremo in scena».
Prima che gli attori avessero la certezza che avrebbero avuto solo un’altra stagione, alcuni di loro volevano che andasse avanti il più a lungo possibile, anche se riconoscevano quanto sarebbe stato complicato. «Siamo riusciti a non essere ripetitivi», afferma Laz Alonso, il cui personaggio tosto e con un disturbo ossessivo compulsivo, Mother’s Milk, prende il posto di Butcher come leader dei The Boys nella nuova stagione. «È difficile, soprattutto quando tocchi una corda che piace alla gente: vuoi dare loro quello per cui ti seguono. Ma allo stesso tempo non vuoi iniziare a ripetere vecchie battute. Vuoi ancora riuscire ad avere quei momenti che suscitano commenti del tipo: “Oh merda, non me l’aspettavo”, ed è molto difficile».
Kripke suggerisce che la serie potrebbe avere un happy ending, anche se questo comporta qualche serio sacrificio. «Vale la pena lottare per tutto ciò che vale la pena avere», afferma. «Quando succede qualcosa di bello nella serie, chiedo sempre: “Qual è il prezzo?”». Ma a differenza del tetro mondo in cui solo i buoni muoiono giovani, ad esempio, di Game of Thrones, lui crede di sovrintendere a «un universo morale in cui quando scegli l’amore, la famiglia e la misericordia ti succedono cose belle. E quando scegli la vendetta e l’odio, questo provoca tanto danno a te quanto alla persona su cui stai cercando di mettere in atto la tua vendetta».
Se c’è un messaggio in mezzo a tutti gli orrori della serie, è questo: «Stiamo cercando di decostruire l’idea che un eroe possa risolvere i mali del mondo in un solo colpo, pur grande e drammatico», dice Kripke, abbandonando la sua solita ironia per un momento. «Non è proprio così che funziona la vita. La vita funziona grazie a un gruppo di persone spaventate che fanno un milione di cose noiose ogni singolo giorno nel tentativo di rendere il mondo leggermente migliore, e poi vengono buttate a terra e si rialzano ogni volta per farlo di nuovo», sorride. «Ed è così, secondo me, che si salva il mondo».
Ha collaborato Miles Klee.
Da Rolling Stone US