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Al cibo (e alla dieta) ci siamo sempre andati sotto

Ci sono tre cose che nessuno vuole fare: invecchiare, morire, ingrassare. E quando succedono, tendiamo a dare la colpa a come ci siamo nutriti durante la nostra vita. Tra mito e myth-busting, è ora di capirci qualcosa di picchi glicemici & co.

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Credits: Elena Leya su Unsplash

Siamo ossessionati da quello che mangiamo? Mentre scrivo questa frase mi domando se non sarebbe meglio chiuderla con un punto, e in testa sento Miranda Priestley chiosare: “No, non era una domanda”. Se ne Il diavolo veste Prada la fissa era – solo – entrare in una taglia 36, ne è passata di acqua sotto i ponti in questi quasi vent’anni, e oggi non ci basta più essere magri.

Vogliamo essere sani come pesci, con il fisico scolpito da muscoli tonici, il metabolismo regolato come un orologio svizzero, l’intestino intelligente. Desideriamo essere al top dentro e fuori. E siamo convinti di poter trovare la risposta nel cibo. Non inteso, genericamente, come l’insieme degli alimenti che ingeriamo a colazione, pranzo e cena, ma considerato nelle sue caratteristiche più intime: macro e micronutrienti di ogni singolo ingrediente, quelli che renderebbero un mirtillo, una coscia di pollo o una forchettata di pasta – a seconda dei punti di vista – un potente farmaco o, al contrario, un pericoloso veleno.

Convinzioni corroborate dalla nostra bolla social e sociale, popolata di sedicenti dietologi tiktoker, personal trainer aspiranti nutrizionisti, amici reali o virtuali che assicurano che, da quando in tavola hanno tolto o aggiunto questo o quello, sono in forma come non mai. E allora, perché non provare? Del resto, non facciamo nulla di male, al contrario: mangiamo benissimissimo, scegliendo con stracura ogni alimento, combinazione, finanche orario di consumo e frequenza dei pasti.

Qui ci starebbe un parolone: ortoressia, ovvero l’ossessione per il cibo “sano”, “pulito”. Il termine è stato coniato, alla fine degli anni Novanta, dal medico californiano Steven Bratman per descrivere il comportamento di chi basa le sue scelte alimentari unicamente sulla qualità dei cibi. Pur non inserita nell’elenco ufficiale dei disturbi del comportamento alimentare riconosciuti (come anoressia, bulimia e binge eating, che badano esclusivamente alla quantità), la fissazione per il cibo (ritenuto) buono è comunque un segnale di qualcosa di irrisolto, a livello psicologico.

«Le soluzioni troppo radicali sono sempre indice di una certa fragilità», riflette lo psicoanalista Luca Giovanni Ciusani. Per puntellare il nostro io traballante, il conforto può arrivare da qualcuno che ci dica cosa fare: «Il regime dietetico diventa una specie di padrone, incarnato dal nutrizionista di turno, ma anche dalla community che condivide con noi un ideale: magari rigido, ma partecipato da tanti».

Ciusani porta l’esempio di diversi pazienti “seguaci” di un noto guru del digiuno intermittente, il metodo dimagrante che limita o esclude l’alimentazione per diverse ore al giorno, o per interi giorni durante la settimana. Una delle mode del momento, tra le più discusse, perché non scevra di rischi per la salute, eppure seguitissima anche da un (de)nutrito numero di personaggi più o meno famosi. È efficace? All’apparenza sì: si dimagrisce. È salutare? Certamente no.

Senza addentrarsi in considerazioni che attengono alla medicina, Ciusani ribadisce che «irrigidirsi su alcune pratiche, specie se restrittive, è sintomo di insicurezza. Ci si illude di preservarsi da una minaccia e si finisce per negarsi al piacere che, secondo Freud, dovrebbe essere esso stesso il principio regolatore capace di metterci al riparo dagli abusi. L’atteggiamento sano sarebbe mangiare per il gusto, senza rinunciare alla funzione conviviale del cibo e senza lasciare che il rapporto diventi individuale: io e il cibo, anziché il cibo preparato per – e/o condiviso con – altri».

Dalla teoria alla pratica, quante delle scelte alimentari più estreme condizionano la vita personale e sociale di chi le segue? Quanti pranzi e cene disdetti o non goduti perché non conformi alle regole più balzane? Ho visto gente che si è presentata a un basito padrone di casa, per una serata “paella de marisco”, portandosi in un sacchettino «giusto due mandorle e un uovo sodo: mi bastano, davvero. Sai, carboidrati e proteine nello stesso pasto proprio non posso». Inutile domandare perché, a meno di non volersi addentrare nelle balzane teorie dell’healty content creator del momento.

Se la rete è piena di padroni pronti a dirci cosa, quando e quanto mangiare, non sono da meno gli scaffali della GDO, dove a dettare legge è il marketing, capace di cogliere le tendenze del momento e tradurle in prodotti. Il caso più eclatante è, al momento, quello degli alimenti proteici. Non c’è corsia del super che non sia invasa da confezioni con etichette ammiccanti che strillano i quantitativi di proteine: dai salumi in vaschetta (ricchi di proteine! che novità!) agli yogurt, dalla pasta agli snack fino all’acqua, addizionata con collagene bovino.

Già prima della pandemia la giornalista gastronomica britannica Bee Wilson su The Guardian parlava di “protein mania”. Proteine-panacea di tutti i mali: «Nel menu del bar in palestra, l’insalata nizzarda è preparata con “tonno ad alto contenuto proteico”, senza i soliti capperi e olive: quelli sono ingredienti che aggiungono semplicemente sapore, e chi ne ha bisogno?», ironizza. Secondo l’autrice, già nel 2017 c’erano state su Google 64 milioni di ricerche sull’argomento, e tutt’ora le proteine sono una chiave di ricerca su Pinterest, interesse da coltivare al pari di unghie o giardinaggio. Secondo Wilson, la tendenza sarebbe figlia del fatto che, nel tempo, abbiamo cominciato a guardare con sospetto carboidrati o grassi (e talvolta entrambi): le proteine sarebbero perciò emerse come l’ultimo macronutriente rimasto in piedi.

E allora, la domanda è: abbiamo davvero bisogno di tutte queste proteine? «Le proteine sono certamente fondamentali per la crescita, la riparazione dei tessuti e il normale funzionamento del sistema immunitario. Ma l’ossessione attuale è più una tendenza di marketing che di necessità nutrizionale», conferma Annamaria Acquaviva, dietista nutrizionista, farmacista e direttrice scientifica di Palazzo di Varignana, nel bolognese. «La maggior parte delle persone, seguendo una dieta varia ed equilibrata, soddisfano facilmente il fabbisogno proteico senza dover ricorrere a integratori o alimenti potenziati».

Ma le diete iperproteiche fanno dimagrire? Sono utili a chi fa sport? «Possono aiutare a tenere sotto controllo maggiormente il peso corporeo per vari motivi: danno un senso di sazietà e stimolano un dispendio calorico maggiore rispetto ai carboidrati. E possono incrementare la massa muscolare ed essere, quindi, necessarie per gli sportivi. Ma se stiamo parlando di persone “normali” un consumo eccessivo può portare a problemi renali e aumentare il rischio di malattie cardiovascolari perché spesso, accompagnato alle proteine, si ha un elevato apporto di grassi saturi».

Acquaviva ha una risposta – condivisibile – per tutti i falsi miti che popolano l’immaginario alimentare. Per esempio: ha senso eliminare pane, pasta e compagnia, senza essere intolleranti al glutine, oppure fare lo stesso con i latticini? «Assolutamente no, perché questo può portare a carenze nutrizionali. Alla base della buona alimentazione c’è la varietà: dovremmo mangiare tutto. Il carboidrato, per esempio, è una fonte di energia importante e va alternato. Il punto è sempre il bilancio nutrizionale, avere quell’alimentazione equilibrata che tutti dovremmo seguire: senza scorciatoie e senza l’eliminazione di gruppi alimentari, che sono fondamentali anche per avere un maggiore longevità».

Proviamo con le calorie. Fino a qualche decennio fa erano alla base di metodi di successo come la WeightWatchers, o dieta a punti (sì, sempre supportata da perfette operazioni di marketing – la seguiva Oprah). Ma anche di millemila diete fai-da-te promosse da testate “femminili” che ne lanciavano di fantasiose. Come quella del minestrone, che convinse schiere di giovani donne a infilare in borsa thermos di zuppe di verdura da sorbirsi in ufficio, in pausa pranzo. Oggi ha ancora senso contare le calorie?

«Direi di no. L’approccio corretto è ampliare gli orizzonti e guardare i valori nutrizionali in sé. Dobbiamo avere la consapevolezza che una caloria di grasso è diversa da una caloria di zucchero. Più che prendere un alimento che ha meno calorie dovremmo optare per quelli che riducono i grassi saturi. Detto che l’eccessiva ossessione nei confronti delle calorie può essere fonte di disturbi del comportamento alimentare [vedi sopra, ndr]». O, aggiungiamo, spingerci verso alimenti cosiddetti dietetici, che hanno sì meno calorie, ma in realtà non fanno altro che aumentare i consumi perché creano l’alibi perfetto per poterne mangiare di più.

Ciò non toglie che il contenuto calorico dei prodotti industriali sia tuttora un valore su cui impostare intere campagne di comunicazione. È quel che è stato fatto per Lec, il gelato lanciato dal campione di Formula Uno Charles Leclerc insieme a Federico Grom, Guido Martinetti e Nicolas Todt. In etichetta, si specifica l’apporto in calorie dell’intero barattolino da 460 ml: max 399, secondo i gusti. Di molto inferiori (almeno il 30%, con picchi di oltre il 40%) rispetto alla media della concorrenza. Per capirci, il Lec al pistacchio ha 132 calorie per 150 ml (porzione consigliata) contro le 235 dello stesso gusto del diretto competitor Grom, il marchio rilevato nel 2015 da Unilever dai fondatori Grom e Martinetti (appunto). Risultato ottenuto abbattendo il contenuto di grassi e con l’impiego di edulcoranti “naturali” come la stevia.

Così, il marketing torna a strizzare l’occhio ai singoli elementi di un prodotto dichiarando con un certo orgoglio di non usare “datati dolcificanti ‘artificiali’ come aspartame o sucralosio” e facendo leva sull’appeal degli ingredienti ricavati da piante, frutta, ortaggi, ritenuti migliori di quelli sintetizzati in laboratorio.

Guardare il dito (il singolo dettaglio) invece della luna (il contesto generale) è atteggiamento diffuso. Che oltretutto sembra essere alla base delle fake news nutrizionali più comuni. Prendi la questione dell’indice glicemico, popolare babau dai presunti effetti deleteri sul nostro girovita. «L’IG è una misura che indica la velocità con cui un alimento che contiene carboidrati (zuccheri) innalza la glicemia, ovvero la quantità di glucosio nel sangue» spiega Acquaviva.

«Gli alimenti con un IG basso rilasciano lo zucchero con gradualità, aiutando a mantenere l’energia più stabile e a controllare l’appetito. Al contrario, quelli con IG molto alto provocano un picco glicemico con stimolazione immediata dell’insulina, che possiamo definire “ormone ingrassante”. Dopo il picco, la glicemia scende perché l’insulina è stata richiamata molto velocemente a lavorare. Si verifica un calo di zuccheri che crea un circolo vizioso: cercherò di nuovo cibi dolci per compensare le carenze date da un’alimentazione ricca di alimenti ad alto indice glicemico».

Questo nella teoria. Perché l’IG, come detto, altro non è che un’unità di misura riferita a un alimento preso singolarmente e a come gli zuccheri che contiene agiscono sulla glicemia, paragonandoli a quanto accade con il glucosio puro. Un numerino, insomma, il dito puntato su cui si fissa l’attenzione, perdendo di vista la rotondità della luna.

«La cosa che oggi conosciamo bene è il più ampio concetto di carico glicemico, molto più interessante perché inserisce anche la variabile della quantità, che è fondamentale. L’anguria, per esempio, ha un indice glicemico molto alto, ma il carico glicemico è molto più ridotto perché è ricca di acqua». Facciamo un altro esempio con il riso, che al naturale ha addirittura un IG più alto di quello della pasta. Cosa succede se lo preparo in insalata? «A quel punto non parliamo più di indice glicemico ma di carico glicemico del pasto. La verdura abbassa il carico glicemico perché rallenta l’assorbimento di grassi e zuccheri. Ugualmente il fatto che all’interno del piatto ci possa essere una fonte proteica».

Lo so, lo so: si tratta di meccanismi difficili da capire per chi non è addetto ai lavori. Ma a maggior ragione dovrebbe stupire che concetti tanto complessi possano essere ridotti a regolette semplicistiche, e semplici da seguire, per autoassolverci e convincerci di mangiare in modo corretto. Ci si imbatte in un reel su Instagram e via che raffreddiamo la pasta e tostiamo il pane perché ci han detto che così si abbassa l’indice glicemico. Cosa vera sulla carta: con questi procedimenti una parte degli amidi cambia struttura trasformandosi in un composto che si comporta come una fibra, quindi diventa indigeribile (le fibre lo sono per definizione) e lascia letteralmente il tempo che trova.

Ma se ci prendiamo la briga di leggere i valori reali, scopriamo per esempio che il pane bianco ha in media un indice glicemico pari a 63, che dopo la tostatura diventa 60: i dati sono riportati sul blog La Somma e il Totale di Gabriele Bernardini, biologo nutrizionista e debunker di castronerie alimentari, in uno dei tanti post dedicati all’argomento: «Queste minuscole differenze non hanno alcun valore pratico. Il pane bianco alzerà la glicemia il 37% meno velocemente del glucosio, il pane bianco tostato il 40% meno velocemente. Anche ‘sticazzi».

Con logica ineccepibile, Bernardini smonta falsi miti come quello della dieta alcalina: «È inutile parlare di acidità o alcalinità dei singoli alimenti, perché a livello gastrico e intestinale il tutto si annulla in un brodo cosmico primordiale» e decisamente acido. Ma anche il sempre attuale hype sugli antiossidanti, magari di “origine naturale”, naturalmente presenti negli alimenti freschi o aggiunti dall’industria alimentare: «La prima linea antiossidante ce la fabbrichiamo noi», sottolinea Bernardini elencando una serie di molecole prodotte dall’organismo per contrastare i famigerati radicali liberi responsabili dell’invecchiamento. Se però parliamo degli antiossidanti presenti in frutta e verdura (per tacere degli integratori), «la biodisponibilità di queste sostanze è piuttosto bassa e il loro ruolo in vivo è ancora da chiarire. Lo stress ossidativo è un prezzo da pagare per essere vivi. Ma è oltremodo probabile che gli antiossidanti esogeni (quelli che provengono dal cibo o dai supplementi) non siano così importanti perché arrivano in quantità talmente esigue da essere surclassati dalla nostra prima linea».

«Ma quanto sarebbe bello parlare di alimentazione evitando di considerare il cibo come un farmaco?» si domanda sul blog Bernardini. «Quanto sarebbe tranquillizzante non dover pensare alle singole componenti che stanno dentro al cibo, ma mangiare semplicemente, soltanto seguendo un modello che negli anni si è rivelato sano ed equilibrato [quello della dieta mediterranea, ndr] alla faccia dei terroristi della molecola?».

Sulla stessa lunghezza d’onda la citazione – riportata dalla Wilson – di David L. Katz, medico e nutrizionista americano, sostenitore Oltreoceano dello stile alimentare mediterraneo, ma anche di veganesimo, vegetarianesimo e pescetarianesimo: «Stiamo dissociando il nutriente dalla sua fonte», ovvero, il cibo.

«Nessuno vuole invecchiare e morire. E nemmeno ingrassare», è la considerazione di Ciusani. «Ma di fatto succede lo stesso. Dovremmo trovare il modo di farci un po’ i conti». Senza andare in cerca di padroni, formule miracolose, bocconi taumaturgici, ricette magiche. Ma recuperando, anche a tavola, un ingrediente desueto ma ricco di proprietà benefiche: il buon senso.

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