Eddie Vedder sta correndo lungo la pedana di sinistra, fin sotto uno dei maxischermi. L’addetto alla regia video (da ora il Capitano, visto il cappello marinaresco che indossa) si alza per capire meglio fino a che punto arriverà per decidere se proiettare la corsa. Dietro di lui l’addetta alle luci (da ora la Capitana, ma questa volta la motivazione è che davanti a lei ci sono tanti tasti, knob e schermi che sembra stia navigando in mare aperto), si alza anche lei per far correre l’occhio di bue alla stessa velocità del musicista. Vedder ha in mano due cembali. Li sbatte l’uno contro l’altro ma non possiamo sentire niente, in quella zona non ci sono microfoni e infatti il capo-fonico resta impassibile, niente accade sul suo mixer audio. Un cembalo volerà in mezzo al pubblico. L’altro tornerà verso il centro del palco per la fine del pezzo.
Il Nos Alive di Lisbona ci ha permesso di seguire il concerto di chiusura del festival – i Pearl Jam – dall’area audio e video di fronte al palco. Anche se non siete dei tecnici, sapete a che cosa mi riferisco: quella piccola baita di tubi innocenti che vi blocca la vista quando arrivate tardi ai grandi concerti. Quello spazio che maltrattate e maledite è in realtà il cervello senza cui un live odierno non potrebbe accadere. È da lì che il fonico audio controlla il suono che sentiamo uscire dalla casse, il tecnico luci fa le sue scelte di colore e forma, l’addetto video manda i visual o – come nel caso dei festival e dei grandi concerti – si occupa anche della regia delle telecamere presenti. Senza tutti questi tecnici, infatti, là fuori sarebbe il caos.
In questa regia, Front of House (FoH), baita del suono, delle luci e dei video, sembra di essere come dentro una torre di controllo, o dentro un incubatore di gamer: ci sono infatti più schermi che persone,e queste persone sono così intente nei loro rispettivi impieghi da non potersi mai permettere una distrazione. La postazione più avanzata è quella del fonico, che fisicamente ha le sembianze che potete immaginare: grosso, pelato, vestito di nero. Il banco, in cui tutti i suoni del palco arrivano, è gestito dalle sue grandi mani. A lato uno schermo mostra un compressore digitale acceso e messo in post, probabilmente per dare un ultimo controllo a eventuali sbalzi di volume e un leggero strato di saturazione (di calore) al suono prima dell’uscita verso il pubblico, mentre un altro sta mostrando la registrazione dello show (uscirà magari un bootleg nel prossimo futuro?). Il lavoro di soundcheck pomeridiano è stato eseguito alla perfezione, la performance procede senza grandi lavori sul mixer, se non in un paio di inneschi causati dalla chitarra indomabile di Mike McCready. Il fonico osserva, aggiusta i dettagli, a ogni larsen e feedback compie un paio di regolazioni, poi rimane imperterrito, intento più che altro a come Vedder utilizza il microfono.
Dietro al fonico c’è invece la postazione del Capitano. Tre schermi, due dei quali raggruppano tutte le riprese live da cui scegliere, e uno a mostrare il risultato finale che il pubblico fruisce guardando il palco. Davanti a sé una tastiera illuminatissima (sembra davvero una postazione di Twitch), a lato un altro computer, a terra (il Capitano indossa calzini con teschi e una sola scarpa, l’altra è abbandonata a lato) una pedaliera per chitarra. Prima della partenza di Do the Evolution, con il piede scalzo raggiunge uno dei tasti di una pedaliera a terra: sui maxischermi appare un video animato che il Capitano alterna con le riprese della band. Un tempismo eccezionale.
Durante Even Flow invece McCready si immerge in un assolo infinito, lanciandosi la chitarra dietro la schiena e affondando con foga i tasti mentre la mano destra corre colpisce velocemente le corde. Il Capitano muove la testa, sente il ritmo, e decide di farci godere la performance con un’inquadratura stretta di McCready, che pian piano allarga e a cui aggiunge un effetto clone che moltiplica l’immagine del chitarrista sui tre schermi. Una situazione simile si ripete anche poco dopo in Porch, dove il musicista – vera colonna portante dello show – si lancia contro il muro di amplificatori alla ricerca di qualche feedback e il Capitano decide di sfruttare un’altra camera, questa volta in controcampo, un’immagine quasi rubata in cui si percepisce il mare di pubblico. Fosse stato giorno si sarebbe potuti arrivare a vedere anche l’oceano in sé. Un altro gran momento di rock in una performance molto solida.
Eddie Vedder ritorna da solo sul palco con una chitarra acustica. Chiede prima che gli venga mostrato il pubblico accendendo le luci “di sala”. La Capitana agisce in fretta. Poi Vedder fa segno di volere solo un faro puntato su di lui. La Capitana risponde. «Forse è ancora un po’ troppo chiara, accecante», lamenta il musicista. La Capitana ne smorza l’intensità, Vedder ringrazia con un cenno della mano. «Vorrei suonarvi un brano che ho imparato tempo fa, quando il mondo era molto malato e ne aveva bisogno», appunta il musicista prima di aggiungere: «Usate il cellulare come una torcia, una fiamma, voglio vedervi tutti». Gli oltre 50.000 paganti diventano una costellazione bassa di lucine, mentre la Capitana sgomita per mantenere un equilibrio di luminosità tra il sotto e il sopra palco. Per la prima volta da quando è iniziato questo tour dei Pearl Jam (negli States, qui alla loro ultima data europea prima del ritorno in patria), Vedder si avventura in una versione chitarra e voce (e coro dei presenti) di Imagine di John Lennon. Lui non lo sa, ma pochi minuti prima in Pennsylvania qualcuno ha sparato a Donald Trump.
La Capitana accende delle luci color arancione caldo (sembra che le piacciano molto) che lasciano il palco quasi in penombra mentre scaldano il pubblico. È il finale di Black. Mentre la chitarra è lasciata sola nella ripetizione ossessiva del riff, il pubblico risponde cantando la parte all’unisono mentre con le mani viene scandito il tempo. È uno dei migliori momenti di dialogo tra l’audience e la musica dei Pearl Jam, che oggi sembra protrarsi ben oltre le aspettative dei tecnici.
La Capitana è tesa sul suo lunghissimo mixer luci, lo sguardo si muove dagli schermi che le mostrano le riprese al cielo di braccia che vede di fronte a sé e che ci divide dalla band. È pronta per il buio, ma il pubblico non vuole smettere di cantare. Il Capitano ha interrotto le proiezioni della band, ora sugli schermi si muovono fluidi fasci di luce (il tema fisico/spaziale di Dark Matter sarà ricorrente nei visual, come per esempio nella title track o in brani estratti dall’album come Waiting For Stevie o React, Respond) che rendono il palco un oggetto quasi misterioso nonostante sia stato di fronte ai nostri occhi per le ultime due ore. Il fonico controlla che i microfoni sul pubblico stiano catturando la magia, un suo collega dà un occhio alle registrazioni. Accanto alla Capitana la sua seconda in comando modifica qualche impostazione sconosciuta mentre alle sue spalle da dietro un’ultima barriera impenetrabile di schermi si scorgono gli occhiali di un altro tecnico. La chitarra scompare, i battiti di mani tacciono, le urla riempiono la location del festival. Ma è già tempo di Alive, e si riparte.
Pearl Jam at @NOS_Alive right now, Eddie Vedder opens encore, speaking about hope for a healing election and unity. Unclear if he heard the news backstage, but created quite the moment covering Imagine. pic.twitter.com/SBKgmQC8u1
— Philip Cosores (@Philip_Cosores) July 14, 2024
Quando comincia Rockin’ in the Free World, l’aiuto fonico inizia a ritirare le proprie cose: una serie di cavi, dei fogli, un’asta microfonica. Lo show si avvia alla conclusione (manca infatti solo Yellow Ledbetter). Il clima ora è rilassato come gli ultimi dieci minuti di scuola, quelli che anticipano la campanella. Di fronte a noi una grande band di un tempo passato sta lottando per sopravvivere in un mondo che ha presto dimenticato, o superato, tutto quello che sul palco sta accadendo. Gli assoli, i monologhi sulla pace nel mondo o sull’importanza e l’onore di poter suonar dal vivo (tema su cui Vedder sembra ancora molto scottato dopo la disavventura degli scorsi giorni), il rock.
I Pearl Jam però di tutto questo sembrano infischiarsene, e anche a ragione. Il pubblico è dalla loro (l’età è molto alta rispetto a un classico festival europeo, si aggira più sui 40 che sui 20-30) e come viene ribadito da Vedder durante uno dei suoi discorsi: «A volte il mondo ha bisogno di tutto questo». Non si può guardare al futuro senza storia, non si possono combattere i fascismi se non si ascoltano le storie partigiane. Non si può parlare di musica se non diamo valore a cosa ci ha portato fin qui. I Pearl Jam non sono solo la storia, sono il presente. Non potranno essere il futuro, ma questo lo sanno benissimo anche loro.
Il Capitano alza il piede dalla pedaliera, il fonico abbassa l’ultimo fader, la Capitana spegne le luci. Applausi.