Quante volte, nel mezzo di una nottata sregolata, vi siete trovati appoggiati al bancone di un bar poco raccomandabile a ordinare un giro di tequila, leccare il dorso della vostra mano, spalmare un po’ di sale per poi leccarlo nuovamente, ingollare lo shot di tequila e addentare frettolosamente una fetta di limone?
È probabile che il battesimo di molti ai distillati messicani sia avvenuto così, e che per molti l’immaginario Messico-uguale-alcolici-di-bassa-lega descriva ancora la realtà. D’altronde chi sceglierebbe mai un bicchiere con il frac per darsi il colpo di grazia al termine di una sbronza scenografica? La domanda si fa perché, ovviamente, c’è tutto un mondo oltre quel tequila di bassa qualità. E noi, proprio in Messico, abbiamo iniziato a esplorarlo.
Iniziamo proprio dal tequila. Innanzitutto, in spagnolo il sostantivo è maschile. Perciò, se vi trovate in Messico, Spagna o in un altro paese ispanofono, ricordate di chiedere un tequila, e non una tequila. La parola tequila deriva dalla parola in lingua nāhuatl tekilan (si tratta di una lingua anticamente usata dalla popolazione azteca) e significa “luogo dei lavoratori” (tekitl vuol dire “lavoro, ufficio”, mentre tlan vuol dire “luogo”).
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Il vero tequila si produce nello stato di Jalisco, nella parte centroccidentale del Messico (anche se ci sono altri quattro stati – tutti confinanti con Jalisco – dove si fa il tequila di denominazione d’origine). Potreste aver sentito parlare di Jalisco per la città di Guadalajara, o forse per la baia di Puerto Vallarta, meta gettonatissima dal turismo occidentale degli anni Ottanta. Le colline dello stato di Jalisco sono tappezzate di agave blu, e percorrendo le sue strade in verso la città di Tequila è facile perdersi con lo sguardo in questi ciuffi spinosi verde chiaro, quasi celeste.
Qui è dove nasce il tequila. Le piante (o maguey) vengono raccolte, sfrondate da tutte le foglie finché non resta che la piña, il cuore della pianta; vengono poi cotte, successivamente macinate; e il succo che si ricava viene fermentato e infine distillato. L’aspetto forse più curioso del tequila è che dobbiamo la sua esistenza a un pipistrello, il murcielago narigudo. Come racconta Pino Cacucci ne La polvere del Messico, questo minuscolo volatile dal naso pronunciato è in un certo senso il custode del tequila, perché si alimenta esclusivamente del polline dell’agave blu (non a caso anche nota come agave tequilana) e contribuisce, con le sue deiezioni, alla dispersione dei semi della pianta e – di conseguenza – alla sua riproduzione. Infatti, l’agave tequilana era presente anche in Texas e in Arizona, ma politiche ambientali poco sostenibili hanno mandato estinti il pipistrello prima, e la pianta poi. Pianta e pipistrello, quindi, hanno un’evoluzione simbiotica, e non potrebbero esistere l’uno senza l’altra.
Ma passiamo al sapore: probabilmente le prime note che capterete bevendo un chupito di tequila saranno dolci e acidule, per diventare poi più fresche o torbate a seconda dell’invecchiamento. Addentrandosi nel mondo tequilero si scopre infatti che ne esistono quattro varietà: tequila blanco (trasparente, non invecchiato), reposado (invecchiato per almeno tre mesi, massimo un anno, in botti di rovere), anejo (invecchiato da uno a tre anni in botti di rovere) ed extra anejo (invecchiato per più di tre anni).
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Tutto chiaro? Bene, perché la seconda tappa di questo viaggio ci porta a una sorta di antenato del tequila, una bevanda tradizionale messicana non distillata che affonda le radici nelle civiltà precolombiane del Messico: il pulque.
Il pulque si ricava intagliando in profondità l’agave maturo (deve avere dagli otto ai dodici anni) fino a raggiungere il cuore della pianta per estrarre un liquido zuccherino chiamato aguamiel. Questo succo viene fatto fermentare pochi giorni in vasetti di terracotta e diventa così una bevanda divina (e, forse divinatoria). La strada dal pulque al tequila vede l’intervento degli spagnoli, che introdussero le tecniche di distillazione in Messico e resero così possibile la trasformazione della bevanda.
Peccato, forse (si scherza, per carità): il pulque infatti è stato a lungo considerato un tramite per mettersi in contatto con le forze ultraterrene per via delle forti sbronze che causava. Per questo ne era permesso un consumo non superiore a quattro bicchieri al dì, eccezion fatta per i sacerdoti che potevano berne di più. Oggi si possono trovare delle pulquerias dove assaggiare questa bevanda precolombiana. Vi anticipo però che il sapore del pulque classico è un po’ respingente: la consistenza è densa e viscosa, il sapore è agrodolce e l’odore è molto forte. Per questo viene spesso aromatizzata con frutti tropicali, che rendono la bevuta decisamente più gradevole. Non essendo distillato, trasportare il pulque è impossibile, quindi potrete provarlo solo ed esclusivamente in Messico.
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Dopo il pulque, passiamo al cugino di primo grado del tequila, spesso frainteso proprio per tequila ma in realtà ben diverso: il mezcal. Anche questa parola trova origine nel nahuatl, e precisamente nella parola mexcalli, che significa “agave cotta”. La prima differenza con il tequila è che il mezcal non si ottiene dall’agave blu, ma da altre varietà della stessa pianta. Geograficamente siamo più a sud, nello stato di Oaxaca, più precisamente nella valle del Matatlan.
Se capiterete da quelle parti per rivivere le atmosfere che Salvatores racconta in Puerto Escondido, non potrete fare a meno di notare che nella città di Oaxaca tutto o quasi tutto ruota intorno alla ricchezza gastronomica della regione e al mezcal. Ma continuiamo: un’altra differenza importante con il tequila risiede nella composizione. Perché il tequila possa chiamarsi così deve avere almeno il 51% di succo di agave, mentre il mezcal deve avere il 100% di agave. Un’altra differenza cruciale risiede nella cottura, che per il tequila avviene ormai a vapore ed è abbastanza rapida (circa 36 ore), mentre per il mezcal si fa in forni interrati, interamente ricoperti da un telo e poi nuovamente da terra in modo da soffocare le piante, in assenza di ossigeno per evitare che le piñas brucino. In questo modo, la cottura dura dai tre ai cinque giorni.
Da questo processo e dalla bruciatura della legna deriva l’inconfondibile sapore affumicato del mezcal. Ma oltre al gusto, uno dei motivi che ha reso popolare il mezcal è senza dubbio il verme sul fondo della bottiglia. Innanzitutto, si tratta di una larva (gusano rojo o chiniquil) che infesta le piante di agave. Poi, il motivo del suo affogamento nel mezcal resta ancora incerto: c’è chi dice sia nato per scopi pubblicitari, così da rendere il prodotto più appetibile ai gringos; o ancora che sia una tradizione nata oltre cent’anni fa, inaugurata dopo la rivoluzione messicana. Ancora, altre versioni lo vorrebbero certificato di qualità: se la larva resta intatta, allora il mezcal è sufficientemente puro. Quale che sia, oggi le varietà di mezcal sono moltissime, e il distillato è abbondantemente utilizzato nella mixology.
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Tra le molte mezcalerie che si trovano nella regione di Matatlan o nell’adiacente Valle de San Dionisio, noi abbiamo raggiunto Madre Mezcal. Si tratta di un progetto che nasce cinque anni fa, ma che in poco tempo ha già conquistato diversi palati. Il maestro mezcalero ci ha illustrato tutte le tappe della fabbricazione del mezcal, dalla cosecha (la raccolta) passando alla cottura (per cinque o sei giorni nei forni), e poi la macinazione a cavallo (come si faceva l’olio nei frantoi), fino alla fermentazione in tinozza in legno.
Si impara così di prima mano che, tendenzialmente, si hanno due versioni di mezcal, espadin e cuishe, e che variano in base all’età della pianta: se è giovane (dai sei agli otto anni) è espadin, mentre se è più vecchia (dai 12 ai 15 anni) è cuishe. Quel che sia, ricordate: para todo mal, mezcal; para todo bien, también.
L’ultima tappa di questo viaggio ci porta nel Nord del Messico, nelle terre desertiche di Chihuahua, Durango e Coahuila. Questo è un Messico selvaggio, poco turistico e molto arido. Qui prospera una pianta selvatica che raggiunge la piena maturazione in quindici o vent’anni: si chiama sotol e dà il nome al distillato che ne deriva. Il nome botanico è Dasylirion wheeleri, mentre in inglese è conosciuta come desert spoon. Il sotol è un distillato antico che sta lentamente iniziando ad affacciarsi sul mercato europeo. Per capirci qualcosa in più abbiamo intervistato Giovanni Campari, fondatore di Birrificio del Ducato che ora si è dedicato alla distillazione à la messicana e del sotol in particolare.
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Letteralmente, sotol significa “spugna del deserto”, e in questo nome sta tutto il sapore del distillato che ne deriva. «È una pianta guerriera, che vive in condizioni estreme», dice Campari. Cerca acqua in tutti i modi per sopravvivere all’aridità della terra in cui cresce e alle escursioni termiche a cui è sottoposta, e si sforza quindi di assorbire tutti i minerali contenuti nella terra. Per questo il sotol «ha il sapore del deserto, perché le piante hanno una crescita così lenta che raccontano molto bene la terra».
Il risultato è un distillato più fresco, minerale per l’appunto, quindi anche più dolce ma ingannevole del tequila e del mezcal. Si beve liscio, si può utilizzare anche nei cocktail, ma i messicani spesso lo bevono alternandolo a una birra fredda. Il rischio, si può immaginare, è di berne in eccesso, realizzando troppo tardi che la gradazione alcolica tira comunque sui 40.
Il processo per ottenere il sotol è praticamente identico a quello del mezcal, solo che la pianta raggiunge l’età matura più tardi. C’è inoltre un’altra differenza nella fermentazione e nella cottura: nel sotol viene fermentata anche la parte fibrosa, mentre nel mezcal viene scartata. Infine, per la cottura del sotol viene normalmente utilizzato legno di noce (data la grande abbondanza di alberi di noce nel Nord del Messico) che dà, sempre Campari, «un’affumicatura più elegante» rispetto al mezcal.
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Al momento il sotol è meno conosciuto degli altri distillati messicani, ma è plausibile scommettere che inizieremo presto ad apprezzarlo anche alle nostre latitudini. Anche se, mettiamolo in chiaro: non berremo mai davvero come di beve in Messico. La nostra infatti, nota Campari, è una «ricerca edonistica, esotica», mentre in loco si tratta di bevande di sostentamento o accompagnamento abituale.
È questo tipo di divulgazione che Campari vuol immettere nel mercato con il suo progetto Terra Wild Spirits, obiettivo: «portare il terroir nei distillati». Dopo un grande lavoro di ricerca, è stato il primo europeo a recarsi nelle terre sotolere (e a essere accettato dalle comunità locali) per apprenderne le tecniche di produzione. La sua linea di sotol si chiama Padres De La Tierra, e se trovate qualche bottiglia nei bar che frequentate vi invito a provarlo. Nel frattempo, ¡que viva México!