Il cantante e pianista Elton John, l’autore dei testi Bernie Taupin e il produttore Gus Dudgeon amano dar forma alle loro fantasie. Una sera dell’estate scorsa mi sono ritrovato in una sala proiezioni a Los Angeles con tutti loro, oltre al chitarrista, al bassista e al gruppo di inglesi in abiti bianchi che segue Elton ovunque. C’era una proiezione speciale di American Graffiti, il film onirico di George Lucas su una notte di vita adolescenziale in una cittadina della California nel 1962. Osservare i musicisti inglesi guardare il film è stato quasi divertente quanto il film stesso, avevano le mascelle spalancate per la sorpresa, non volevano perdersi una battuta. In un certo senso è stato toccante.
L’ascolto del doppio Goodbye Yellow Brick Road ti espone a una dose massiccia di fantasie sfrenata, miti, sogni bagnati e sdolcinature, contiene una ampia gamma di ritratti musicali che rischiano di affondare appesantiti dalla loro pretenziosità, ma che alla fine redenti dal punto di vista commerciale da un paio di tracce brillanti su un totale di 17.
Le fantasie di Elton e Bernie non sono certo una novità per chi ama il pop. Nei loro primi dischi offrivano una versione deliziosamente British del mito del Far West americano, vedi Burn Down the Mission e altri pezzi. Elton era un gran cantante pop, scriveva melodie coinvolgenti sui testi interessanti di Taupin e aveva un batterista, Nigel Olsson, che sapeva il fatto suo.
Il nuovo album è una grande torta alla frutta che non è però stata cotta a puntino. Ma ci provano, quanto ci provano. La band di Elton è professionale e creativa. Il chitarrista Davey Johnstone è stata una bella scoperta quando qualche tempo fa è entrato nel gruppo: le linee di chitarra della hit Saturday Night’s Alright for Fighting ne testimoniano la potenza. Dudgeon alterna idee gustose e furbe con orchestrazioni languide che devono qualcosa a Richard Perry e a Mantovani. Trovo i testi di Bernie apprezzabili, anche se l’odio per le donne che emerge da questo ciclo di canzoni è impressionante da tanto rancore esprime, si vedano le parole di Dirty Little Girl che fanno sembrare la coppia Jagger-Richards dei dolci fidanzatini.
Mettiamola così: Goodbye Yellow Brick Road si inserisce nella tradizione del music hall britannico, è un insieme di quadri musicali slegati l’uno dall’altro e accompagnati da rock appariscente e dall’ispezione dei sentimenti interiori delle diverse versioni del personaggio di Elton John.
C’è un prologo strumentale di otto minuti pieno di suoni tempestosi e di cattivo gusto, un organo da chiesa che rimbomba, qualche chitarra che sarebbe anche monumentale se solo non fosse fuori contesto. Arriva poi Love Lies Bleeding, un pezzo rock con un ritornello potente e maestoso. Candle in the Wind è la prima fantasia lirica di un certo peso, la melodia è graziosamente solenne e incredibilmente sdolcinata. È un’erezione necrofila per Marilyn Monroe, nonostante il testo che dice “Addio Norma Jean / Dal ragazzo in 22esima fila / Che ti vede come qualcosa di più di un oggetto sessuale / Più della nostra Marilyn Monroe”. Che stronzata.
Mi piace la traccia finale del lato A Bennie and the Jets, un numero in stile Sgt. Pepper’s (compresi gli applausi del pubblico sovraincisi) su una mitica rock’n’roll band. La voce di Elton è sia drammatica che divertente. Anche la title track che apre il lato due è sdolcinata, dedicata a qualche povero sfigato dello showbiz con cui i ragazzi dicono di non voler avere più niente a che fare.
C’è poi This Song Has No Title e giustamente perché fa schifo, il testo sembra scritto da Robert W. Service sotto trifluoperazina su una melodia alla Tom Paxton. Jamaica Jerk-Off è una tremenda parodia reggae che se non altro ha un buon ritornello. Torna indietro, honky cat. Sei bravo, ma anche dando il massimo verresti spazzato via dal palco da Bob Marley coi Wailers, tu con gli ampli e loro senza. Quindi, sorridi quando canti queste canzoni.
Grey Seal è un bel pezzo veloce e ben prodotto, uno dei pochi numeri con una grande produzione riuscita dall’inizio alla fine. I’ve Seen That Movie Too è eccellente, ma amarissima. È fra i lenti il pezzo forte dell’album, assieme a Candle in the Wind.
Movie è il primo di cinque ritratti di donne quasi misantropici da tanto sono carichi di rabbia. Sweet Painted Lady è un pezzo da music hall sdolcinato su un personaggio trito, la prostituta dal cuore d’oro “pagata per essere scopata”. Che faccia tosta devono avere Elton e Taupin anche solo per avere avuto il coraggio di registrarla. E incredibilmente l’hanno fatta franca.
Con All the Girls Love Alice siamo in territorio Stones. È un pezzo su una ricca sedicenne lesbica che muore giovane. È hard rock con un bridge tenero e insieme a Saturday Night è la cosa migliore del disco (sto cercando di capire se Saturday Night è stata scritta prima o dopo aver visto American Graffiti.) Nel quarto lato si va di male in peggio: Roy Rogers tratta di droga nella classe media, ma manca il bersaglio nonostante Elton canti in modo eccezionale, Social Disease è l’ennesima canzone sull’essere ubriachi, mentre Harmony chiude l’album su una nota ambigua, nulla di che.
Che ce ne facciamo di Elton John? Può cantare, suonare, emozionare e guidare una band, ma non riesce a dirigere bene la baracca. Se non fosse stato doppio, Goodbye Yellow Brick Road sarebbe stato un disco delizioso, anche se un filo debole. Ma le melodie migliori sono messe in ombra da banalità e sentimenti stranamente negativi. Non tutte le fantasie sono perfette. Quelle brutte rovinano il disco di un bravo ragazzo.
Da Rolling Stone US.