Storia della nostra distillazione, che parla anche di canna da zucchero e, sì, di rum | Rolling Stone Italia
...e una bottiglia di rum

Storia della nostra distillazione, che parla anche di canna da zucchero e, sì, di rum

Complice il cambiamento climatico, in Sicilia (e oltre) si sta recuperando una coltura antica introdotta dagli arabi, che sta portando alla nascita di rum di metodo agricolo (ma non chiamateli "agricole") decisamente interessanti e, come tutte le cose intense, anche un po' sexy

canna da zucchero

La canna da zucchero di Alma Distilleria a Modica

Foto: press

La cannamela (o cannamele) ha un nome che è un programma. Lo si rintraccia facilmente, scorporando i membri che ne compongono l’equazione: canna più miele uguale canna dolce, che rende dolce, canna da zucchero. Arriva dal dialetto siciliano: perché, prima che in Europa lo zucchero per antonomasia diventasse quello di barbabietola (ve le ricordate le fasce climatiche di coltivazione dall’ora di geografia alle elementari?), il Sud-Est asiatico aveva donato al Vecchio Continente una strada alternativa alla dolcificazione.

L’avevano introdotta gli arabi prima che l’anno di grazia girasse il mille. L’avevano fatta sbarcare sulle coste dell’isola della Trinacria, calde a sufficienza per tenere la pianta in vita. Fino al 1600 circa, quando alcuni cambiamenti climatici resero il clima dell’isola più arido, rendendo più difficile far prosperare la canna, pianta assetata, la produzione di zucchero fu florida. Poi, incidentalmente, venne scoperto un nuovo continente, 1492. E, complice il clima favorevole dei Caraibi e la presenza di manodopera ridotta in schiavitù – dunque a costo zero – si preferì abbandonare la coltura, non più davvero redditizia.

Inizia così la nostra relazione complicata con la canna da zucchero, europea ma italiana in particolare: con un flirt che, come quello di due star-crossed lovers, si interrompe anzitempo, e lascia aperto un discorso dove le parole sono volate via.

Per fortuna, da dieci-quindici anni a questa parte i due piccioncini sono cresciuti, si sono ritrovati e, recuperando l’antica alchimia, sembra abbiano deciso di stendere piani per il loro futuro. «Sta arrivando anche in Italia un risveglio nell’interesse verso la distillazione diciamo artigianale, ovvero che non avviene nel contesto della grande industria, e che può partire anche con metodi casalinghi. La prima distilleria di questo tipo è nata in California nel 1982, e da allora i numeri hanno parlato di un consumo di riappropriazione: dopo il Proibizionismo e dopo i grandi gruppi, è come se fosse tornato più democratico, come se la distillazione fosse scesa per strada».

distillazione rum

Foto: press

A parlare è Claudio Riva, tra i fondatori di Whisky Club Italia, della fiera Distillo, di Craft Distilling Italia (che si occupa di aiutare chi voglia avviare un’attività nella distillazione nello Stivale) e tra i massimi esperti italiani di whisky (ma anche di whiskey) e distillati. Ci sentiamo perché ho una domanda (vabbè, non proprio solo una) da fargli: com’è che in Italia sembra stiamo cominciando a parlare anche di rum, canna da zucchero, cose che suonano inaudite (i dati mostravano l’inizio di questa tendenza già nel 2020, anche se il focus era sui grandi nomi)? Salta fuori che, Storia alla mano, di bislacco non c’è proprio nulla. Ma andiamo con ordine.

«Cominciamo dalla distillazione in generale. In Italia la tradizione ha sempre virato su grappa e brandy, per quanto non abbia saputo imporsi nel mercato estero, essere riconosciuta diciamo. Non è mai davvero diventata trendy. Ultimamente diverso è stato con il gin, che ha cavalcato l’interesse internazionale. Distillare gin è piuttosto semplice, sia dal punto di vista pratico che burocratico. Nel primo caso, perché basta aggiungere le botaniche a una base di alcol. Nel secondo caso, perché lo Stato italiano richiede il pagamento delle accise sull’alcol già pronto, mentre nel caso di distillati che hanno origine da una materia prima che viene fatta fermentare per produrre alcol vengono pagate sono all’imbottigliamento, quando appunto l’alcol “esiste”. Quindi non si crea un clima di fiducia, e la stretta su eventuali utilizzi illeciti è molto forte. Che va bene, ma allo stesso tempo questo controllo quasi spasmodico rende le cose più difficili a chi voglia fare impresa».

distillazione rum

Foto: press

Intendiamoci: non è che di spirits non se ne bevano, in Italia. Ma il consumo è generalmente rimasto circoscritto, e il consumatore medio non è informato in profondità sui distillati in generale. Trainati però da queste facilità legate al gin, e dal successo globale di questo spirit, da circa il 2018 le cose iniziano a muoversi, lentamente, anche dalle nostre parti, nella direzione appunto di quella distillazione artigianale di cui sopra. Quello è l’anno di nascita della distilleria Eugin, per esempio, prima distilleria della Brianza, ma anche dell’attività di Riva. Oggi se ne contano più di venti, di micro-distillerie in Italia. Le etichette di gin “artigianali”, invece, già non si contano più (guardare i dati per credere).

Riva scherza, ma l’affermazione è centrata: «Ormai basta rivoltare un sasso per strada per trovarci sotto un nuovo gin artigianale» – per cui si parla, naturalmente, di produzioni in white o private label. «Diverso è per il whisky, con cui si sta iniziando a sperimentare giusto ora per il grande interesse internazionale. E anche per il rum, nonostante il legame storico con la nostra terra». Riprendiamo allora da dove ci eravamo fermati nel racconto di questa storia d’amore.

distillazione rum

Foto: press

«Dopo la Sicilia, che fu il primo approdo della canna da zucchero nel Mediterraneo, si è passati a Madeira, e già lì la produzione dialogava con quanto si stava facendo dall’altra parte dell’Atlantico, nei Caraibi. È bene sottolineare che il rum non nasce come genere di consumo edonistico: le piantagioni servivano per lo zucchero, che era considerato una spezia e si vendeva a caro prezzo sul mercato europeo. La produzione, se così la vogliamo chiamare, partì proprio dagli schiavi costretti a lavorare su quella terra: recuperavano gli scarti della lavorazione della canna, li distillavano in maniera rudimentale scaldandoli e usando lo zucchero naturalmente presente in essi. Il risultato era poi impiegato alla stregua di un alimento o di una medicina. Serviva per andare avanti, e per avere un briciolo di nutrimento in più».

Le cose iniziano a cambiare con Napoleone. Il commercio con i Caraibi viene quasi interamente monopolizzato dagli spagnoli, secondo arriva il Regno Unito, i francesi rimangono indietro su un giro d’affari imponente. Capite le potenzialità dello zucchero come bene di consumo, Bonaparte mette i suoi al lavoro. Sarà a seguito di questi sforzi da guerra commerciale (portati avanti con la scusa del voler evitare i pirati) se in Europa prenderà piede la barbabietola da zucchero, coltivabile perfettamente su suolo europeo.

alma distilleria

La piantagioni di canna da zucchero di Alma Distilleria, a Modica. Foto: press

«A questo punto, le piantagioni di canna da zucchero caraibica sono messe a repentaglio, perché vedono sfiorire il loro mercato principale. Aumentano i costi di gestione perché diminuiscono i ricavi, la materia prima va in esubero, e per mettere a reddito qualcosa, e non gettare via il prodotto, si iniziano a usare i sottoprodotti della lavorazione come base per la distillazione, appunto, del rum. Qui nasce il rum che definiamo “tradizionale”, ottenuto a partire dalla fermentazione della melassa, che è una massa di cristalli concentrati e troppo sporchi per essere trasformati in zucchero puro».

Il rum insomma – tra parentesi: sull’origine del nome non ci sono certezze, ma potrebbe tanto derivare dall’onomatopeico rumble rumble della fermentazione che dalla parte finale del nome latino della canna da zucchero, saccharum officinarum – viene levato dalle sue origini di sussistenza e si fa escamotage di fatturato. Grazie ai collegamenti con il mercato europeo ma soprattutto con la sete degli Stati Uniti, il commercio prende piede. Per le piantagioni di canna da zucchero, però, non basta. E tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 vengono progressivamente sostituite da altre colture più redditizie per il momento storico: banane, caffè, cacao.

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La canna da zucchero di Alma Distilleria, a Modica. Foto: press

«In tutto questo avviene anche la coincidenza storica che porterà alla nascita del cosiddetto rum agricole. Siamo nel 1901 in Martinica [isola delle Antille e dipartimento d’oltremare della Francia, ndr], che si trova su una placca tettonica vulcanica. Avviene un’eruzione fortissima, e mette in ginocchio gli ultimi zuccherifici rimasti. La canna da zucchero però sopravvive. E così, senza i mezzi per arrivare al sottoprodotto melassa, in Martinica si comincia a fare rum direttamente dal succo della canna da zucchero. Eccolo, è questo il rum agricole. Il suo arrivo fa un attimo ringalluzzire il mercato, il consumo prende piede velocemente e si cementifica tra l’altro nel suo legame con la Francia. Infatti, tutt’oggi i francesi sono grandi bevitori di rum agricole, e sono il mercato europeo più preparato sul rum in generale. Nel 1996 è stata approvata la DOC per il rum agricole, legata alla Martinica. Questo vuol dire che solo un rum di Martinica può dirsi agricole, gli altri sono realizzati “con metodo agricolo” o “agricole”».

E così è come il rum, da bevandaccia sfasciastomaco, è diventato delicatezza da club, luci soffuse, bicchieri panciuti e sigaro in bocca, magari un cioccolatino ad accompagnare. In Italia, però, oltre ai gusti individuali poco si muove. Bisogna aspettare l’iniziativa di Corrado Bellia, Presidente del Consorzio della mandorla di Avola, che sei anni fa decide di far ripartire la Sicilia dalla liaison interrotta con la canna da zucchero.

 

 
 
 
 
 
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Continua Riva: «Bellia aveva capito che il riscaldamento globale avrebbe favorito la ripartenza della coltivazione della canna da zucchero, e questo perché per distillare serve un grande concentrazione zuccherina, e per averla la pianta deve crescere in climi molto caldi. Così, conscio della storia e dell’intervento degli arabi sul territorio, piantò canna da zucchero sulla superficie diciamo di un campo da calcio, poi fece una prima spremitura come fosse agricole. Quattro anni fa esce sul mercato il distillato di Avola Rum, il primo in Italia. Non hanno una loro distilleria, però, si appoggiano a dei colleghi di Messina».

Anche in altre parti d’Italia si giunge a parlare di rum “locale”. Siamo in Campania, a Caserta, dove parimenti sono stati ritrovati documenti storici riguardo alla presenza nell’area della canna da zucchero. «Qui la mano è stata quella di Antonio Di Mattia, che si è fatto guidare da Vittorio Capovilla, tra i migliori distillatori del mondo, e ha creato il suo rum Berolà. Tra l’altro la collocazione geografica è particolarmente interessante, perché nella zona aveva stanza la scuola medica salernitana, che aveva recepito le tecniche di distillazione ancora una volta portate dagli arabi».

 

 
 
 
 
 
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C’è poi una terza direttrice nel rum distillato “artigianalmente” in Italia, oggi. Scorre ancora una volta in Sicilia, a Modica per la precisione, e ci è arrivato un po’ per caso. La storia è quella di Hugo Gallardo, Annalisa Spadaro e Alejandro Lopez, i tre soci dietro Alma Distilleria, prima in Italia ad aver racchiuso in sé l’intero ciclo di produzione e distillazione della canna.

Parlo al telefono con Gallardo, che mi spiega che no, la Sicilia non era esattamente la prima scelta sua e di Spadaro, con cui è sposato. «Io sono un ex manager della comunicazione, mia moglie è fashion designer. Avevamo deciso di fare qualcosa di nuovo, aprire una distilleria, e per farlo eravamo pronti a trasferirci nelle Filippine. Lavori mollati, terra presa in leasing per avviare la coltivazione, studi fatti, tutto pronto. Solo che era il 2020. Eravamo scesi dai genitori di Annalisa, a Modica, per far passare un di tempo con i nonni alla nostra bambina prima del trasferimento – è andata a finire che ci siamo rimasti».

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Tre prodotti di Alma Distilleria. Foto: press

Allora, come tutti in questa storia, Gallardo, che di origine è di Barcellona, ha iniziato a studiare. Ha scoperto le radici storiche della canna da zucchero in Sicilia, hanno deciso che quella terra meritasse un atto di fede. Così, nel 2021, hanno iniziato a sperimentare con quattro varietà di canna da zucchero. Hanno aperto l’azienda e quest’anno, a tre anni dall’inizio (e dall’arrivo dei permessi burocratici), hanno messo in commercio il primo batch di rum bianco prodotto con metodo agricolo – ricordiamo che del rum esistono due macro-varianti, la bianca e la scura; la seconda è più invecchiata, tendenzialmente in botte, di cui prende aromi, odore e colore.

Anche il rum di Alma, comunque, passa in barrique. Dal singolo ettaro di canna da zucchero che avevano, ora sono arrivati a tre. «Non mi interessa essere il primo in niente», mi dice Gallardo. «L’importante è essere l’ultimo. L’ultimo ad andarsene». Nonostante la filosofia, quest’anno Mater, il loro rum da varietà di canna viola e con lievito selvaggio selezionato (il lievito va inserito a discrezione del distillatore durante il processo di fermentazione, e diversi lieviti possono restituire risultati differenti), ha ricevuto la medaglia d’oro alla London Spirits Competition, gara internazionale a cui hanno partecipato oltre 2000 marchi da più di 80 paesi del mondo.

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Il team di Alma Distilleria. Foto: press

Prodotto con distillazione discontinua – che prevede l’utilizzo di due alambicci e due fasi di distillazione, la prima per separare l’alcol dall’acqua, la seconda per raffinare l’aromaticità del batch; l’altro metodo è la distillazione continua, che prevede un solo alambicco ma a due colonne -, Mater se la porta dietro, la Sicilia da cui nasce, al naso e al palato, tra zagare e punte di fiori. Non è strano, dice ancora Riva, perché «per un rum, per un bevitore di rum, il terroir è fondamentale». In quanto, appunto, la materia prima da cui si ricava ne esprime uno.

«La cosa che ci piace del produrre in Italia», mi spiega Gallardo, «è che non abbiamo disciplinari di produzione a cui doverci attenere. Possiamo sperimentare con le varietà della canna, con la gestione del raccolto e dell’invecchiamento, è divertente. E poi in Sicilia ci sono tanti sbalzi termini tra le stagioni, e questo fa lavorare bene la barrique. Oddio, diciamo che la barrique lavora, ecco. Che ci dà qualcosa che gli altri, in altre zone, non possono ottenere».

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Lavoro sulle botaniche per il gin di Alma Distilleria. Foto: press

L’elogio per il terreno siciliano è condiviso anche da Riva: «Il clima siciliano è meraviglioso, raddrizza tutte le stortura che una mano inesperta a distillare potrebbe provocare. Per ora non si tratta di un prodotto pop, ma soprattutto perché, come dicevamo, il consumatore dev’essere educato, parte tutto da lì. Il mercato non è ancora pronto, la bevuta nazionale del rum è praticamente inesistente, c’è un ritardo consistente rispetto agli altri distillati. Poi oh, si sa che gli italiani alla fine, quando trovano qualcosa di buono, ci mettono poco a farselo piacere. È solo questione di tempo, perché i prodotti che stanno nascendo sul nostro territorio sono buoni già ora che siamo alle prime distillazioni. Il margine di crescita è davvero ampio».

Gallardo conferma le impressioni: «Siamo tutti newcomers nel campo, tutti stiamo sperimentando seguendo un po’ la nostra creatività e il nostro istinto, e sono sicuro che questo finirà per arricchire il panorama. Lo si vede già nell’apprezzamento che il prodotto sta avendo all’estero. Guarda: il primo mercato estero per l’export che abbiamo chiuso sono stati gli Stati Uniti, che di solito è il più difficile. Intanto, i professionisti della bar industry si stanno già affezionando a Mater [pensare che già l’anno scorso i bookmaker davano il rum come principe della mixology dell’estate]. Allora quello che voglio fare io è unire la scena siciliana, trovare un’identità per il distillato che stiamo producendo, e dargli un ruolo forte nel mercato. Questi per me sono i next step».

 

 
 
 
 
 
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Nel mentre, Alma produce anche un gin, Mater, in stile London Dry e sempre in distillazione discontinua (esce al pubblico a 38,50 euro, Mater Rum a 48,50). «Distillare gin fa rientrare nei costi molto più facilmente, è più sostenibile, non hai una filiera agricola da portarti dietro», questo ancora Riva. «Se teniamo conto del fatto che il prezzo al dettaglio può variare tra i due distillati, ma non eccessivamente, una bottiglia di rum può gravare sul produttore per, diciamo, tre volte tanto rispetto a una di gin».

It’s a long way to the top, cantavano gli AC/DC, ma anche verso il fondo della bottiglia la strada parrebbe non scherzare. Quando però inizieremo a non farci abbindolare da chi sull’etichetta scrive “rum agricole di distilleria fondata nel 1600” (storicamente inaccurato), o quando ci limiteremo, con buon gusto, a chiamare in causa le parole quando servono – agricolo e non agricole, per esempio, se un rum non proviene effettivamente dalla Martinica – i prossimi passi verranno da sé. Perché l’unica verità l’ha espressa, in fondo, proprio Riva: quando una cosa è buona, non c’è pregiudizio che tenga. Specie se si tratta di una bevuta tosta e un po’ sexy come il nostro rum.