Quando uno va a un concerto dovrebbe concentrarsi solo su quello, ma nel caso dei Diaframma alla Festa Rossa di Lari, in provincia di Pisa, una premessa ambientale va fatta. È stato come entrare in un varco spazio-temporale del passato, una bolla rimasta agli inizi del 2000. Oggi che (secondo gli organizzatori) c’è bisogno di risvegliare un moto dello spirito, un vagito contro la deriva di destra, la festa non è più dell’Unità, ma letteralmente diventa Rossa, più marcata, più decisa. Falci e martelli ti accolgono già all’entrata dove sventolano le bandiere dell’URSS. Cristo santo! Non vedevo quella simbologia da più di vent’anni, quando la Toscana rossa dei paesini e dei circoli Arci esisteva ancora.
Non è tanto l’anacronismo a colpirti, quanto l’effetto di stare in una sorta di riserva naturale in cui una specie si protegge dal tempo. Niente deve cambiare. Dentro la festa ritorno ventenne tra decine di rastoni, fricchettoni con i cani, incensi, cannoni, dilatatori alle orecchie e sandali. Chiedo il gelato al pistacchio e mi dicono: no, è canapa! Vendono i lecca lecca alla cannabis, i magneti per il frigo di Lenin e Gramsci, tutto l’outfit di magliette del Che («della Che Guevara avete i borselli?» diceva Checco Zalone in Sole a catinelle). Sarebbe bieco consumismo ma è sagacemente anticapitalista, quindi è ok.
Il culmine rosso è raggiunto nel capannone solidale in cui si pasteggia tutti assieme. Gli uomini fanno mansplaining su Palestina, overtourism e i biglietti dei CCCP a 50 euro ché è una vergogna; le donne tengono in braccio i bambini, in un cortocircuito tutto italiano per cui il patriarcato è qualcosa che manco la sinistra ha abbattuto.
Tutto è teatrale, scenografico, tutto è simbolico. Mangi sotto la bandiera con il volto di Öcalan (che avevo rimosso e ho scambiato per Saddam Hussein), il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e poi il capo tribù, credo uno degli organizzatori della festa, prende il microfono per mandare affanculo la Meloni e incitare tutti a un canto coatto di Bella Ciao che finisce quasi in tragedia, con urla, mani che battono sui tavoli, pugni chiusi, brindisi e il rinforzo canoro di un altro compagno anziano che impreca prossimo al pianto contro non so quale fascio.
È tutto talmente anacronistico che è fuori luogo. Provo imbarazzo. Ma al tempo stesso son contento di non essere a un concerto con il pit, il pass, il token e tutte le forme di strozzinaggio in voga oggi. Sono contento di questo viaggio nel tempo. Poi finalmente, il concerto. Classico impianto da Festa de l’Unità per cui si sente poco e male, ma Federico Fiumani vestito di bianco e con i capelli verdi ripaga di tutto quello che ho passato. Lo fa nel modo più naturale, stonando a volte (lo dice pure lui sul palco stremato a fine concerto), essendo visibilmente affaticato e sessantaquattrenne. «Quando mi vedete fare così con il braccio non è per fare il figo ma perché ho la sclerosi multipla dal 2011 e gli accordi in barrè non mi riescono più come prima». Sincero, vero, spigoloso. «È tutta la vita che ci considerano i fratellini scemi dei Litfiba, quelli che non hanno fatto i soldi. Ma se me lo avessero chiesto io mi sarei sicuramente venduto, senza problemi». Lo stimo. Non sono nemmeno un fan dei Diaframma ma lo divento immediatamente dopo questa frase.
Non è il concerto della vita dei Diaframma, che si esibiscono davanti a una bandiera di Lenin che recita “costruiamo l’alternativa al sistema”, scritta che potrebbe essere di vent’anni fa come di ieri, tanto che l’alternativa ancora la si cerca. Il repertorio della band scivola via veloce in canzoni arrangiate ancora come in sala prove: chitarra, basso e batteria. Un po’ scrause. Distorsore a palla e a volte non si capisce niente, ma ogni tanto nel fumo di suoni senti Neogrigio, Labbra Blu, Siberia. Si capisce poco o niente del suono, della voce, ma anche lì ti rendi conto che sei a una messa. Si celebra una band che poteva esistere solo in un mondo del passato e che per questo oggi ha un suo valore storico, che suona semplice come quando la musica non doveva essere wow o romperci il cazzo con i tormentoni e i video in 8k. O meglio, quando i tormentoni erano esistenzialisti e arrabbiati, davvero di provincia, davvero lo-fi. È romantica questa decadenza, questa andatura zoppa.
Gruppi contro, gente presa male ma artistica, un tentativo di essere liberi… questo tipo di cultura in Italia è nata negli ambienti di sinistra, nelle feste dell’Arci, nei festival indie e oggi quegli ambienti non esistono più e nemmeno l’indie, e forse è un peccato. Anzi, di sicuro. Non è tanto che ti sembra di assistere alla fine dei Diaframma quanto alla fine nostra. La fine di una zona in cui esisteva la controcultura, l’alternativa. L’avevamo già costruita un’alternativa al sistema e manco ce n’eravamo accorti, l’abbiamo inabissata nelle ideologie più spaccamaroni e moraliste e irrealistiche della storia e oggi ci tocca Tony Effe come contrappasso. I Diaframma vanno via e chiedono di comprare i loro cd, ma alla fine vado via anche io e non compro niente. Anche io ho contribuito forse ad affossare l’alternativa. Siamo tutti un po’ colpevoli, ma nella vita ognuno ha i cazzi suoi e per questo le rivoluzioni sono ormai impossibili. Già è tanto canticchiare spensierati ogni tanto.