Kamala Harris e i Democratici hanno dato il via ieri alla convention che poterà alla nomination dell’attuale vicepresidente. Mancano poco più di due mesi al giorno fatidico in cui gli Stati Uniti scopriranno se il prossimo leader del mondo libero sarà lei oppure l’ex presidente Donald Trump.
Per buona parte degli alti funzionari di partito riuniti questa settimana, quella di Chicago non è una convention qualunque. Non è il solito party lungo quattro giorni, tra feste brandizzate che vanno avanti fino a tarda notte, incursioni di celebrità hollywoodiane e (cosa non secondaria) litri di alcol gratis.
Quest’anno le cose sono diverse o se preferite la realtà è ben più drammatica. La convention rappresenta l’abbrivio ufficiale della battaglia per le elezioni presidenziali contro Trump. Come dice a Rolling Stone un parlamentare democratico, «è la battaglia della nostra cazzo di vita».
«Un paio di giorni dopo l’annuncio del ritiro dalla corsa di Biden», ricorda Mallory McMorrow, senatrice democratica del Michigan a Chicago per la convention, «ero a un evento nel mio distretto elettorale. Con me c’erano delegati, volontari, organizzatori. Uno di loro m’ha detto che qualche giorno fa era pronto a mettersi d’impegno per l’elezioni, ma con una certa tristezza. Ora invece è pronto a fare l’impossibile. Si respira tutta un’altra aria».
C’è un’espressione che ricorre tra i liberal impegnati a tenere Trump fuori dallo Studio ovale e metterci Harris: quella che si sta consumando è per loro «la battaglia della vita». È una frase diventata popolare soprattutto dopo il ritiro di Biden. Se è vero che negli ambienti politici e giornalisti definire un’elezione come «la più importante della nostra vita» è diventato uno stupido cliché, è altrettanto vero che questa volta la posta in gioco è incredibilmente alta. Trump e i repubblicani hanno ribadito più volte di volere implementare un programma rabbiosamente anti-immigrati, autoritario e spudoratamente vendicativo nel caso in cui l’ex pluricondannato presidente dovesse tornare al potere.
Prima che si ritirasse dalla corsa, la candidatura di Biden suscitava viva preoccupazione all’interno del partito per via della sua età e della lucidità, per non dire dei sondaggi che facevano presagire una sconfitta. Parlando con funzionari di partito, finanziatori e attivisti era facile sentire parole come funerale, deprimente, disperazione, incubo. Con Biden candidato, molti si erano rassegnati a una nuova era di Trump.
Poi Biden si è fatto da parte e ha appoggiato Harris. Anche altri big democratici lo hanno fatto, rendendo sempre più solida la sua candidatura. I sondaggi non danno Harris in vantaggio, ma si è registrata un’impennata di consensi, accompagnata da un entusiasmo che ha messo in difficoltà Trump e ha spaventato alcuni dei suoi alleati che già davano per certa la vittoria. Ha anche dato all’élite democratica una botta di speranza. Il ritorno di Trump forse non è inevitabile.
Comunque vadano le elezioni a novembre, l’umore dei vertici del partito e tra i ranghi alla convention di Chicago è buono. Con l’avvento della ticket Harris-Walz, la sensazione è quella di trovarsi alla vigilia di una lunga e dura rissa da bar con Trump e le orde MAGA. Entrambe le parti sono pronte a combattere in modo sporco. O, come ha detto un funzionario democratico, il partito non pensa più che «quando loro cadono in basso, noi saliamo», il grido di battaglia dei liberal nel 2016 che non ha evidentemente funzionato.
«A quanto pare, stiamo finalmente facendo quel che i repubblicani del Michigan han sempre fatto: serrare i ranghi e pensare solo allo scopo finale. È molto diverso dalle elezioni passate, siamo di fronte a una crisi di tipo esistenziale, i democratici hanno finalmente capito che non possono permettersi di non filare a tutta velocità come un solo corpo», dice McMorrow. «La gente ha capito qual è la posta in gioco, non c’è bisogno che ce lo dica il partito. Dobbiamo essere entusiasti e appassionati. La gente vuole sentire che siamo una squadra vincente».
In quanto alla posta in gioco per Trump, non si tratta solo di rivendicare la sua eredità politica. Per via delle accuse penali e dei processi che lo attendono, le probabilità che finisca in prigione aumenteranno considerevolmente in caso di sconfitta. Se invece dovesse essere Harris a perdere, aumenterà notevolmente la probabilità che importanti esponenti democratici vengano indagati o perseguiti penalmente dal governo Trump per ritorsione o vendetta.
«So che sembro allarmista quando lo dico, ma credo davvero che la democrazia sia in pericolo. C’è un uomo che vuole rimodellare il nostro governo per piegarlo alla sua volontà, con una deriva autoritaria», dice Sarah Matthews, ex vice portavoce di Trump alla Casa Bianca.
«Sono cresciuta in una famiglia decisamente conservatrice e ho lavorato coi repubblicani per una vita, ma la posta in gioco in queste elezioni va oltre le idee politiche», continua Matthews. «Non sono d’accordo con le politiche della vicepresidente Harris, ma sono disposta a mettere da parte le differenze e votare per lei perché uno come Donald Trump dovrebbe stare il più lontano possibile dallo Studio ovale».
Da Rolling Stone US.