Oasis, come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare mio fratello | Rolling Stone Italia
Non voltarti indietro con rabbia

Oasis, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare mio fratello (grazie a decine di milioni di sterline)

La tensione tra Noel e Liam, la rivincita dei marginalizzati dei quartieri operai, l’insult comedy in versione rock’n’roll. Pensieri attorno alla reunion del decennio

Oasis, ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare mio fratello (grazie a decine di milioni di sterline)

Oasis

Foto press

Quelle dei fratelli coltelli, consanguinei stretti accomunati da un destino scritto nelle stelle che però culmina in tragedia fratricida sono storie alla base dei miti di fondazione del sociale che esistono sin dalla notte dei tempi. Tra in più antichi in assoluto c’è il mito egizio di Osiride, ucciso dal fratello Seth per invidia, essendo Osiride il primogenito amato e stimato da tutti. Nella tradizione ebraica troviamo Caino, il primo uomo nato sulla terra che nella Genesi aggiunge al medagliere anche il primato del primo assassino, uccidendo il fratello minore Abele, il figlio preferito di Dio.

I miti greci e latini pullulano di bros che non si sopportano, ma se il conflitto greco tra fratelli lega entrambi a una sorte comune (non occorre tirare in ballo l’esempio di Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, lo conosciamo tutti), nella cultura latina la rivalità fraterna si conclude con la vittoria di uno dei due contendenti (vedasi Romolo che fa il culo a Remo e fonda Roma). Anche la terra d’Albione non è stata immune alla forza archetipica del mito dei fratelli rivali: non stiamo ovviamente parlando delle ridicole scaramucce piagnucolanti tra William e Harry ma dei veri reali d’Inghilterra, i Gabriele e Silvio Muccino del Brit pop: Noel e Liam Gallagher.

Ora, a meno che non siate degli anacoreti che vivono adagiati sul fondo delle Grotte di Frasassi vestiti di muschi e licheni avrete sicuramente sentito che dopo 15 anni il dinamico duo di cafoni ha seppellito l’ascia di guerra per strombazzare al mondo l’imminente stringa di 14 date nell’estate del 2025 negli stadi di Cardiff, la natia Manchester, Londra, Edimburgo e Dublino (i biglietti saranno in vendita a partire dalle 10 di sabato 31 agosto). Una notizia che ha scatenato l’euforia incontrollata dei fan di tutto il mondo e una produzione di meme che non si vedeva dai tempi dello schiaffo di Will Smith a Chris Rock alla notte degli Oscar.

Questa è la reunion che il mondo attendeva da 15 anni, strategicamente pianificata in corrispondenza del 30esimo anniversario del magnum opus/disco della consacrazione (What’s The Story) Morning Glory, quello che proietta definitivamente i due buzzurri di Burnage nel firmamento delle rockstar, sancendo definitivamente la vittoria nella rivalità con l’altra band simbolo della rinascita musicale inglese negli anni ’90, i Blur. Ma qualcuno credeva davvero che quei quattro fighettini di Damon e compagni vestiti Sergio Tacchini e Ben Sherman e usciti dall’art college avessero speranze contro due hooligan incazzatissimi in maglia da calcio Umbro, jeans pisciati e Adidas da spacciatore rumeno, perfetto sottoprodotto del proletariato vessato da anni di amministrazione Thatcher?

I Blur, con la loro autoironia, coi loro video colorati nei quali citavano Quadrophenia duettando con Phil Daniels, i loro arrangiamenti articolati e non scontati erano il PD di Elly Schlein, incapaci di farsi capire da tutti, di rendersi simulacri delle masse. Gli Oasis, al contrario, curvi sui loro strumenti a macinare giri di accordoni prevedibili e melodie epiche, posturalmente già puniti da un’infanzia di botte, sussidi e congiuntivi sbagliati, erano i 5 Stelle del 2018 che distribuivano redditi di cittadinanza e urlavano «viva la fica!». Considero The Universal una delle canzoni più belle mai scritte, però devo essere onesto: non ha la capacità di Don’t Look Back in Anger di far sì che 30 ciccioni che campano con l’assegno di disoccupazione alla decima pinta in un pub di Brighton si abbraccino fraternamente e intonino la canzone all’unisono. Gli Oasis dovevano vincere. Per tutta l’Inghilterra, per tutti i poveracci, per noi. Erano noi. Avevano qualcosa di unico rispetto ai contemporanei, forse ancora più dirompente e unificante delle loro ballatone perfette per diventare inni da stadio: la capacità di manipolare e monopolizzare l’informazione a proprio piacimento.

Sin dagli esordi appare infatti evidente che uno degli innegabili motori della band è la tensione antimaterica che si crea tra Noel e Liam. Il maggiore, introspettivo e autore di tutte le canzoni, non potrebbe essere più diverso dal minore, frontman arrogante e imprevedibile. Gli Oasis sono loro, parliamoci chiaro: gli altri membri della band mi sono sempre sembrati Gigi e Andrea +1, docili gregari che fanno il lavoro senza rompere troppo i coglioni, tanto che dopo poco saranno sostituiti con session men più capaci ma percepiti come non altrettanto autentici. Liam e Noel sono il motore del gruppo, lo yin e lo yang, Hokuto e Nanto, mazza e panella, ma hanno un problema: non si sopportano.

Sono abituati fin da piccoli alle tensioni dopotutto. Il padre Tommy è un alcolizzato e spesso picchia la moglie Peggy poi, per non fare sentire esclusi i figli, corca di botte anche Paul, il primogenito della famiglia e appunto Noel. È la musica a salvare lui e Liam da un destino fatto di lavoretti saltuari da carpentiere, case fatiscenti di cartongesso e 20 pinte al pub sotto casa intervallate dalla sapida gag “tira il dito”. Arrivano ville e Rolls Royce ma loro sono ancora quelli lì, gli sfigati marginalizzati del quartiere operaio di Manchester.

Nella metà degli anni ’90, il periodo della loro fulminea ascesa e consacrazione a dei dell’olimpo del rock su MTV e All Music, attendo con febbrile eccitazione ogni loro intervista: lo sguardo spento da bifolchi fermi a uno stadio evolutivo appena precedente al Sapiens, lo scazzo, il nervosismo che serpeggia tra i due fratelli dopo ogni domanda rendono anche la più pallosa e istituzionale chiacchierata con un giornalista una specie di opera d’arte situazionista. Non assomigliano in questo a nessun altro, danno risposte secche e sparano a zero su altri artisti, band e loro stessi. Molti anni dopo migliaia di noi assistono con lo stesso rapito sbigottimento ai video virali come quello del macellaio toscano che interrogato sul perché la fiorentina costi così tanto prorompe in un liberatorio «ma io che cazzo ne so?». Ha il sapore della vita vera, è autentico. Come i Gallagher. Qualche anno fa ho raccolto in un articolo le loro sparate più memorabili e non ho dubbi: buona parte della loro grandezza si deve all’attrito fratricida.

Ovviamente quest’escalation di insulti non può durare per sempre: fatale, come sappiamo, è l’alterco antecedente al concerto a Parigi per il Rock in Seine, di cui oggi (è il 28 agosto mentre sto scrivendo queste righe) ricorre il 15esimo anniversario. È a quel punto che Noel decide di mollare. In fondo dopo Be Here Now il gruppo sembra aver perso ispirazione, sembra trascinarsi stancamente. Come dice il mio amico Simone Tolomelli, grande fan, musicalmente hanno dato tutto in Don’t Look Back in Anger e Champagne Supernova e dopo la parentesi di Wonderwall hanno scritto un’unica canzone cambiando di volta in volta i testi.

Dopo lo scisma il mio interesse per i fratelli coltelli del rock inglese aumenta, vista la propensione dei due all’insult comedy. Entrambi si dedicano alle loro carriere soliste ben consapevoli che è fisicamente impossibile emanciparsi da passato così ingombrante come quello degli Oasis e ricordo che, almeno inizialmente, è Liam quello che i bookmaker danno per spacciato nel giro di pochi anni rispetto al compositore capo Noel. Invece, a sorpresa, è proprio il giovane Gallagher a ereditare progressivamente quella sfrontatezza working class, quel carisma proletario fatto di sfottò & guasconeria prerogativa dell’età dell’oro della band e che me lo rendono un idolo ancora di più rispetto ai fasti del Brit pop. Ogni intervista che rilascia fa più ridere di uno special di Gervais su Netflix, anche perché sai che quello che dice Liam non se lo scrive. Guardatelo mentre risponde a dei ragazzini in un video di Vice giustamente divenuto mitologico e ditemi se non è la personificazione vivente di BoJack Horseman o Danny McBride in Eastbound & Down. Anche la sua produzione artistica migliora, basta sentire l’ultimo lavoro in tandem con John Squire, leggendario chitarrista degli Stone Roses: non stiamo ovviamente parlando di rivoluzioni ma il tiro, l’attitudine e lo spirito bastano a far esaurire tutti i biglietti del tour inglese in 30 secondi.

Noel invece mi appare fiacco, perso nelle spirali del suo innocuo cantautorato, imborghesito. Contrariamente al fratello, ha rinnegato la propria natura da tamarro della circonvallazione esterna ed è stato anche quello che si è dimostrato meno propenso all’idea di riformare gli Oasis. Nella ormai celebre intervista a Jonathan Ross del 2021, all’affermazione del conduttore che sarebbero stati offerti 100 milioni di sterline ai fratelli per riunire la band risponde divertito: «Non è vero! Non ci sono 100 milioni di sterline nell’industria musicale! Ma lo dico qui: se mi offrono 100 milioni di sterline lo faccio» (Liam aveva commentato con un tweet: «Io lo farei gratis»).

Beh, ora, tre anni dopo, di milioni gliene hanno offerti 60. Cosa gli ha fatto cambiare idea? Probabilmente il sanguinosissimo divorzio dall’ex moglie Sarah MacDonald costatogli 20 milioni di sterline più la lussureggiante villa nell’Essex da 8 milioni può avere inciso. Ma io sono un romantico e continuo a credere che uno scorpione, anche se ha promesso alla rana che non lo pungerà pur di attraversare il fiume, non può rinnegare per sempre la propria natura. E che forse, come ogni mito di fondazione basato sulla rivalità fraterna, non può esistere Castore senza Polluce. Ci vediamo nel 2025, definitely ma anche maybe.

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