Prova a farlo da anni la Mostra, ma quest’anno sta riuscendo ad abbinare i film che vengono proposti giornalmente con gusto e cura sorprendenti. In apertura l’aldilà, il rapporto tra vita e morte, il paradiso/inferno slapstick macabro e scatenato di Tim Burton e il limbo esistenzialista di Valerio Mastandrea. Il secondo giorno è Sudamerica in due incarnazioni che non potrebbero essere più opposte: l’eleganza del Pablo Larraín più hollywoodiano con lo studio sulla/e diva/e Maria Callas/Angelina Jolie e l’eccentricità di Luis Ortega, al suo ottavo film, ma conosciuto nel circuito dei festival soprattutto per El Ángel (da noi L’angelo del crimine), tratto dalla storia vera di un serial killer argentino adolescente dalla faccia d’angelo, prodotto da Pedro Almodóvar (ci torniamo) e nel 2018 a Cannes in Un certain regard.
Con El Jockey, in concorso a Venezia 81, siamo sempre in Argentina, questa volta all’ippodromo di Buenos Aires: i cavalli partono dai loro gabbiotti, ma Remo Manfredini (menzione speciale per il nome bellissimo) cade malamente ancora prima di uscire. È il migliore, una leggenda, ma non ha mai corso sobrio, dice la fidanzata Abril (giusta Úrsula Corberó, Tokyo della Casa di Carta), anche lei fantino di professione, quella affidabile della coppia. “Sappiamo tutto della tua insaziabile sete di disastro”, gli dice il boss per cui entrambi lavorano, Sirena (Daniel Giménez Cacho), malavitoso con un kink che pare totalmente random: tiene sempre in braccio un bambino che ha meno di un anno, non cresce mai e cambia aspetto. Com’è possibile? Vi starete chiedendo: sì, dispone di una collezione di bebè. Tutto vero.
“La gente va a cavallo per i motivi più disparati”, attacca Remo. “Cavalca per arrivare a destinazione più rapidamente o per fare una guerra in modo più efficace. Ma spesso cavalca per scappare”. Detto fatto: Sirena costringe Manfredini a montare il suo cavallo migliore, Mishima (!), appena arrivato dal Giappone. Questa volta il fantino riesce a uscire esce dal cancelletto, è ampiamente in testa, ma si dirige a spron battuto fuori dalla pista.
“Le lesioni che ha riportato non sono compatibili con la vita”, sentenziano i medici in ospedale, eppure lui si risveglia, la sua identità inizia a disgregarsi, a mutare, ruba una pelliccia e una borsetta che trova nella stanza e inizia a vagare per le strade con in testa una fasciatura che ricorda il copricapo di un faraone. Lo cerca la fidanzata incinta (che nel frattempo viene corteggiata da un’altra collega, alias Mariana Di Girolamo, la Ema di Larraín), lo cerca Sirena, ma nulla: Remo – che inizia a farsi chiamare Dolores – ha un’agenda tutta sua.
Nahuel Pérez Biscayart (120 battiti al minuto) dà vita prima a una rockstar delle corse (vedi l’acconciatura à la Lou Reed) tutta ketamina, whisky e richieste di golden shower, e poi a una sorta di anti-eroe da cinema muto con un’aria comicamente tormentata e una serie di sfumature impressionanti, un po’ Buster Keaton e un po’ – indovinate – protagonista di un film di Almodóvar. C’è anche (più di) qualcosa di Kaurismäki, d’altra parte il direttore della fotografia è lo stesso, Timo Salminen, ma lo humour impassibile e l’inclinazione per l’assurdo sono sciolti in una sovrabbondanza di toni ed emotività tutti latini, vedi chicche come “la disgrazia è una scuola”, sentenza pronunciata da uno degli scagnozzi del boss. E il balletto di Corberó e Pérez Biscayart è instant cult, vedere per credere.
El Jockey è un’opera difficilmente etichettabile, come il suo stesso protagonista: una commedia surreale e grottesca venata di thriller, uno sport movie intrecciato indissolubilmente con la gangster story, ma nello stesso tempo una storia queer e magnificamente camp: è uno studio su un personaggio in divenire, fluido in ogni accezione possibile. È un film tamarro, irriverente, spassoso, audace, anche un tantino presuntuoso, ma originalissimo, vibrante, folle. C’è sempre ai festival il film che non ti aspetti, il cavallo pazzo (pardon) che spariglia la corsa (ari-pardon) e diventa un must see. Ecco, a Venezia 81 per ora quel film è El Jockey.